CAPITOLO 16
Viene un
giorno nella vita di un uomo in cui è costretto a mettere da parte
tutte le sue
angosce, i suoi pensieri, i problemi che gli opprimono il cuore
soffocandolo
lentamente e dolorosamente per un fine più grande, un obiettivo che si
è prefissato
fin da quando gli è stato messo un pallone tra i piedi.
Ecco. Quello
era il mio momento.
Mi ero alzato
dal letto quella mattina, dopo aver passato la notte completamente in
bianco,
con l’unico pensiero della partita. Celeste era stata spinta a forza e
relegata
in un angolo lontano della mia mente, lasciando spazio solamente agli
schemi di
gioco e alla concentrazione. Non c’erano parole d’incoraggiamento, non
c’erano
speranze, ma soltanto un obiettivo: la vittoria.
I quarti di
finale erano a pochi passi da me, avrei potuto sfiorarli con le dita e
sentire
la consistenza del successo tornare ad essere tangibile dopo quelli che
sembravano secoli. Era vero, in quel periodo la mia carriera mi era un
po’
sfuggita di mano, ma ora dovevo riprendere tutto e concentrarmi. Anche
se
dentro sentivo un vuoto enorme, come se una voragine si stesse
lentamente
aprendo dall’epicentro del mio cuore, lasciando assorbire tutto ciò che
di più
umano avessi al mondo, dovevo farmi scivolare le preoccupazioni di
dosso.
Ora che ero
abbandonato di peso su una panchina negli spogliatoi, con i gomiti
poggiati
sulle cosce e la testa racchiusa tra le mani. Avevo infossato le dita
tra i
capelli. I corti riccioli scuri scivolavano tra i polpastrelli ruvidi,
rovinati
da anni e anni di allenamenti e corse sotto la pioggia battente. Me ne
stavo a
pensare, da solo, come altri miei compagni più emotivi del
sottoscritto, che a
pochi minuti dalla partita più importante della nostra vita si
ritagliavano un
angoletto, magari per pregare qualcuno lassù che ci potesse aiutare.
Vuoi che reciti il Padre
Nostro?
Inspirai
profondamente ignorando quel pungente pensiero del mio Ego. Non ero mai
stato
un tipo religioso. Da piccolo ricordavo che mia madre mi obbligava ad
andare in
chiesa, ma non appena avevo cominciato a giocare, le Domeniche erano
state
riempite unicamente dagli allenamenti, dalle partitelle o dalle gite
allo
stadio per vedermi giocare. Non c’era mai stato nella mia vita lo
spazio per
qualcun altro che non fosse Leonardo stesso. In quel momento mi sentii
profondamente solo, quasi smarrito.
Strinsi le
mani a pugno, conficcandomi le unghie nel palmo per poi riaprire la
mano e
vedere delle piccole mezze-lune impresse sulla carne. C’era così tanto
di me
scritto su quel lembo di pelle, una volta mi feci leggere la mano da
una
indovina.
Tutte stronzate.
Era difficile
ignorare ciò che stavo tentando inutilmente di impormi, focalizzando i
pensieri
unicamente sulla partita. Non c’era in gioco soltanto il destino della
società,
ma anche il mio futuro. Se la Roma fosse arrivata alla semifinale,
sicuramente
ci sarebbe stata più visibilità per tutta la rosa, soprattutto per il
sottoscritto. Se il mio desiderio di giocare in un club inglese si
fosse
finalmente avverato, almeno avrei potuto allontanarmi definitivamente
da Roma e
magari iniziare una nuova vita, senza più pensieri per la testa.
Nessuno più
ad intralciare il mio percorso verso la carriera perfetta.
Verso il
pallone d’oro.
Verso una
vita che mi avrebbe permesso al mio nome di riecheggiare in eterno…
…tra la solitudine dei
ricordi.
Scacciai via
quel pensiero, insieme ad un lungo brivido di freddo. C’erano degli
spifferi in
quello spogliatoio, forse l’aria densa e umida di Londra non mi avrebbe
fatto
bene. Alzai di poco lo sguardo sul muro e vidi l’orologio che segnava
mezz’ora
all’inizio del big match.
Mi tesi come
una corda di violino.
Solitamente
affrontavo le sfide di petto, fregandomene altamente dei risultati
perché ero
più che sicuro di spaccare in qualsiasi cosa facessi, che si trattasse
di
calcio, di donne o altro. Questa volta mi sentii improvvisamente debole.
Non è che ti stai ammalando?
«Bella
Leona’, nervoso?» mi domandò d’improvviso Marco, sedendosi di peso
accanto al
sottoscritto.
Lo fissai di
sottecchi e sbuffai. Certo che ero nervoso, cazzo. Ero teso come una
fottuta
corda di violino!
«No. Sto
sciallo,» mentii tranquillamente, ormai mi riusciva così bene.
C’era ancora quel
pensiero che tornò preponderante
nella mia testa, come un tarlo che scavava lentamente nel legno
guadagnando centimetri
nella mia materia grigia.
Quella poca che ti è rimasta…
Borriello mi
fissò sospettoso. «Non me la racconti giusta, ma farò finta di
crederti,»
sorrise sbieco.
Più passavo
del tempo insieme a Marco e più realizzavo che magari in un’altra vita
aveva
fatto lo psicologo, o qualcosa che andasse di gran lunga vicino a
quella
professione. Era come se dietro quello sguardo si nascondesse un
pensiero ben
più profondo, come se riuscisse a capirmi quasi meglio di me stesso.
«Te, invece?»
gli domandai, riferendomi sempre all’ansia prepartita.
Marco scrollò
le spalle, poi alzò lo sguardo verso gli altri che nel frattempo si
stringevano
le stringhe degli scarpini o si aggiustavano i parastinchi. «Sai come
la penso.
O la va o la spacca stasera. Non importa se vinciamo o perdiamo,
l’importante è
fare il culo a quel cazzone di tuo cugino,» sghignazzò, tirandomi di
gran lunga
su il morale.
Se c’era una
cosa con cui mi sarei trovato d’accordo persino con un laziale, sarebbe
stato
Simone. Odiavo profondamente il suo comportamento strafottente e quella
presunzione che mi sbatteva in faccia ogni volta che ci vedevamo.
«Puoi dirlo
forte. A costo di consumarmi i polmoni, questa sera farò avanti e
indietro pur
di fargli sparire quel sorrisetto dalla faccia,» promisi, con
l’adrenalina che
scorreva nelle vene.
«Bene,»
sorrise Marco. «È così che ti vogliamo, Sogno. Carico!»
Sorrisi a
Borriello e dimenticai completamente quegli asti che c’erano stati tra
di noi
in tutti quegli anni che avevamo giocato l’uno affianco all’altro. Alla
fine
grazie a Marco avevo capito molte cose di me stesso e mi costava molto
ammetterlo, ma Borriello era quanto più vicino ad un amico avessi nella
mia
vita.
Prima che la
situazione potesse calare in un silenzio imbarazzante, il Mister
Montella fece
il suo ingresso nello spogliatoio e il brusio calò immediatamente,
riducendo il
tutto ad un silenzio ovattato.
La tensione
in quella stanza si poteva tagliare con un coltello.
Il Mister si
posizionò proprio al centro della sala, con tutti gli occhi puntati su
di lui.
Sapevo che era venuto il momento del “discorso” d’incoraggiamento, uno
di quei
memorabili dialoghi da film epici come Ogni
maledetta Domenica.
Quella che
stavamo per affrontare sarebbe stata la partita del secolo. Non era
certo la
finale, per quella c’era ancora tempo, ma di sicuro era un passo
importante per
tutti, in particolar modo per il sottoscritto.
