Orlando sente
che la morte lo invade,
dalla testa sul cuore gli discende.
(La
Chanson de Roland)
Michele Munerati
era steso
sul pavimento a scacchi del Maddalena, circondato dagli schizzi di
sangue
causati dalle ferite al busto. L’arma giaceva accanto alla
sua gamba sinistra,
essendogli sfuggita dalla mano già floscia mentre cadeva
all’indietro.
Un silenzio terribile
scese sulla sala, come un tremendo olezzo, mentre un filo di fumo
argenteo
saliva verso il soffitto. Stefano Delfanti teneva ancora il braccio
alzato,
anche se il suo rivale giaceva a una decina di metri da lui, in una
pozza di
sangue.
Dalla rampa di scale che
conducevano di sopra, Teresa tossì forte.
- Cosa hai fatto, Stefano?
– gridò con voce rauca – Cosa hai fatto?
Lui non si voltò; si limitò
a scuotere la testa e ad abbassare l’arma.
- Stefano, vieni qui.
Nessuno si farà male, lascia andare quella pistola.
Stefano si avvicinò al
corpo immobile di Munerati: gli occhi del morto erano ancora socchiusi
e
fissavano il vuoto, l’odio che l’aveva spinto a
quella folle missione ancora
impresso nei lineamenti contratti.
Teresa lo inseguì. – Sta’
indietro! – le urlò l’uomo.
Lei si fermò a poca
distanza da lui, fissandolo in una muta preghiera.
Stefano sospirò: - Chiudi
gli occhi, Teresina: non voglio che guardi.
- Stefano, io non credo… -
osò lei, pigolante.
- Fa’ come ti ho detto! –
un altro urlo, che riecheggiò nel salone; le altre persone
sembravano essere
state tramutate in statue di sale, tanto erano immobili e impassibili.
Teresa non chiuse gli
occhi e Stefano la guardò con gli occhi celesti luminosi di
lacrime.
- Non voglio finire ancora
più in basso di quanto non abbia già fatto
– mormorò.
Portò l’arma al capo,
abbassò le palpebre e premette il grilletto.
Quelle sul
soffitto… sembravano proprio chiazze di
sangue… no, umidità.
Avrebbe voluto domandarlo a Teresina, che gli stava
sopra con il viso bianco come calce, ma una febbre untuosa gli aveva
preso la
testa e scendeva come una cascata di miele.
Stefano…
Stefano… qualcosa gli gocciava
sulla bocca: avrebbe
voluto dirlo a Teresa, ma la febbre non gli lasciava margine di parola.
Ma quelle sul
soffitto… dovevano proprio essere
macchie… di sangue…
La schiena di
Teresa
pareva un guscio fragile, in procinto di infrangersi ad ogni respiro
inframmezzato
a parole confuse e a colpi di tosse che le scuotevano tutto il corpo
magro.
Si alzò ancora di più, su
di lei: le sue mani erano rosse come la maschera sanguinolenta che
stringeva
con grande tensione. Capì orribilmente che lui era ancora
con lei, nonostante
gli occhi del suo corpo fossero ormai vuoti.
- Teresa! Mi senti? Dimmi
che mi senti!
Un’infermiera la prese per
le spalle e la riportò in camera, dove le
somministrò una medicina dall’odore
pungente. E piano, mentre Stefano tentava di accarezzarle il dorso
della mano,
le palpebre di madreperla si abbassarono sui suoi occhi stanchi e lei
si
addormentò, con le guance ancora rosee.
- Teresa… - il suo fiato
non smuoveva i suoi capelli, a malapena rabbrividiva.
Rinunciò all’idea di
renderla consapevole della sua presenza e tornò dabbasso, ad
osservare il corpo
traforato di Munerati che veniva portato via – un
infame che avrebbe colpito alle spalle – e del suo
non c’era già
più traccia.
Ogni sua impronta
cancellata, la sua memoria già offerta alle bestie
dilanianti, Tempo e Oblio,
la sua intera anima nella mano di un filo: nel pugno chiuso di Teresa!
L’ombra
di cui era fatto tremò come una foglia al vento. Era perduto.
