Solo un Assaggio

di Soffidea
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Si tratta del mio primo tentativo del genere, ho cercato di rientrare nello schema definito dalla consegna del concorso. Mi sono divertita ad infarcire il testo di simbolismi, trovarli è un po' un gioco. Alcuni elementi son stati forzati dall'estrazione, assieme a loro ci sono anche i nomi stessi dei pacchetti utilizzati. Sperando di non farvi prendere cantonate colossali, a voi il racconto.

 

 

 

 

Solo un assaggio

 

 

Io sono Arha.

 

 

Parole vecchie, vuote, che rimbombano nel cervello e nascono tra le labbra socchiuse.

Erano più pesanti, prima. C'era qualcos'altro. Non ricorda bene, ma non la tocca: si dice che non era importante o lo avrebbe rammentato.

Muove un passo ed il mondo muta. Ancora.

I polsi urlano il suo dolore, lei non capisce. Abbassa lo sguardo e vede i piedi nudi affondati nella sabbia nera, migliaia di bracciali dorati le ornano le braccia sottili. Lo ha immaginato? No, ecco. Li vede muoversi, le stringono la pelle in una morsa color del sole. Fanno male.

Però brillano, sono graziosi. Le piacciono troppo, non vuole toglierli. Un'eco distante le sgorga dal petto per rammentarle di come non ne abbia mai avuti di così belli. Sente l'osso gemere tra le carni ma lo scintillio del metallo canta più forte.

Si guarda attorno, osservando la distesa desolata. L'orizzonte è lontano, sa che per quanto possa avanzare non lo raggiungerebbe mai. Quel pensiero la urta, lei lo vorrebbe. E sa che deve, perchè lì troverà ciò che cerca.

Vede solo sabbia nera. Non sa più quanto tempo sia trascorso. Ha la tentazione di voltarsi per cercare le sue orme ma dentro di lei qualcosa le impone di non farlo. Si sente pesante e stanca, il riposo è ora il miraggio delle oasi nel deserto. Si lascia convincere a cedere ma di nuovo quel sibilo silenzioso le ronza in testa, imponendole un altro "no".

Sospira e punta lo sguardo avanti a sè, obbediente. Le sembra di esser affondata un po' di più, di essere meno leggera. Le braccia ormai sono completamente ricoperte dalle fitte spirali dei gioielli, più questi crescono più lei sente il bisogno di piangere. Una tristezza immotivata la culla con dolcezza, chiedendole di lasciarsi andare. Il suo secondo sospiro è spezzato, come un bicchiere di cristallo lasciato cadere sul pavimento. La sabbia le cinge ora le caviglie.

Facendo leva sulla propria volontà, raccoglie le forze per liberare il piede dal deserto e muovere un altro passo, concedendosi una lacrima silenziosa. Ma appena questa sgorga, altre la seguono. Un vento lieve si alza per ghermire i petali bianchi che le escono dagli occhi, mentre lei si copre il viso con le mani per sfuggire alla vergogna di uno sfogo a lungo covato. Cieca, avanza di un soffio e la distesa si apre sotto di lei, inghiottendola in un gorgo nero che soffoca ogni lamento e seppellisce i suoi rimpianti.

I granelli da ruvidi si fanno soffici e poi impalpabili.

Mentre il mondo cambia e la cambia ancora una volta, lei si aggrappa a quel mantra che si ripete da un tempo infinito, da quando tutto è iniziato.

 

 

Io sono Arha.

 

 

Fumo nero e denso la avvolge, scaturisce da lei.

Ora persino il sole impallidisce al suo confronto.

Attorno a sè ode le urla senza significato di rozze creature che tentano di scappare. Come osano? Dovrebbero inchinarsi dinnanzi alla sua perfezione, non belare preghiere senza senso cercando di non ruzzolare tra le rovine incenerite. Lei splende contro il cielo notturno, guizza e crepita nel distruggere i tetti di paglia e le porte di legno, tempera il vetro delle finestre fino a farlo colare a terra annerito. Sembra che nulla possa contrastarla. Lei lo avverte e se ne compiace.

Il ferro di una pala la colpisce duramente, la sta impugnando una figura che le appare indistinta. Sotto quell'assalto geme, si ritrae ed è costretta a svanire. Ma quella dell'uomo è una vittoria momentanea.

Lei è fuoco e lo sta osservando da mille altri punti.

Indispettita da quella stupida dimostrazione di forza, decide di fargli vedere chi ne ha davvero. Si stacca con leggerezza dalla stalla al suo fianco e plana dolcemente verso il carro alle sue spalle, grata al vento per averle offerto un passaggio discreto. Ora è poco più di una scintilla, il ragazzino che si sta riparando lì sopra alza la mano per schiacciarla. Una piccola spinta nell'aria e anzichè il palmo teso sporco di fuliggine lei trova la manica di cotone. E divampa, esultante.