«Ragazzi
miei, questa sera affronteremo una delle sfide più ardue ma non per
questo
impossibili da superare,» iniziò, con la voce calma e rilassata. Era
entusiasmante con quanta passione affermasse quel “noi” in tutti i
discorsi che
iniziava, quasi come se il Mister giocasse ancora con noi, fianco a
fianco,
senza mai lasciarci. Tutti pendevano dalle sue labbra, compreso il
Capitano che
annuiva convinto. «Siamo stati molto bravi ad arrivare fin qui, sono
anni che
la società non raggiunge un risultato così ampio, ed è proprio per
questo che
non possiamo gettare la spugna. Almeno non ora. Dobbiamo insistere,
combattere
come gladiatori, quasi ne valesse la nostra vita.»
Lasciò calare
il silenzio, in modo che ognuno di noi potesse riflettere su quelle
parole.
Inspirai
forte tutta l’aria che riuscii a trattenere nei polmoni, cercando di
scacciare
via una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Avevo tutte le
carte in
regola per sfondare, avrei potuto facilmente vincere tutto, eppure era
come se
non mi sentissi sicuro.
Come se non
fossi completo.
Almeno non più.
«Oggi non vi
chiedo di fare miracoli, perché non pretendo nulla da voi, ma so che
avete le
possibilità e le qualità di vincerla questa partita. Io credo in voi e
nel
vostro talento, quindi non deludetemi,» soffiò infine, con la voce
lievemente
incrinata dall’emozione.
Nessuno
rimaneva impassibile di fronte ad una delle sfide più importanti della
stagione.
Avevamo fatto
tanto per arrivare sino a lì e forse era la prima volta che cominciavo
a
pensare al “noi” come squadra e non solo a Leonardo Sogno. Forse
davvero mi
sentivo diverso dal me stesso di un mese prima.
Chissà per quale arcana
ragione…
Tentai di
sforzarmi per non pensare a quello, a quel
pensiero che cercava di incunearsi nella mia mente e spingere per poter
entrare, ma io lo respingevo fuori. Dovevo concentrarmi, non potevo
permettermi
altri errori.
Già avevo
mandato a puttane una parte della mia vita, ci mancava anche
quell’altra. Alla
fine non mi sarebbe rimasto più nulla e sarei lentamente sprofondato.
«Forza
ragazzi, dobbiamo andare,» ci disse il Mister, battendo le mani con la
cartelletta degli schemi ferma sotto il braccio.
Il fatidico
momento era arrivato e nel momento stesso in cui mi alzai dalla
panchina, per
la prima volta sentii le gambe tremare leggermente. Non ero mai stato
un tipo
emotivo. Sin da piccolo ridevo in faccia al pericolo, come qualsiasi
adolescente
sprovveduto, ma una prima volta arrivava per tutti.
«Te senti
bene, bello?» mi chiese Daniele, vedendomi barcollante.
«Ovvio!»
rassicurai subito Capitan futuro.
La
sostituzione doveva essere l’ultimo dei miei pensieri. Quella partita
l’avrei
giocata, a qualunque costo, con quaranta di febbre oppure la nausea.
Ci avviammo
lungo il tunnel che conduceva al campo dell’Emirates Stadium, mentre i
miei
compagni cominciavano a scambiarsi battute e a sorridere per alleviare
la
tensione. C’era paura nell’aria, qualcosa d’intangibile che soltanto
poche
volte si era percepita.
Vidi capitan
Totti sfilarmi di fianco. Il suo sguardo azzurro come una falce
d’argento mi
inquadrò per un nano secondo, poi un lieve sorriso appena accennato fu
indirizzato al sottoscritto, prima di tornare ad ignorarmi.
Nonostante le
cose che gli avevo detto dietro, nonostante il mio desiderio di
prendere il suo
posto un giorno, oppure andarmene da quella squadra perché troppo in
ombra
rispetto ad un uomo ormai troppo vecchio per quel gioco, Francesco
Totti riuscì
in qualche modo a tranquillizzarmi senza nemmeno dire una parola.
«Nervoso,
cuginetto?»
Una voce
fastidiosa e pungente come mille aghi mi perforò un timpano proprio
quando
pensai di aver finalmente riacquistato un po’ di calma interiore. Mi
voltai
solo per incrociare gli occhi castano scuro dell’unico Sogno che avrei
odiato
ogni giorno della mia vita.
«Fottiti,
Simone,» gli ringhiai contro, mentre lo vidi fissarsi le unghie
ignorando
palesemente la mia minaccia.
Solo alla
fine rialzò gli occhi. «Sorry, hai detto qualcosa?» pronunciò,
lasciando
quel lieve accento britannico anche nella pronuncia italiana delle
parole. Di
sicuro una cosa dagli inglesi l’aveva ereditata alla perfezione, ed era
l’aria
snob.
Lo ignorai
fissando avanti il tunnel che si apriva sotto i miei occhi, così
cominciai a
saltellare sul posto per riscaldare i muscoli. Sentivo che Simone mi
stava
ancora fissando. Quel suo sguardo bruciava come fuoco sulla mia pelle
ma tentai
di farmi forza. Parlando con lui avrei finito unicamente per
innervosirmi ed
era quello che avevo tentato di evitare sin dall’inizio.
Rimani concentrato.
«Sei conscio
che la perderai questa partita,» insistette Simone, sicuro di sé. «Tu e
la tua
squadretta di pezzenti non potete competere contro i Gunners, contro
una
squadra della Premier, contro un modulo di gioco che esula
completamente dal torello a cui siete abituati voi
montanari.»
Strinsi le
mani a pugno, facendomi forza. Avrei voluto urlargli contro che era
inutile che
si comportava in quel modo, come se lui fosse nato in Inghilterra e noi
non
condividessimo almeno un quarto dei geni. Certe volte gli avrei sputato
in
faccia la verità, perché per quanto si sforzasse a marcare quel
fastidioso
accento anglosassone, rimaneva sempre mio cugino, romano, italiano e montanaro come il sottoscritto.
«Faremo i
conti,» sputai a denti stretti, fulminandolo. «Alla fine, Simone.
Soltanto alla
fine.»
Quelle parole
suonarono come una vera e propria minaccia, ma sperai con tutto me
stesso che
la finisse di dare aria alla bocca. Nessuno della mia famiglia mi aveva
mai
ostacolato, ma Simo era stato l’unico che ce l’aveva sempre avuta col
sottoscritto. Sin da piccoli avevamo gareggiato su tutto, che si
trattasse di
finire per primo la pasta al sugo o di arrivare a livello sedici a
metal gear
solid.
Una vita di
eterna rivalità che forse sarebbe finita quella stessa sera.
Forse.
«Le tue
minacce sono inutili, cuginetto,» ridacchiò Simone, senza dar il minimo
peso
alle mie parole. Nel frattempo vidi arrivare a passo sostenuto l’ormai
famoso
allenatore dell’Arsenal, uno dei più forti a mio parere.
Mr. Arsene
Wenger camminò velocemente lungo il corridoio, dritto come un fuso, con
i
capelli bianchi che ondeggiavano ai lati del viso spigoloso. Simone si
ammutolì
al suo passaggio, quasi come quando mio padre passava a controllarci
per vedere
se ci scannavamo a vicenda o meno.
Era un
fottuto codardo, nient’altro che questo.
Vedemmo gli
arbitri in cima alla fila, vicino all’uscita del tunnel. Da quella
posizione
potevo intravedere il verde del campo e i cori già riempivano il
silenzio dello
stadio. Dalla televisione avevo appreso che molti tifosi avevano
lasciato la
Capitale per dirigersi a Londra con il primo aereo, solamente per
seguire la
squadra.