Non capisco se
sia questa la panacea contro tutti i
mali: è uno scheletro malfatto che sostiene il mio corpo
molle. Se crolla,
debbo ricomporlo con gran fatica, ma senza sarei perduta. Erano le ultime
parole che Cristina aveva ricevuto
da Teresa.
Le aveva lette quando gli
avevano chiesto di buttar via le carte della sorella morta: si era
scaldato al
fuoco che aveva acceso, mentre vecchie lettere e confidenze
tratteggiate in
calligrafie ugualmente femminili, ugualmente chiare e tondeggianti.
Non era stato un buon
fratello, lo sapeva, ma Cristina era scappata a diciassette anni e a
diciotto
aveva bussato alla porta di casa, implorando aiuto contro un amico
violento a
cui non aveva voluto far corrispondere gli avvertimenti dei suoi
genitori.
È uno
scheletro malfatto che sostiene il mio corpo
molle… senza sarei perduta.
Teresa aveva scritto tutto
un foglio, ma ricordava solo quel paragrafo innocente.
- Avrei voluto capirlo
prima. Forse sarebbe stato diverso. Forse mi avrebbero perdonato.
Solo una cosa desiderava
fare, cioè essere lo scheletro malfatto di cui Teresa
necessitava, ora più che
mai, piegata com’era sul letto sfatto.
- Oh, Dio, perché sei
stato così cattivo? Con me, con Stefano… a volte
– abbassò la voce – credo di
capire cos’ha visto prima di lasciarmi così
crudelmente, Signore. Credo che mi
abbia visto, perché i suoi occhi erano vivi,
ma non ha potuto dirmi niente. Non ha potuto.
La tosse la costrinse a
stringere le lenzuola sottili con entrambe le mani; si
inarcò sul materasso, i
capelli sparsi sotto una guancia.
- Se solo avessi la
possibilità di comprendere cosa voleva dirmi, potrei guarire.
La panacea
contro tutti i mali. Stefano era
sempre sconvolto dall’ossatura fragile
di Teresa, dal suo corpo sempre più magro; si
chinò dietro di lei e le prese i
gomiti, per sostenerla.
- Teresa!
Capelli ancora
folti e
lucenti, lo sguardo lucido come vetro, Teresa entrò nel
vecchio Maddalena da
una finestra spaccata. Si ferì una mano, ma
lasciò che le gocce rosse
formassero una traccia sottile dietro di lei.
La reputazione dell’ospedale
non aveva retto allo scandalo: due morti, di cui uno suicida, dopo un
duello
senza motivazione! Rimaneva solo lei, capì con un senso di
vertiginoso terrore,
a ricordare cosa era successo.
La curiosità mosse ancora
i suoi passi.
Si stese sul pavimento,
dove ricordava con chiarezza era caduto Stefano, anni prima; e il
sussurro
insistente e benevolo che udiva da allora si fece più
chiaro, tanto che pensò
di poterne discernere le parole. Il suo corpo, mai guarito dalla tisi
eppure
forte, pallido d’anemia eppure agile, amabile,
tremò e seppe che ciò che l’aveva
mossa l’aveva abbandonata. Il suo
scheletro, l’aveva definita una volta.
- Sapete, mi ricordo
ancora del momento in cui Michele è esploso:
e Stefano gli ha detto, quando ancora poteva sentirlo: Infame
codardo, speravi che non ti prendessi da davanti? Tu solo,
Signore, sai quanto abbia temuto e amato quell’uomo, in quel
momento. So che
Michele era venuto per me.
Le chiazze di umidità sul
soffitto si erano allargate negli anni.
Teresa tossì e ricadde
sulle piastrelle gelide, terribilmente stanca.
Il catarro le risalì lungo
la gola; si tappò la bocca.
All’ultimo momento, il
viso di Stefano la sovrastò, angosciato.
- Cosa volevi dirmi? –
fece un sorriso sanguinoso. Stefano abbassò la testa.
- Imago mortis –
mormorò. Scese il buio.
- Stefano?
-
Sì?
-
Perché hai ucciso Michele?
-
Perché lui ha ucciso mia sorella e avrebbe fatto
lo stesso con te.
-
Sì, ma…
-
Volevo dirti di non piangere.
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