Ciao
a tutti!
Lasciatemi
fare questa premessa, e leggetela, per favore (proverò ad
essere breve),
altrimenti non capirete quello che segue.
È
passata un’infinità di tempo (quanto, uno? Due
anni?), e in questo tempo non
sono stata a sollazzarmi. Ho iniziato
l’università, ho scritto, lo letto, ho
visto e… ho anche vissuto. E ho trovato un posticino nel mio
tempo per
continuare a coltivare questa storia. Volevo che l’intera
Cullen’s Love fosse
corretta prima di iniziare a pubblicare gli extra. Non sono andata
tanto
lontano, ma almeno ho corretto i primi capitoli. Ho deciso di
pubblicare
comunque, perché non era giusto farvi aspettare ancora. Per
chi sta leggendo la
storia corretta vi assicuro che continuerò il lavoro.
Veniamo
alla parte succulenta, gli extra. Ho deciso di pubblicarli in una
“storia” a sé
stante.
Il
primo
extra tratterà di
quel periodo che va da quando Edward trova Bella a Goat Rocks,
liberandola da
Jacob, fino a quando lei non capirà di aspettare un bambino,
tutto dal pov
Edward. Non è un mero cambio di pov (anzi, quasi per
niente), perché con gli
occhi del bel vampiro vedremo quasi ed esclusivamente situazioni
inedite.
Il
secondo
extra tratterà
invece del periodo che va dalla nascita di
Kate fino sostanzialmente all’epilogo attuale della storia,
riempiendo il salto
temporale. I pov saranno alternati fra quello di Edward e quello di
Bella.
Preoccupate
per il fatto che gli extra siano solo due? Non siatelo. Gli extra sono
abbastanza lunghi da poterli considerare un piccolo seguito.
Ed
ora, semplicemente, godeteveli.
Edward e Bella si trovano nella
baita dove Jacob l’ha
tenuta prigioniera. Il passo riportato è un
Edwrad’s POV, appena dopo che Bella
ha ucciso il suo carceriere. Si può trovare nel
Bella’s POV nel capitolo
originale (27 “Sopravvivere”).
Giorno 1:
1 Settembre.
Una scia di sangue mi separava dal
suo corpo odoroso.
Non era qualcosa di spaventoso, di inquietante, di disgustoso. Il
pensiero che
dovessi far vincere la mia parte razionale per sentirmi spaventato e
preoccupato mi faceva sentire solo quello che ero: un mostro.
«Bella» la
chiamai, sollevando una mano, tremante,
verso il suo viso. I suoi occhi erano vitrei, lontani, persi. Aveva i
polpastrelli incollati alle labbra, e le toccava, le sfregava, come
faceva
sempre quando si sentiva sola, quando si sentiva impaurita.
«Bella amore, sono
qui…» mormorai, più che flebile, nel
tentativo vano di rassicurarla e
contemporaneamente trovare un modo, un motivo, uno spazio qualsiasi per
abbracciarla, dopo tutto quel tempo, troppo, per cui mi era stata
strappata via.
Mi chinai vicino al suo corpo,
accasciato contro la
parete legnosa di quel muro che l’aveva tenuta prigioniera.
Ogni boccata del
suo profumo era tanto piacevole da essere dolorosa.
Allungai le braccia, continuando a
pronunciare il suo
nome, misto di confortanti parole che mi sgorgavano dalle labbra.
Sussultò,
tremò. Farfugliò, con le labbra agitate.
«Lasciami… l’ho
ucciso…».
Lasciami.
Pulsò saettante nella mia mente. I vampiri sono creature
incorruttibili, ma
quando provano dolore, è come se fosse miliardi di volte
amplificato. Presi un
respiro, e lessi lo shock nei suoi occhi. Era terrorizzata.
Allungai una mano, e per un attimo
pensai che stesse
tremando. No. Non era la mia mano, era il corpo di Bella, a tremare.
Erano le
sue gambe, intrise di sangue, sfregate convulsamente l’una
sull’altra.
Presi un altro fiato, facendomi
passare il fiele nei
polmoni. «Bella, amore, vieni qui» la supplicai.