Le urla disperate non fanno che acuire la sua soddisfazione, il marmocchio si getta a terra per rotolare nel fango. Decide di permetterglielo, giacchè si rivela un'ottima via per intaccare le ruote del mezzo. I cavalli si spaventano e iniziano una folle corsa che termina quando il timone si spacca. Quel che rimaneva all'uomo con la pala, sta agonizzando o bruciando. Che gli sia di lezione!

La notte brilla della sua luce, lei è felice.

Ma sente che manca qualcosa.

Ora che il villaggio è irrimediabilmente perduto, si lascia in balia del vento, riflettendo.

Il suo splendore si affievolisce, spegnendosi poco a poco.

Un pensiero.

 

 

Io... sono Arha.

 

 

Il vento soffia più forte e la luce non proviene più da lei.

Ha sempre amato quella sensazione. L'aria che s'insinua tra le sue piume, che la sorregge quando è stanca, che la porta più in alto per facilitarle la caccia.

Intorno a lei c'è soltanto l'azzurro intenso del cielo, il suo petto è gonfio di quella libertà assoluta che ora detiene. Vorrebbe trattenersi ancora un po' ma il suo nido richiede nuovamente la sua attenzione.

Sfrutta la corrente per planare verso il basso, dove la sua casa l'attende tra le foglie di un nocciolo.

Gli artigli fan presa sui ramoscelli che scricchiolano sotto il suo peso, ripiega le ali mentre conta i suoi diletti. Ci sono ancora tutti, può dormire sogni sereni. Si accoccola tra le uova che copre col corpo, la mente rimane vigile sinchè il sonno ha la meglio.

Va tutto bene.

Sa di non provare sensazioni così piacevoli da molto, troppo tempo. Non rammenta il perchè, forse la covata precedente era stata peggiore?

Una punta di inquietudine screzia quel momento perfetto, ma lei è una regina dell'aria e la sua stirpe è al sicuro sotto le sue penne.

Andrà tutto bene.

La sveglia il trambusto che preannuncia il pericolo.

Il suo piccolo cuore batte veloce, ascolta ed attende. Si alza in volo quando capisce che si sta avvicinando, per distoglierlo dal suo nido. Non deve raggiungerlo, non deve trovare i suoi piccoli.

Andrà tutto bene?

Una cacofonia di voci umane seguono il suo donarsi al cielo, le sovrasta con un personale urlo di guerra. La sua paura è con i piccoli, ora vola sola. Si alza ancora, cercando di incantarli con la malia delle movenze che il vento le suggerisce, novella strega di un incanto senza nome. Li chiama a sè, li chiama lontano. Quando teme che stiano per desistere, rallenta e torna indietro, si fa beffe di loro per costringerli al suo gioco.

Ed un rumore assordante le fa esplodere l'ala, le sue piume rimangono sospese per un istante ancora e infine precipitano verso il prato, assieme a lei. Il suo respiro è perduto nel buio di una strana notte che si insinua in quel mattino, pensa soltanto che è abbastanza lontana. Che alle uova potrà pensare lui.

I suoi occhi dorati vorrebbero guardare il cielo, ma a nasconderlo c'è un uomo dal volto familiare. Tra le sue mani, una carabina d'argento. Le sue labbra si muovono, le sussurra qualcosa.

Tornare indietro? A cosa? Dove?

Cala il silenzio, assieme alla lacrima che segue la guancia del cacciatore.

 

 

...sono Arha...

 

 

Una goccia che si espande, la ghermisce e si popola di vita.

Nuotare, dice a sè stessa, è un po' come volare. Un pensiero istintivo, che la fa sorridere. Chissà da cosa nasce quella presunzione circa il volo, lei ha sempre vissuto qui.

Un colpo della pinna dalle scaglie argentee e s'inabissa più a fondo, lì dove i raggi del sole si fanno più rari. Si lascia alle spalle i coralli e la sabbia soffice, cercando la compagnia di predatori fatti di luce e denti aguzzi. Lì il mare è freddo, nasconde correnti che sfiorano le lande ghiacciate.

Quando era piccola, ricorda di aver insistito per poterle visitare. Aveva infranto la cresta dell'acqua con un colpetto del capo e allungato la mano verso la distesa di terra candida. Si era ritratta subito, il gelo le aveva punto le dita. Aveva atteso il mattino per poter osservare come il ghiaccio si illuminasse, aveva nuotato sotto la superficie inspessita di un lago. Un pescatore l'aveva scorta e si era allontanato urlando, proprio come lei era fuggita spaventata. Ma un giorno ci sarebbe tornata.

Non le piacevano gli uomini, razziavano e distruggevano il suo mondo. E quando ne diventavano parte, erano sempre freddi o inerti, destinati a svanire.

Eppure, il suo luogo favorito era una loro opera reclamata dall'oceano.