Magari
qualche tempo fa non me ne sarebbe fregato nulla, ma adesso era motivo
d’orgoglio per me.
Il via libera
ci fu dato qualche secondo dopo, quando sentivo ormai lo stomaco
rivoltato e
annodato su sé stesso. Forse non mi era mai importato nulla del futuro
come in
quel momento, adesso che mi rimaneva soltanto quella parte di vita a
cui
aggrapparmi con tutte le forze.
«Ci vediamo
al novantesimo minuto, non piangere mi raccomando,» mi avvertì Simone
col
solito ghigno elfico stampato in faccia.
Non gli
risposi nemmeno. Mi limitai a rifilargli un’occhiata mista tra il “Ti
incenerisco” e il “Prova a ripeterlo e ti incenerisco”.
Inspirai
forte, scacciando via la tensione che si stava accumulando, poi avanzai
lentamente verso le luci artificiali montate sopra la volta
dell’Emirates Stadium.
Per un momento quel tunnel mi parve infinito, quasi come se si
trasformasse a
poco a poco nella metafora della mia vita.
Ne avevo
attraversati tanti di tunnel così, a partire dall’indimenticabile
esordio in
serie A all’Olimpico, applaudito da tutto il popolo di Roma. Alla fine
la mia
intera esistenza, tutti i ventitré anni di Leonardo Sogno si riducevano
ad un
chilometro, forse meno, di pavimento in linoleum maleodorante e umido,
alla cui
fine si celava la vittoria o la sconfitta.
O bianco o
nero.
Il cinquanta
percento delle possibilità, perché non era quasi mai contemplato il
pareggio.
Nella mia vita non esistevano le sfumature, non c’era il grigio, forse
perché
troppo spento e triste per uno come me.
Avrei
preferito di gran lunga l’azzurro. Anzi no, il celeste.
Non ebbi
altro tempo per pensare. La luce stava diventando sempre più intensa,
passo
dopo passo, inghiottendo ogni fibra del mio corpo e costringendomi a
deviare lo
sguardo. Socchiusi le palpebre, ignorando il senso di solitudine, e
lasciai che
i migliaia di tifosi seduti sugli spalti fossero le uniche cose di cui
avessi
bisogno.
***
Londra era
una città ferma nel tempo, o almeno questa fu l’impressione che ebbi
appena
messo piede a King’s Cross.
Eravamo
atterrati ad Heatrow in orario e avevo passato la maggior parte del
tempo a
sentirmi stritolare la mano da un Robbeo frignante in piena crisi
isterica. Non
sapevo cosa lo avesse spinto a salire su un aereo, quando aveva paura
perfino
di affacciarsi fuori al balcone.
«Siamo
atterrati?» squittì.
«No.»
«Ora?»
«No.»
Lasciò
passare altri tre minuti, aumentando l’intensità della stretta e poi mi
cercò
con la coda dell’occhio.
«Manca poco!»
sbottai e Ven mi fissò incredula. Così come tutto il resto dei
passeggeri.
Ennesima
gaffe per colpa di quel fifone del mio migliore amico, ma c’ero
abituata.
Eravamo sulla
linea 97, quella che collegava King’s Cross al lato nord di Hyde Park,
dove
avevamo l’albergo. Cercai la testa fulva di Romeo, due sedili più
avanti,
intento in un’animata conversazione con un vecchietto.
Per lo più
era lui che parlava, rigorosamente in inglese, mentre il mio migliore
amico si
limitava ad annuire, seguendo qualche parola. Era buffo vederlo così e
dovevo
ammettere che mi era mancato in quei giorni.
«Insomma, non
è male evadere dalla realtà di tanto in tanto, no?» mi domandò la mia
migliore
amica, seduta al mio fianco.
Le sorrisi. «Per
ora sono felice,» le dissi.
Soffocai
mentalmente il ricordo di ciò che era successo in quei giorni,
seppellendolo da
qualche parte della mia mente. Ero venuta lì per rilassarmi, per non
pensare e
per dimenticare.
Venera mise
da parte la piantina della Tube che stava consultando e sospirò.
«Celeste,»
disse cauta. «Sei qui, nella capitale inglese, con i tuoi amici, in
vacanza.
Possiamo pensare esclusivamente a divertirci?»
Annuii
riconoscente.
Aveva
ragione. Per quanto ancora mi torturassi con tutta quella storia, mi
auto-distruggessi sino a soffocare, avrei rischiato col perdere quello
che
avevo.
Non ora che
finalmente io e Romeo avevamo ricucito la
nostra amicizia.
Arrivammo in
hotel e lasciammo subito le valigie in stanza. Scoprii che Romeo
avrebbe
condiviso la nostra stessa camera, essendo una matrimoniale con letto
aggiunto.
Ovviamente
Ven svenne di colpo.
Mentre le
sventolavo la piantina della Tube energicamente sul viso, sperando
riprendesse
i sensi in fretta, notai quanto quell’albergo fosse costoso. Mi stupii
che se
lo fosse potuto permettere, soprattutto per uno che andava in giro con
quel
pandino-killer.
Il mio lato
detective entrò subito in azione.
«Dev’esserti
costato un patrimonio portarci qui,» osservai.
Lo vidi
sgranare quei suoi limpidi occhi azzurri e annaspare in cerca d’aria.
Aveva
capito che non poteva avere scampo con me.
Basta bugie.
Si grattò la
nuca fulva nervoso. Era evidente che stesse prendendo tempo per poter
accampare
qualche tipo di scusa. Come poteva permettersi un viaggio a Londra per
tre
persone se nemmeno lavorava? Inoltre, come aveva fatto a prenotare quel
lussuoso hotel?
Mi diedi
della sciocca per non averci riflettuto prima.
«Senti Romeo,»
sbuffai stufa. Ero a tanto così dal mandare tutto all’aria e tornarmene
a Roma
col primo volo disponibile. C’era un limite alle bugie ed io lo avevo
oltrepassato.
«Sono davvero
stufa di tutti questi giochetti. Lo sento
che mi stai mentendo. Sputa fuori la verità!» gli intimai.
Romeo deglutì
a fatica, poi abbassò lo sguardo mortificato. «Non lo so.»
Ven scelse
proprio quel momento per rinvenire miracolosamente. Sospettai che non
avesse
avuto alcun tipo di malore e che stesse aspettando solo l’attimo adatto
per
intervenire.
«Ha trovato
tutto nella cassetta delle lettere,» spiegò lei. «Era una busta senza
mittente.»
Guardai i
miei due migliori amici sconvolta. «Mi avete mentito ancora? Dopo tutto
quello
che è successo?» sbottai.
Romeo si sentì
in dovere di intervenire. «Io non volevo! È stata la puffa!»
Ven lo zittì
subito con un gesto della mano, annoiata.
«Una piccola
bugia a fin di bene. Non sempre si mente per fare del male, Cel. Sai
che
esistono anche le bugie bianche,»
sospirò.
«Bianche?»
chiese Romeo confuso.
Venera roteò
gli occhi e sbuffò. «Davvero l’hai perdonato? Non possiamo
sbarazzarcene?»
«Ehi!»
protestò lui.
Bugie bianche. Bugie dette
a fin di bene. Menzogne che servivano unicamente a far star meno male
le
persone a cui si teneva.
Sapevo bene
il significato di quelle parole.
«Ciò non
toglie che mi avete mentito,» precisai. «Entrambi.»
Era passato
troppo poco tempo da Leonardo e dalla storia piena di menzogne che mi
aveva
propinato. Era stata dunque finzione sin dall’inizio?
Quel dubbio
atroce non faceva altro che logorarmi l’anima.