Non sapevo davvero se fossi io
a lei ad avere più bisogno dell’altro.
«Vieni da me, ti devo aiutare, stai male».
Si prese il capo fra le mani,
scosse il capo. I miei
occhi precipitarono ancora vero il basso, verso il sangue. Aveva appena
ucciso.
Chissà cosa le aveva fatto. Il sangue.
«Fa
male…» singhiozzò, l’inizio
di una cantilena «fa
male, fa male…».
Annaspai, allungando entrambe le
braccia nella sua
direzione. L’unico modo per mettere a tacere quel dolore che
non stavo provando
era riaverla, lì, dove era solo il suo spazio. Dove il vuoto
aveva invitato
l’agonia. «Lo so amore, lo so».
Il suo corpo fu attraversato da uno
spasmo. «Non ti
avvicinare!».
«Amore, vieni con me, ti
porto da Carlisle, starai
meglio…».
Si ripiegò su
sé stessa, riprendendo a farfugliare. I
capelli erano arruffati, i vestiti laceri, la pelle bianca e pallida
sotto lo
strato di sangue e sporcizia. Cosa stavo osservando? La mia morte aveva
forse
deciso di rivelarsi? E se così non era, perché
allora mi sentivo peggio che
morto?
La richiamai, tendendo una mano
verso il suo viso.
Dolce, dovevo essere dolce, e lieve, perché lei era davvero
troppo fragile.
«Stai perdendo sangue».
Deglutì, come se per un
attimo avesse ritrovato la sua
ragione, e abbassò il viso sul suo corpo. Il capo
ondeggiò verso la parete.
Automaticamente mi sporsi ad
afferrarla, ma si
ritrasse. Bruciava come il veleno di vampiro.
«Se vuoi ti medico io,
magari non c’è bisogno di Carlisle, ti prego
Bella, fatti aiutare».
Sussultò,
singhiozzò, e sollevò gli occhi su di me.
Era pallore, morte, e sangue, come quello iniettato nei suoi occhi
vuoti. Che
ne era della donna che amavo? Che me ne aveva lasciato, se non
brandelli di
anima dopo averla lacerata? «No… non mi
toccare…».
«Bella».
Se avessi saputo che, per molto
tempo, quella sarebbe
stata la sua ultima parola, e che non avrebbe più voluto
vivere, probabilmente
non sarei sopravvissuto al dolore. Ma fortunatamente, vampiri o no,
spesso il
futuro preferisce nascondersi.
«No».
Bruciava più
che il veleno di vampiro.
Giorno 4:
4 Settembre. Quattro giorni dopo, non abbastanza perché le
condizioni di Bella
siano migliorate. Siamo ancora nelle prime fasi, le peggiori.
Mi accampai sotto un albero
abbastanza grande perché
potessi rimanere asciutto. Non che mi importasse qualcosa di bagnarmi o
meno,
ma non avrei voluto entrare in camera fradicio, rischiando - qualora
avesse
voluto anche solo toccarmi - di bagnarla.
Sospirai, facendo entrare e uscire
l’aria umida nei
polmoni. Mi sentivo davvero vuoto.
Avevo creduto di essere morto
quando Jacob me l’aveva
portata via, ma non avevo fatto i conti con quello che mi aspettava
dopo. Come
avrei potuto immaginare, d’altronde, che il mio amore, Bella,
mia moglie, si
riducesse in questo stato?
Strinsi le nocche di una mano,
serrando
contemporaneamente i muscoli della mascella e irrigidendo il corpo.
Dovevo
avere fede. Era salva, e questo importava. Si sarebbe ripresa. Presto.
Temporeggiai sul ramo, aspettando
prima di rientrare
in casa. Mi era sembrato assurdo che dovessi uscire mentre mia sorella
medicava
mia moglie in bagno. E non solo perché ardevo fra il terrore
e il desiderio di
sapere cosa le avesse fatto quel mostro, ma anche perché era
dannatamente ed
egoisticamente arrabbiato dal fatto che Bella avesse scelto lei.
Rosalie. Aveva
scelto mia sorella Rosalie anziché me, per fidarsi.
E invece io avrei potuto curarla,
vezzeggiarla,
parlarle, accarezzarla…
Se solo me l’avesse
permesso.
Rose diceva che era proprio il
contrario. Era perché
l’aveva sempre trattata freddamente, perché con
lei non aveva nulla da perdere,
che non si vergognava. Con me, invece…
Non è semplice vergogna,
Edward. Fa così male da non
riuscire a respirare. A vivere. Così
aveva detto. Da ritenere di non meritare neppure di mangiare.
Figurarsi
il mio amore.
Ma l’avrei anche
volentieri stretto in un minuscolo
cassettino, questo mio amore, se avesse significato che poteva
concedermi
almeno di sfiorarla un attimo…
«Chiama qualcuno, chiama
Esme!» gridò la voce agitata
di Rose, oltre il bosco.
Mi drizzai immediatamente, balzando
giù dal ramo. E
cominciai a correre.
«Ma cosa…? Che
succede?» domandò sorpreso mio padre.
«Non lo so,
lei… Dobbiamo rimanere calmi, va bene?
Calmi».
E correre, correre, e correre.
«Cosa diavolo
è successo? Dimmi, cosa diavolo è
successo!» sbraitai, urlando contro mia sorella.
Restò ferma nella sua
posizione, senza farsi
intimorire. «Te l’ho già detto, Edward.
Smettila di minacciarmi. Ero solo
andata a prenderle un po’ d’acqua e si è
chiusa là dentro. Mi sono allontanata
solo un secondo».
Ansimai di rabbia, la vista
accecata di rosso. «E
spiegami, perché, dannazione, è ancora
lì dentro!» urlai, indicando con un dito
la porta del bagno chiusa dentro cui si era barricata mia moglie.
Prese un respiro secco, come se
così avrebbe calmato
anche me. Illusa. «Non possiamo costringerla ad uscire.
È contro ogni passo che
ho cercato di fare con lei in questi giorni»
sibilò, a voce bassa in modo che
non potesse udire «le ho detto che era libera. Se ora la
obbligassi, perderei
ogni cosa».
Strinsi i denti, angosciato.
«Non mi sembra che tu
abbia fatto molti progressi, eh Rose?».
«Ragazzi,
calmiamoci» intervenne Carlisle, mettendosi
fra di noi. «Ora l’importante è
convincerla ad uscire di lì. Non litigate».
Mi voltai nella sua direzione,
infuriato. «Non è
questo l’importante, no! L’importante è
distruggere quella dannata porta e
tirarla fuori di lì, perché io non so, davvero,
cos’hai lì dentro, ma non credo
che manchino lame e siringhe» ansimai, rabbioso.
Uno strano silenzio calò
nella stanza. Due secondi.
Stavo per distruggere la porta quando sentii dei suoni. Dei singhiozzi.
Presi un respiro, chiudendo gli
occhi. Liberai tutta
l’aria che avevo conservato nei polmoni e mi avvicinai alla
porta del bagno.
Mia sorella mi posò una mano su un braccio, ma me ne liberai
con un movimento
secco.
Posai la mano sulla porta. E
bussai. «Bella. Amore» la
chiamai, alzando appena la voce. Ancora singhiozzi. «Amore,
vorresti uscire di
lì, per favore?». Per un attimo si
fermò, per ricominciare. Sospirai,
lasciandomi scivolare contro il legno. «Va tutto bene,
è chiaro? Va tutto bene.
Sono qui, sono qui per te. Va tutto bene».
La sentii respirare più
forte, e poi il suono delle
sue mani contro le piastrelle. Si stava spostando. Animato di speranza
tesi
l’orecchio ad aspettare che si avvicinasse ancora. Ma si
bloccò, urtando contro
qualcosa. Ansimai, terrorizzato, pronto a distruggere quella porta che
ci
separava e salvarla. Meglio una moglie muta che morta.
Due secondi dopo sentii
l’inconfondibile suono dei
conati filtrare dalla porta per giungere nitidamente a me, misti
all’odore acre
che si spandeva per la stanza.
Feci per sollevarmi ed entrare e
aprii la bocca per
parlare, ma mia sorella Rose mi bloccò, mettendomi una mano
sulla bocca. Si
portò un dito alle labbra, intimandomi di tacere.