Stavi
aspettando pazientemente le scuse di uno dei miei due presunti
migliori amici, quando una chioma rosso fiamma attirò la
mia attenzione.
Era
impossibile scambiarla per qualcun altro.
«Annalisa…»
soffiai.
No. Non
poteva essere vero. C’era una spiegazione a tutto quello, ai misteriosi
“biglietti” apparsi nella cassetta della posta di Robbeo e alla
stranissima
coincidenza di quell’incontro.
Romeo fu più
veloce di me nell’alzarsi e nel raggiungere la ragazza coi tacchi a
spillo. Io
e Ven gli fummo dietro quando lui le strinse energicamente il polso,
bloccandole l’avanzata verso l’uscita dalla Hall.
I grandi
occhi verdi di Annalisa si spalancarono dalla sorpresa, così come la
sua bocca
carnosa che prese una deliziosa forma a cuore.
«C-Cos…»
balbettò incredula.
L’espressione
di sorpresa che aveva in volto sembrava sincera, come se non si
aspettasse di
vederci lì. Anzi, di vederlo lì.
Magari non
era stata lei a spedirci i biglietti.
E perché avrebbe dovuto
farlo, poi?
Già, non
aveva alcun movente. Non ci eravamo state simpatiche sin dall’inizio,
perché
avrebbe dovuto “farmi un favore”?
A meno che
non ci fosse sotto dell’altro…
«Cosa ci fate
voi qui?» chiese lei, abbandonando immediatamente quell’aria spaesata
che non
si addiceva al suo carattere viziato e arrogante.
Romeo
assottigliò lo sguardo. Non sapevo bene il perché, ma sembrava proprio
che ci
fosse del risentimento tra quei due, quasi come se avessero litigato.
«Dovresti
dircelo tu,» insinuai, magari avrebbe abboccato alla storia del viaggio.
«Non far
finta di non sapere dei biglietti,»
si aggiunse Robbeo.
Annalisa
spostò lo sguardo prima su di me, poi sul mio migliore amico. Sembrava
davvero
confusa e per quanto potesse essere falsa, quella non era finzione.
«Davvero,
siete fuori,» disse alzando le mani. «Io me ne vado.»
Venera la
bloccò parandosi davanti. «Quindi non sei stata tu a spedire i
biglietti aerei
con la prenotazione al tuo stesso
hotel a questo babbeo qui?»
Annalisa le
lanciò uno sguardo di fuoco. «Non chiamarlo così,» sibilò.
«Non so nulla
di questi biglietti,» aggiunse poi. «Questo non è solo il mio hotel, ci
alloggia tutta la squadra e lo staff.» Si spostò una ciocca di fulvi
capelli
dietro l’orecchio. «Ora devo proprio andare, c’è qualcuno che mi
aspetta e devo
prendere una macchina.»
Rimasi a
fissare il vuoto, metabolizzando ancora il fatto di poter incontrare
Leonardo
in qualsiasi momento. Anche ora che non ero affatto pronta.
Annalisa era
scagionata e per quanto facessi ormai fatica a riconoscere i bugiardi,
lei mi
sembrò sincera. Io però ancora non sapevo l’identità del misterioso
benefattore.
Romeo però mi
distrasse, perché scattò nella direzione della rossa e le si mise
davanti,
impedendole di uscire e raggiungere la berlina nera che attendeva in
strada.
«Aspetta un
attimo,» disse.
Sembrava
quasi una scena di un film d’altri tempi, proprio quando i due
protagonisti
raggiungono il climax.
Annalisa lo
fissò in tralice. «Cosa vuoi da me, eh? Ti sei spiegato benissimo
l’ultima
volta che ci siamo visti, so che razza di persona pensi che io sia.»
C’era
qualcosa che mi sfuggiva. Avevo come la sensazione che tra quei due
fosse nata
una specie di relazione che andava ben oltre il “reciproco sopportarsi”
che
fino ad ora ci avevano fatto credere.
«Forse
dovremmo…» tentai di dire a Ven, ma lei mi zittì.
«Fai silenzio
e goditi la scena madre,» mormorò risoluta. «Peccato non ci siano i
popcorn.»
«Non ho mai
detto questo,» ringhiò lui, serio.
Era raro
vedere Romeo con quell’espressione in volto. Con Anna, sembrava
un’altra
persona e lei era forse l’unica ragazza – tranne me e Ven ovviamente –
con cui
si comportava da persona normale, senza la necessità di fare in buffone
e di
farsi etichettare come un cretino.
«Ah no?» rise
lei, isterica. «Senza riserve, hai subito pensato che fossi stata io a
spifferare tutto, che avessi tradito la tua fiducia e quella di Sogno.»
Una lacrima
le sfuggì dall’occhio. Un lungo brivido mi fece accapponare la pelle.
Annalisa era
la dimostrazione vivente che anche la persona più stronza di tutto
l’universo
qualche volta veniva ferita. E che a farlo fosse stato Robbeo, mi
lasciava
allibita.
Si asciugò in
fretta il viso con il dorso della mano. «Non credevo di meritarmi
questo.
Pensavo fossimo amici.»
Lei e Romeo?
Amici?
«Siamo… amici,» disse
Romeo,
avvicinandosi.
In quel
momento mi sentii davvero di troppo, così cercai Ven per dirle di
lasciar loro
un po’ d’intimità – sembrava ancora strano, pensarlo – ma lei non
voleva
saperne di perdersi quella scena.
Annalisa era
ancora restia a lasciarsi toccare, soprattutto perché sembrava che il
mio
migliore amico l’avesse davvero trattata malissimo. Ed era incredibile
pensarlo
di uno come Robbeo.
«Mi dispiace,»
insistette lui, sfiorandole appena le dita. «Mi dispiace per tutto
quanto, per
come ti ho trattata, per quello che ho detto di te. Vorrei solo poter
tornare
indietro, sono stato uno stupido.»
Indietreggiai
lentamente, lasciando loro un po’ di spazio e mi trascinai dietro
Venera che
continuava a scalciare.
«Smettila.»
Anna stava
cedendo. Potevo vederlo riflesso nei suoi occhi lucidi e sentirlo nella
sua
voce incrinata dal pianto.
Allora mi
sovvenne il ricordo di Leonardo, il modo in cui mi aveva guardata
implorante
alla festa di J. e ai suoi tentativi di scusarsi. La scena mi parve
molto
simile, quasi sovrapponibile e mi fece star male.
Se ci fosse
stato un modo per quantificare il dolore, mi sarei trovata in bilico
tra due
orizzonti: da una parte c’era il perdono, la possibilità di passare
sopra tutto
e darmi un’altra chance; dall’altra ricordavo l’umiliazione della
menzogna e
del tradimento.
«Guarda che
per me non è stato facile credere che tu potessi davvero tenere ad uno
come me,»
continuò Romeo, stupendomi. «Ad una persona normale.»
Amare una
persona normale, comune. Uno come Romeo o come me… persone che non
avevano una
bellezza o un talento straordinari, che non avevano né soldi né fama.
Persone che
potevano dare soltanto loro stesse.
«Nemmeno io
credevo fosse possibile,» ripeté lei. «E questo fa ancora più male!»
Era ovvio che
fosse così. Quando si possedeva tutto, ogni cosa si desiderasse, come
si poteva
distinguere tra amicizia per interesse o per sentimento?
Annalisa era
la figlia del presidente della squadra di Leonardo e chiunque avrebbe
potuto
sfruttare la notorietà che sarebbe derivata dal frequentarla.
Compresa me
stessa.
Anche tu avresti potuto
approfittarti di Leonardo, della sua
fama se lui ti avesse subito rivelato la sua identità. Magari è stato
per
questo che ha mentito. Per proteggere sé stesso da quel mondo falso.
«Lo so, che
fa male,» continuò Robbeo. «Ma io ti
giuro che per me è stato tutto reale. Tutto quanto. Ogni pomeriggio
passato
a fare shopping con te, a reggerti le buste, a fare finta di essere il
tuo
amico gay o ad ascoltare i tuoi problemi. Tutto.»
Fu dopo
quelle parole che vidi il cuore di Annalisa sbocciare come un fiore a
primavera.
Lei si aprì
in un sorriso sincero e gli corse incontro, gettandogli le braccia al
collo.
«Che scena
disgustosa,» commentò Ven acida. «Sto per vomitare.»
Quando le
loro labbra si sfiorarono in un bacio appena accennato, mi ritrovai a
sorridere. Mi sentii stranamente leggera e d’improvviso percepii uno
strano
senso di vuoto dentro, come se mi mancasse qualcosa.
O qualcuno.
Ricordai le
giornate sulla vespa, i pomeriggi passati a ridere davanti alla TV.
Ricordai
nonna Annunziata, le feste e le bugie che mi aveva detto ma che ci
avevano
permesso di andare avanti.
Per quanto
potessi essere arrabbiata con Leonardo, per quanto lo odiassi per
avermi resa
debole e cieca, lui rimaneva comunque un punto fermo nella mia vita.
Venera mi
guardò pensierosa. «Ti è sovvenuto all’improvviso un posto che vorresti
assolutamente visitare per primo?» chiese con un sorrisetto.
La rabbia di
essere stata raggirata mi aveva reso cieca, aveva fatto sì che perdessi
di
vista l’altra faccia della medaglia. Non mi ero fermata un momento a
riflettere
sul perché Leonardo si fosse
comportato così, il motivo che lo aveva portato a mentirmi anche dopo
che
l’amore aveva fatto tutto il resto.
La ragione
ero stata sempre io.
Ero la sola
che aveva scatenato tutto questo, col mio odio per il calcio e il fatto
che non
mancassi mai di sbandierarlo ai quattro venti. Lui si era soltanto
comportato
di conseguenza.
«Dovrebbe
esserci una partita di calcio, stasera,» dissi seria.
Annalisa e
Romeo mi guardarono all’unisono, mano nella mano. «Vuoi provare
davvero?»
chiese il rosso.
Annuii
convinta.
«Anche se
sarà impossibile trovare i biglietti?» suggerì Venera.
Annuii con
meno convinzione.
Annalisa
allora ridacchiò. «A noi non serve alcun biglietto.»
Tutti la
fissammo sconvolti e solo all’ultimo ricordai chi fosse davvero la
Cavalli.
Venera si mise subito in testa al gruppo e uscimmo in strada, montando
sulla
berlina mentre il sole calava all’orizzonte.
«Di qua!»
urlò all’autista, ma Romeo la corresse.
«Veramente
l’Emirates è dall’altra parte.»
Proseguimmo
il resto del viaggio in macchina con le urla e gli schiamazzi dei miei
due
migliori amici che non la finivano di prendersi a parolacce.
Davanti ai
miei occhi, le immagini di Londra al crepuscolo scorrevano ad alta
velocità
facendomi riflettere. Forse ero ancora in tempo per rinunciare. Non
sapevo se
fosse o meno la scelta giusta, se avevo ceduto troppo presto o se fossi
ancora
in tempo per rimediare.
Purtroppo non
ero sicura di niente, però mi sentii in dovere di tentare.
Il solo
vederlo mi avrebbe fatto male, ne ero conscia, ma per me stessa dovevo
farlo
perché quello che c’era stato tra noi – se autentico – meritava almeno
un
chiarimento.
Un’altra
opportunità.
***
Ventitreesimo minuto…
L’aria si fa
sempre più rarefatta nei miei polmoni, mentre corro in lungo e in largo
per
tutto il campo, tentando di sfondare il muro della difesa. Simone è
sempre lì,
lo vedo, mi sta col fiato sul collo e non mi molla.
Ha sempre
quel sorriso stampato in volto, quel ghigno che mi ricorda secondo dopo
secondo
tutti i miei fallimenti, sia nella carriera che nella vita. Tento di
dribblare
un difensore, non ricordo nemmeno più il suo nome, ma quello si staglia
come un
muro di fronte a me e m’impedisce di passare.
Marco corre
vicino a me, mi sorpassa e mi offre l’occasione di liberarmi del
pallone ed io
capisco al volo le sue intenzioni, peccato che anche Ramsey intuisce il
nostro
gioco e si frammette rubando il pallone e puntando in direzione della
porta.
Mr. Montella
si infuria dalla panchina, urlando indicazioni a destra e a manca
mentre
attorno a noi si è scatenata una vera e propria tempesta di grida,
bandiere e
il frastuono dei petardi lanciati al bordo del campo.
Come se una
vera e propria guerra infuriasse in quell’arena.
Gladiatore. Io sono un
gladiatore.
Prima di
ritornare a dare man forte alla difesa, vedo Simone sfrecciare verso
l’area
della Magica e sorridermi soddisfatto di quello che la sua squadra è
riuscita a
fare. Non era ancora detta l’ultima parola.
Venticinquesimo minuto…
Simon ha
appena sventato un possibile contropiede dell’Arsenal, rubando palla a
Van
Persie ed ora la Magica può volare all’attacco, perché si è aperto un
varco
nell’insormontabile difesa.
La vedo. Vedo
i pali bianchi della porta difesa da Almunia e vedo anche la
possibilità di
segnare, sento un brivido corrermi lungo la schiena, come monito di
quello che
potrebbe accadere di lì a poco. Il bagno di folla, l’abbraccio dei
compagni ed
un passo sempre più vicino a quella che sarà la semifinale della
competizione
più importante d’Europa.
Due secondi dopo…
L’intervento
di Simone in scivolata per poco non aveva rischiato di rompermi una
caviglia e
mentre mi rotolavo per terra dal dolore della lussazione, lo vedevo
ghignare.
L’arbitro
Webb accorse per sincerarsi delle condizioni di entrambi, poi Simone
venne a
tendermi la mano con fair play.
«Ancora deve
venire il bello, cuginetto,» sorrise e finse di abbracciarmi. In
seguito mi
guardò negli occhi, quegli occhi scuri e malvagi. «Attento, la prossima
volta
potrei anche puntare alle articolazioni.»
Lo fissai
sorpreso e sperai che scherzasse.
Era ovvio che Simone
Sogno non giocasse
pulito. Mai.
Tornai verso
il pallone, pronto a battere la punizione che ci avevano assegnato per
colpa
del fallo di quel cretino di mio cugino.
Daniele mi si
affiancò. «Vai verso l’area. Provo a crossare il pallone e tu colpisci
di
testa. Cerca di aggirare tu cugino, altrimenti semo fottuti,» mi
sussurrò.
Come idea non
era male, il difficile era metterla in atto.
Per quanto
non sopportassi Simone, dovevo ammettere che l’Arsenal era una squadra
ben
assortita. Già l’allenatore era metà rosa.
Corsi
nell’area protetta da Almunia, dopodiché attesi il fischio dell’arbitro
che non
tardò ad arrivare. Simone mi fu addosso, spintonandomi, così come altri
suoi
compagni. Era chiaro che fossi io l’obiettivo da marcare con
insistenza, ma
avrei preferito di no.
Daniele
calciò la punizione, arcuando la palla verso l’area di rigore, ma ero
troppo
pressato per riuscire a saltare.
In ultimo,
vidi Rosi che correva nel bel mezzo dell’area, indisturbato. La difesa
era
troppo impegnata a marcare me e il Capitano, senza curarsi di “pesci
più
piccoli” come l’ala destra della Magica. A quel punto, sapevo cosa fare.