La fissai, irato. «Fai
silenzio, ora. Aspetta che
finisca. Se le parli adesso non otterrai nulla, tranne che farla stare
male. È
vulnerabile. Si sente in colpa. Aspetta…»
m’intimò, sollevando lo sguardo
verso la porta «…qualche secondo»
pensò, e poi tolse la mano che aveva tenuto
premuta sulle mie labbra.
Deglutii, non sentendo
più i conati far vibrare
l’aria. «Vuoi uscire per favore, Bella? Ti sto
aspettando. Vorrei che venissi
qui con me. Puoi uscire?» domandai speranzoso, la voce ora
venata da un lieve
tremito.
La sentii ancora muoversi nella mia
direzione. Si era
sollevata in piedi. Feci lo stesso, aspettando agitato appena dietro la
porta. Girò
la chiave nella serratura. La maniglia si abbassò, mentre i
miei occhi erano
diretti in quelli di mia moglie.
Era pallida, smunta. I capelli, che
Rose aveva
convinto a lavare, erano disordinati e avevano assunto la forma del
cuscino sulla
nuca. Risaltavano così scuri, gli occhi, sul volto pallido.
Sospirai, sollevato. Era viva. Per
essere stato così
tanto tempo a mettere in dubbio qualcosa di così basilare
come la sua vita, ora
non potevo non sorridere appena la vedevo. E così feci.
Due lacrime, una per occhio,
scesero lungo le sue
guance, il viso ancora nascosto in parte dalla porta che teneva
semi-aperta.
Il sorriso vacillò per
un attimo. Un attimo. L’attimo
in cui mi ripetei che mia moglie era viva, e che tutto sarebbe comunque
andato
per il meglio. «Vuoi tornare a letto? Sei stanca?»
domandai con dolcezza, non
osando neppure toccarla, nonostante uno dei miei più grandi
desideri fosse
quello di sfiorarle una lacrima.
Piano, annuì, senza
staccare gli occhi dai miei. Aprì
un po’ di più la porta, quanto bastasse per
lasciare scivolare il suo corpo
esile. Osservò, fuggevole, mia sorella e mio padre, in piedi
nella stanza,
abbassando immediatamente lo sguardo. Camminavo accanto a lei, pronto,
in ogni
secondo, al momento in cui mi avrebbe concesso di toccarla. Di iniziare
ad
aiutarla.
Dopo tre passi si fermò.
Impallidì e tremò,
vacillando.
Mi feci avanti, ansioso.
«Ce la fai? Se non riesci a
camminare ti posso prendere io, ti posso portare a letto…
solo un secondo, il
tempo di…».
Scosse il capo, lasciando cadere
altre lacrime, ferma
sul posto e tremante.
«Ma solo
per…» soffiai, senza staccare gli occhi dalla
sua guancia bagnata.
Rose si avvicinò in un
secondo, tenendole la mano.
«Vieni qui, Bella. Ti porto io. Non ti stancare, potresti
riaprire le ferite»
disse, e con un movimento fluido la prese fra la braccia.
Non si mosse. Rimase ferma,
composta, gli occhi bassi,
senza lasciarsi andare contro il petto di mia sorella.
Oh… avrei
così tanto voluto poter piangere anch’io.
Mi avvicinai al suo letto. Si era
rannicchiata, al
centro. Tirai un sospiro, sorrisi, e sollevai le coperte fino a
coprirla
completamente. Senza nemmeno sfiorarla, come mi aveva chiesto.
Feci per chinarmi e baciarle la
fronte, ma mi bloccai,
a soli pochi millimetri di distanza.
«Ti amo»
sussurrai invece, e capii, dallo
sguardo nei suoi occhi, che mi aveva sentito.
Eccoci
qui!
Spero
tanto che vi sia piaciuto, l’ho scritto col cuore.
Solo
un’altra piccola cosa: io e tsukinoshippo
stiamo scrivendo una specie di
quattro mani.
“The
Woodmore Sisters”. Si tratta di un ff storica,
piena di gonne vaporose e amore,
che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli appena
nati o
in arrivo.
Un
bacio a tutte, a presto,
Chicca.