Attirai
l’attenzione della difesa dell’Arsenal su di me, imitando una specie di
colpo
di testa e quando furono abbastanza lontani da Rosi, lui cominciò a
correre
velocemente verso il portiere che urlava.
Ormai era
troppo tardi perché se ne accorgessero.
Te l’ho fatta, stavolta,
Simo.
Non avevo
messo in conto l’intervento di Van Persie che, come un’aquila nel
cielo, piombò
direttamente sul povero Alejandro togliendogli la palla e consegnandola
direttamente in mano al portiere.
«Cazzo!»
sibilai col fiatone.
Simone mi
passò di fianco e sorrise. «Tic toc.»
Trentottesimo minuto…
La partita
non voleva saperne, di cambiare le sorti dello zero a zero e i tifosi
di ambo
le parti sembravano abbastanza scontenti. L’azione
non era ancora cominciata, perché eravamo troppo accorti per osare.
La Curva
rumoreggiava e le bandiere sventolavano con forza, così come i fumogeni
che
impregnavano l’aria rendendola quasi irrespirabile. Più di una volta
Webb era
stato costretto a fermare il gioco, per via della nebbia che gli
copriva la
visuale.
Se continui così, non
arriverai da nessuna parte.
Ne sono
consapevole.
E allora osa, per l’amor di
Dio!
Guarda, non
parliamo di amore, va’.
Per un
nanosecondo ero riuscito a cacciare fuori dalla mia mente il pensiero
di
Celeste ed ora il mio caro Ego, o Coscienza o dir si voglia, si metteva
lì a
ricordarmelo.
Mi distrassi
solo un secondo, poi tornai con la mente in campo. Il Capitano aveva
recuperato
palla ed ora spingeva il tridente d’attacco a puntare la porta di
Almunia.
Vedevo riflesso nei suoi occhi celesti la determinazione di vincere
quella
partita, di portarsi a casa il risultato e non potevo che essere
d’accordo.
Gli feci
cenno di seguire i miei movimenti, così ingannai uno dei difensori in
scivolata
e schizzai veloce verso l’area di rigore.
C’era poco
tempo per agire, e forse sarebbe stata l’unica azione valida prima
della fine
del primo tempo. Aggirai Squillaci e cercai lo sguardo di Francesco che
agganciò immediatamente il mio. Era difficile da quella posizione
crossare,
soprattutto per il modo in cui Simone e Song lo stavano pressando.
Daje Capitano, daje, pensai,
sperando udisse le mie suppliche.
In un qualche
modo davvero sorprendente, con una giravolta riuscì ad eludere la
marcatura di
quel coglione di mio cugino, tenendosi libero per il cross migliore di
sempre.
Mi arrivò
diretto sul piede, ed eseguii uno stop da manuale, facendomi rotolare
il
pallone tra le gambe ed evitando l’ultima barriera che mi divideva dai
pali
della porta.
André Santos
mi fissò deciso ed io non evitai il suo sguardo.
Fu una sfida
silenziosa e diretta tra due che facevano quel mestiere da una vita,
tra
sacrifici, rinunce e tutto il resto. Soltanto un altro calciatore
poteva sapere
cosa si provasse a non avere una vita privata, ad essere denigrato dal
pubblico
per un solo errore.
Un calcio di
rigore sbagliato, un passaggio troppo forte… qualsiasi cosa.
Dribblarlo
uno contro uno sarebbe stato impossibile, soprattutto perché si
trattava di un
armadio a due ante. L’unica soluzione era tentare una finta e provare
il tiro
dalla distanza.
Eccolo! Finalmente sei
tornato.
Leonardo
Sogno era tornato più in forma di prima, senza riserve. Sarebbe stato
la stella
della sua Magica, poi di qualche squadra di un club inglese magari…
chissà.
Avrei
conquistato le copertine di ogni rivista. La fama era l’unica cosa che
mi
rimaneva, ora.
Detto ciò,
misi in pratica ciò che avevo pensato. Sulle prime la finta mi riuscì
ma il
brasiliano era evidentemente più furbo e intuì ciò che avevo in mente.
«Leona’!»
gridò Daniele alle mie spalle, pronto per avanzare con uno dei suoi
colpi di
testa brevettati, ma lo ignorai.
Quel goal era
mio. A tutti i costi.
Quella
partita era stata il motivo per cui avevo sacrificato Celeste, per cui
mi ero
allontanato. Avevo detto addio all’unica cosa reale che mi era capitata
da una
vita, la sola che stesse con me non tanto per i soldi, né per la fama.
Soltanto per
Leo.
Ignorai il
suggerimento di Capitan futuro e tentai il tiro dalla distanza.
Fortunatamente
il pallone non fu intercettato da Santos e prese un effetto
soddisfacente.
Furono i cinque secondi più lunghi della mia vita, mentre sentivo
chiaramente
il cuore battere forte e il fiato che mancava nei polmoni.
L’occasione
di una vita a pochi minuti dallo scadere del primo tempo.
Andare in
vantaggio al 38’ significava sollevare i tifosi, rincuorare la squadra
e far si
di studiare una tattica vantaggiosa che ci consentisse di raddoppiare o
quantomeno proteggere il risultato.
Il pallone
galleggiò nell’aria come se fosse telecomandato ed io finii col
trattenere il
fiato finché non avessi sentito il tipico rumore del cuoio che
s’infrangeva
contro la rete. Un sonoro “toc” e poi il boato della folla.
«Pittore!
Pittore! Pittore!»
Leonardo Da
Vinci, un genio.
Questo è
quello che avrei dovuto udire dai cinquemila tifosi che erano lì a
Londra, solo
per vedere la loro squadra giocare. Invece ci fu un boato di delusione
e di
protesta, perché il pallone s’infranse proprio contro il palo.
SDENG!
Quello fu il
suono che si udì all’Emirates, nel silenzio dovuto alla suspense del
tiro.
Almunia,
sorpreso da quella fortuna, accorse a togliere immediatamente la sfera
dalla
testa di Daniele che era saltato per ritentare.
Rimasi
imbambolato a fissare la porta senza reagire.
Il Capitano
mi posò una mano sulla spalla ed io sussultai sorpreso, mentre lo
stadio aveva
ricominciato ad urlare. «Il calcio è un gioco di squadra,
ricordalo,» disse solamente, ma lo sguardo furioso che mi
lanciò Daniele fu abbastanza eloquente.
Suppongo che avresti dovuto
passare il pallone.
Ma non mi
dire.
Simone se la
rideva alla grande, fissandomi come se avesse ottenuto una doppia
vittoria da
quel mio sbaglio. Era insopportabile. Ancora mi chiedevo quale forza
divina mi
aveva impedito di soffocarlo con un cuscino quando eravamo piccoli.
Il portiere
rinviò la palla da fondocampo, mentre tutti ritornarono ai loro posti
in attesa
dello squadrone dell’Arsenal che avanzava minaccioso.
Simone era in
testa al gruppo, riusciva a manovrare il resto della squadra senza
nemmeno
aprire bocca. Dalla panchina, si udivano le indicazioni di Mr. Montella
di
rientrare, mentre il pallido allenatore dei gunners
fissava il campo come un’aquila.
«Forza,
rientrate!» gridò Rodrigo, riferendosi a quei pochi di noi che erano
volati in
attacco.
Cominciai a
correre, anche se il fiato mancava, ma dovevo resistere.
39’… 40’… 43’
I minuti
scorrevano come gocce di pioggia attraverso il tombino di una strada e
mi era
impossibile fermarli. Scivolavano via, così come quando il quarto uomo,
con la
lavagnetta luminosa, indicò 1’ come il tempo di recupero.
Fu in
quell’istante, dopo un corner che avevamo concesso un po’ troppo
superficialmente che dovetti assistere ai sessanta secondi più brutti
della mia
vita.
Cinquantotto,
quarantacinque, trentasei…
Cercai
immediatamente lo sguardo di Simone mentre il pallone viaggiava al di
sopra
dell’aria di rigore, percorrendo una parabola quasi perfetta. Lo vidi
smarcarsi
da Simon e gli altri, Marco cadde addirittura a terra, ed io allora lo
rincorsi
per impedirgli di saltare.
Quel metro e
novanta di muscoli e precisione non ci avrebbe perdonati.
Feci di tutto
per arrivare fin sotto di lui, rischiai anche di calpestare i miei
stessi
compagni, ma dovevo fare qualcosa. Mi aggrappai alla sua spalla,
cercando di
non commettere fallo e tentai in tutti i modi di caricare il salto e
togliergli
la palla dalla testa.
Simone se ne
accorse e allora mise più potenza.
Mi superò di
una spanna senza alcuno sforzo, arrivando in perfetto tempismo con il
pallone
che aveva iniziato a scendere. Lo colpì in pieno, con tutta la potenza
di tiro
di cui era capace e la angolò.
Cazzo se
quello era un colpo di testa!
Martin tentò
di afferrarla sbracciandosi come un puma che balzava sulla propria
preda, ma
era troppo preciso e potente quel tiro.
Il pallone
s’insaccò nella rete al 46esimo e l’arbitro Webb fischiò la fine del
primo
tempo.
Il rumore di
tacchetti riempì il silenzio che c’era nel tunnel di rientro agli
spogliatoi.
Fissavo il grigio del pavimento di linoleum senza pensare a niente.
Desideravo
solo sparire e darmi del cretino.
A quest’ora,
se avessi passato quel maledetto pallone, magari saremmo sul punteggio
pari.
Simone era
stato trattenuto da un giornalista per rilasciare un’intervista a
caldo, così
ne avevo approfittato per dileguarmi prima che mi prendesse di mira.
Erano lontani
i tempi in cui nonno Pietro ci aveva dato quei palloni per regalo,
facendoci
condividere in un modo del tutto suo la passione per il calcio. Ora tra
me e
quel demente c’era solo guerra, nient’altro.
Fotografi e
giornalisti di tv locali si sbracciavano per poter ottenere qualsiasi
commento,
ma tentai il tutto e per tutto al fine di evitarli. Non avevo voglia di
parlare, non avevo voglia di nulla. Ancora una volta mi ero dimostrato
un
cretino che non sapeva fare nemmeno l’unica cosa in cui era bravo.
«Ehi! Ehi!»
sentii una voce che mi chiamava, così accelerai il passo.
Volevo
sedermi sulla panca, ascoltare gli scleri del mister, beccarmi le
occhiatacce
dei miei compagni di squadra e magari farmi sostituire.
'Sti cazzi.
Ero stufo di
dover portare quel peso, di vivere con l’angoscia di dover dimostrare
sempre
qualcosa. Ora che Celeste era scivolata via dalla mia vita, avevo
bisogno di
fare chiarezza e ricominciare. Lei era solo una distrazione.
«Leonardo!»
Ecco. Ora
sentivo anche la sua voce nella mia testa e non era normale.
Hai cominciato a bere di
recente?
Ci mancava
soltanto la pazzia a completare quel quadretto davvero rassicurante.
Altro che
infortuni o doping, avrei chiuso la mia brillante carriera in qualche
manicomio.
«Leo! Girati!»
Sgranai gli
occhi. Quella era la sua voce, ne ero
certo.
Mi voltai
sperando che si trattasse solo di un’illusione, ma un’orda di flash
accecanti
mi costrinsero a socchiudere le palpebre e a schermarmi con un braccio.
«Mr. Sogno ha
da lasciare qualche dichiarazione?»
«È stato un
errore della difesa?»
«Si poteva
evitare?»
Tutte quelle
domande cominciarono a confondermi, tanto che pensai di essermi davvero
immaginato tutto. Possibile che Cel mi mancasse a tal punto da giocarmi
questi
brutti scherzi?
Stavo per
rinunciare e tornare negli spogliatoi, quando sentii alcuni giornalisti
protestare e spostarsi, spinti da una qualche forza soprannaturale.
Soltanto in
ultimo, quando la folla cominciava a diradarsi, mi resi conto che si
trattava
di quell’elfo dell’amica di Celeste.
Veneziana.
Veranda.
Terzo tentativo e sei out.
Ce la puoi fare.
Venerea!
Quella la conosci bene.
«Sei
irraggiungibile, porca miseria!» sbottò, aggiustandosi un ciuffo
ribelle di
capelli dalla fronte.
Dietro di
lei, come una visione, c’era Celeste.
I suoi occhi
azzurri erano spalancati, così grandi che avrei rischiato di finirci
dentro. Si
stava torturando una ciocca di capelli biondissimi tra le dita, senza
sapere
cosa dire. C’era troppo chiasso attorno a noi, troppi rumori.
Nemmeno io
riuscivo a parlare.
Cosa avrei
potuto dirle ancora? Scusarmi? Tentare di nuovo?
La sua
presenza lì mi aveva spiazzato del tutto. Non sapevo spiegarmi il
motivo per
cui mi avesse raggiunto. Alzai ancora di più lo sguardo e trovai
Annalisa, mano
nella mano con quel cazzone di Robbeo.
Forse era
merito del destino?
«Non c’è un
posto più appartato dove potete parlare?» mi domandò Ven – direi che
quel
nomignolo le stava a pennello, visto che non mi ricordavo il resto.
Come
svegliato dal coma, annuii. «Da questa parte.»
Le condussi
verso l’ufficio per lo staff, in quel momento del tutto deserto. Prima
di
aprire la porta, però, ricevemmo la gradita
visita di chi avevo tentato inutilmente di evitare fino a quel momento.
Simone.
«È off-limits
quell’area,» commentò, in un perfetto inglese da cazzone.
«Falla
finita!» ringhiai. «È una questione… privata,» dissi in un soffio,
rivolgendo
uno sguardo timido a Celeste.
Era così
strano vederla silenziosa, lei che col suo indice “pungolatore” non
mancava mai
di bacchettarmi. La mia maestrina dispettosa.
Simone
sfoderò quel ghigno bastardo. «Ci rivediamo, piccola,» mormorò
malizioso.
Lanciò anche un’occhiata distratta a Ven, facendo una smorfia.
«Come avrai
sicuramente capito, la famiglia Sogno non è famosa per i fiori,»
sghignazzò avvicinandosi.
Cercai di
frappormi, almeno per proteggere Cel da quel cretino, ma Venera fu più
veloce.
Hai azzeccato il nome!
«Oh, il circo
è tornato in città, vedo. Il gibbone è fuggito dalla gabbia,» ridacchiò.
La tipa ci
sapeva fare.
Simone
sibilò. «E questo cos’è? Ti sei portato dietro il bassotto?» sghignazzò.
Lentamente
aprii la porta dell’ufficio staff, così da lasciare Simone in dolce compagnia con Ven che sembrava
sapergli tenere testa meglio di chiunque altro conoscessi.
«Per di qua,»
sussurrai a Celeste, trascinandola dentro.
Lei annuì.
«Bassotto a
chi? Spilungone montato che non sei altro!»
Questa fu
l’ultima frase che udimmo prima che la porta si chiudesse con un sonoro
clack e ci ritrovammo da soli in quella
fredda stanza. Non avevo molto tempo prima che iniziasse di nuovo la
partita ed
ero più che sicuro che sia il Mister che i compagni mi stavano dando
per
disperso.
Però volevo
dare a Celeste il tempo necessario per riordinare le idee.
Se ne stava
sulle sue, evidentemente pensierosa. Infine cercò i miei occhi ed io
ricevetti
una stilettata dritta al cuore. Non avrei mai immaginato che stare
lontano da
una persona per tutto questo tempo fosse tanto doloroso.
Io che ero
abituato a vivere alla giornata, ad avere donne diverse ogni giorno.
Non ricordavo
nemmeno i loro nomi.
«Di preciso
non ho chiaro il perché sono qui,» sputò fuori all’improvviso. Quegli
occhi di
ghiaccio erano così seri. Lontani dalla Celeste spensierata e solare
che
ricordavo. Questa era una ragazza ferita da tutte le menzogne che avevo
detto e
che non mi ero mai pentito di dire.
«Se vuoi dare
la colpa al destino o altro, mi hanno convinto a venire a Londra e
casualmente
ho incontrato Annalisa.»
Il tono di
voce era dannatamente profondo. Per un attimo pensai che si fosse fatta
tutti
quei chilometri per bidonarmi di nuovo.
«Cel, io…»
tentai di dire, ma lei mi zittì.
«Forse ho
giudicato troppo presto le tue azioni, non mi sono fermata a riflettere
a
sufficienza. Ero troppo arrabbiata con te per quello che mi avevi
fatto, per
ciò che mi avevi nascosto. Mi sono sentita tradita perfino da me
stessa! Come
diavolo posso esser stata così cieca!» sbottò.
Avrei voluto
dirle che magari c’entrava il fatto che stesse troppo bene in mia
compagnia da
surclassare tutto il resto, ma tacqui.
«Ho googlato
il tuo nome l’altro ieri,» soffiò imbarazzata.
Le sorrisi. «Su
internet girano certe scemenze,» le risposi un po’ imbarazzato.
«No, no,»
insistette ed io la lasciai parlare. «Ho letto di quando hai iniziato
la
carriera, delle coppe che hai vinto, dei premi… il pallone…?»
«Il Pallone
D’oro, sì, sono in lizza per vincerlo,» dissi fiero, gonfiando il petto.
A Celeste
sfuggì un sorriso che sembrò illuminare la stanza intera. «Credo di
averti
giudicato troppo superficialmente. Mi dispiace. Forse avrei dovuto
ascoltarti,
anche perché penso, anzi, credo, che quello che c’è stato tra di noi
fosse
autentico.»
«Lo era!»
intervenni, forse con un po’ troppo fervore.
«Già,»
rispose lei, sedendosi.
Ci fu un
momento in cui cadde il silenzio e nessuno dei due sembrava aver voglia
di
riprendere la parola. Erano minuti delicati quelli, forse più
importanti della
partita che ci sarebbe stata di lì a poco.
C’erano due
piatti della bilancia e su di essi era posata la mia vita. Da una parte
Cel e
la sua spontaneità che mi avevano stregato, dall’altra tutto il mio
mondo.
«Leona’, ‘ndo
stai?» la voce di Alejandro mi fece sobbalzare.
«Ti stanno
cercando,» osservò Celeste.
Annuii
pensieroso. «C’è tempo. Vai avanti,» la incalzai.
Lei
giocherello con i ghirigori impressi sul tavolino in legno, poi
sospirò. «Non
vorrei essere trattata di nuovo da stupida, se è questo che vuoi
sentirti dire.
Ho sbagliato, ma anche tu hai la tua parte di responsabilità,» mi
accusò.
«Ho dovuto
mentire!» mi giustificai.
Lei mi lanciò
un’occhiata assassina. «All’inizio è stato solo un gioco, ammettilo
almeno.»
Sospirai
sconfitto. C’era poco da fare, quando Celeste annusava una traccia era
poco ma
sicuro che ti sgamava.
«Okay!» mi
arresi. «Magari è iniziata così.»
«E poi ci hai
preso gusto e hai continuato a mentire, facendoti quattro risate con
quel
maleducato di tuo cugino!»
«Ma sei
impazzita?» sbottai.
«Provami il
contrario, allora!» e si alzò in piedi, sbattendo le mani sul tavolo.
Deglutii gli
ultimi residui di saliva che si erano arrampicati sul palato. «Non c’è
un modo
semplice per spiegartelo, Cel. La verità è che non lo so nemmeno io,»
cominciai. «Sono entrati in ballo sensazioni nuove, roba che non faceva
per
me.»
Mettersi a
nudo in senso metaforico, era davvero dura.
«La verità,
ho bisogno solo di questo. Per una volta,» rincarò lei.
Annuii. «È
sempre stata solo una, Cel. È che mi sei entrata dentro e non te ne sei
più
andata via, ecco qual è.»
Lei rimase
quasi sorpresa da quella mia ammissione.
«Quindi tu…»
tentò.
«Sì, io,» le
risposi.
Sorrise ed io
mi sentii più leggero. «Ho bisogno solo di un’altra occasione, e
nient’altro.
Stavolta sul serio. Non ti mentirò più riguardo a nulla. Lo giuro,»
promisi.
Lei parve
ancora confusa, così mi avvicinai e le strinsi le mani nelle mie.
Cercai i suoi
occhi, un contatto, qualsiasi cosa le impedisse di sfuggirmi ancora.
«Non so se
riuscirò a sopportare tutto questo,» disse, sfiorandomi la maglia della
Magica
con la punta delle dita e soffermandosi sullo stemma.
Le afferrai
la mano e gliela strinsi, premendola contro il mio cuore. «Lo faremo
insieme.»
Celeste
allora si lasciò andare veramente questa volta, lasciandomi sbirciare
finalmente la sua vera persona. Mi era mancata troppo, come l’aria,
quasi come
il fischio finale dell’arbitro al novantesimo della partita più
importante del
mondo.
«Ora vai a
vincere,» soffiò infine, alzandosi sulle punte e cercando appena un
contatto
con le mie labbra.
Sorrisi
leggero come non lo ero mai stato prima. «Per te, soltanto per te,» e
corsi
via.
Verso il
campo dell’Emirates Stadium, verso quel verde che mi avvolse come una
vaporosa
coperta e verso quel profumo che sapeva finalmente di casa
Allora, innanzitutto mi scuso
profondamente anche a nome di _Shantel che non so che fine abbia fatto.
Questa storia è rimasta in stand-by per troppo tempo, ma purtroppo era
un lavoro scritto a 4 mani, perciò serviva necessariamente la
collaborazione dell'altra autrice. Ho provato più volte a contattarla,
ma mi ha detto di avere problemi in famiglia e che non poteva perder
tempo dietro a EFP.
In altre parole, mi ha dato il permesso di continuarla da sola. Ammetto
che non è la stessa cosa, che per me è stato difficile immedesimarmi in
Celeste, però ci ho provato per il bene di questi due personaggi che
meritano un bel finale, un finale come si deve.
Inoltre, devo approfondire il
rapporto degli altri personaggi.
Vi chiedo "scusa" a nome di entrambe se vi ho fatto sospirare questo
capitolo, ma prometto e giuro solennemente di portare a termine Come in
un Sogno da sola, che venga bene o meno. Ci proverò.
Mi rimetto alle vostre considerazioni e non esitate a farmi notare
qualche pecca nel carattere dei personaggi, è da tanto tempo che non mi
cimento in questa storia e devo riprenderci la mano. >.<
Detto questo, ho creato la raccolta "Se il
Sogno chiama..." dove potrete trovare tutto ciò che riguarda la
famiglia Sogno :3
Al prossimo aggiornamento - CHE SICURAMENTE ARRIVERA'-
Baci, Marty
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