Risalì seguendo il costone di roccia coperto di conchiglie e lo scorse di nuovo. C'erano degli strani disegni sulla fiancata, ma il tempo li aveva celati sotto diversi strati di alghe. Il metallo era coperto da molluschi, in quella che era stata una sala da ballo dormiva un calamaro gigante. Lei nuotava silenziosa tra i corridoi e le cabine abbandonate da secoli, scorgendo qua e là le ossa sbiancate dei suoi abitanti originali. In una stanza, era rimasto un oggetto straordinario. Era quello che l'attirava lì, un grosso rettangolo crepato che riflette la sua immagine. Quando ci torna, più spesso di quanto ammette a sè stessa, lo pulisce e si ammira.

Vedersi è una sensazione strana, le piace ma la inquieta. Perchè avverte una nota stonata nel riflesso che lo specchio rimanda, sa che qualcosa non torna.

I suoi occhi di piombo adocchiano l'immagine e si fissano nel suo steso sguardo. Rimane immobile a lungo, cercando l'origine di quella strana emozione. Assomiglia ad un avvertimento, decide. Ma non ci sono pescatori qui a farle del male, nessun abitante del mare la sfiorerebbe con cattive intenzioni. Nel suo elemento, nella sua casa, decide di ignorarsi e continua a guardare. Quando il tempo si accumula sulle sue spalle minute e lei sta per abbandonare la cabina, lo vede. Uno scintillio lontano. Stringe gli occhi per seguirlo, guarda attraverso sè stessa.

Lo sguardo si fa distante, le labbra mormorano qualcosa.

 

 

...sono...Arha...

 

 

L'oscurità degli abissi si addensa intorno a lei, accompagnandola ancora una volta verso un mondo nuovo.

D'improvviso si spacca, ferita da lampi fragorosi che s'aprono in fiori di luce. I fuochi d'artificio rallegrano quella notte invernale e qualcuno la stringe a sè, proteggendosi dal freddo.

Essere sballottata in giro è qualcosa che non sopporta. Sfortunatamente, è anche una caratteristica costante della sua esistenza.

Quando la bambina torna a casa e svanisce sotto le lenzuola che la madre le rimbocca ogni sera, giunge finalmente il suo attimo di pace. Alle volte le tocca dormire assieme alla sua aguzzina, ma l'emozione dei festeggiamenti l'ha sfiancata e quando la luce si spegne la bimba dorme già. La donna si avvicina a lei per riporla nella scatola che loro chiamano casetta, su una poltrona di velluto che di morbido ha soltanto l'apparenza.

Un ricciolo e' scappato al fiocco che le orna i capelli, darebbe qualsiasi cosa al mondo pur di poter alzare la mano e toglierselo dal naso. Ma la porcellana non è certo famosa per la libertà di movimento che offre. In lontananza, un orologio a pendolo conta il tempo mentre lei osserva la numerosa schiera di pupazzi sullo scaffale di fronte. Li conosce tutti, i più vecchi di tanto in tanto spariscono nel nulla. Si chiede se ne hanno paura, lei la considererebbe una vera benedizione. Non le accadrà mai, purtroppo. Un dono della nonna non si può certo buttare! E poi l'aveva commissionata per essere proprio uguale al suo angioletto. Sì, quella dannata scrofa viziata che strilla e batte i piedi ad ogni capriccio. Si lascia cullare da ingenue fantasie di vendetta, costretta a vivere soltanto in quelle di chi ha il suo stesso volto ed ora russa nel lettino. Sta immaginando la faccia della mamma nel vedere la bambina senza testa, come era accaduto all'orsetto Puffy, quando un luccichio la distoglie dai suoi pensieri.

Lo cerca di nuovo, scoprendolo nei bottoni d'ottone d'un farsetto. Quel coniglio era lì anche prima?

Non si ricordava di averlo visto. Aveva una corona in testa, un paio di occhiali rotondi e uno strano bastone cosparso di gemme. Dovevano essere finte, però non lo sembravano affatto. Lo stava ancora fissando quando questi s'alzò in piedi e le fece un inchino. Sorrise nel vederla rimanerci di stucco, quindi prese a frugarsi in tasca, facendole segno di restare in silenzio. Una parte di lei si irritò profondamente a quel gesto, vedendosi sbattere in faccia l'impossibilità di contravvenire a quella raccomandazione. Ma era distratta, stava seguendo il fare del pupazzo.

Una coppia di bastoncini incrociati sbucarono dalla tasca, e man mano che li alzava i fili trasparenti che pendevano sotto di loro si allungavano. Per ultime, comparvero le figure di due ballerine. Aveva già visto delle marionette, quelle non lo sembravano. Le vedeva respirare, stavano singhiozzando. Erano bambine?

Il re coniglio aprì la bocca e al posto della stoffa lei vide una linguetta rosa, umida e vera.

Parlò.

Era la voce più bella che avesse mai udito.

Si lasciò catturare dal mondo che dipingeva a parole, costringendo le danzatrici ad interpretarne il racconto. Appena ne finiva uno, iniziava a raccontarne un altro. Più loro piangevano, più crudeli diventavano le favole che le vedevano protagoniste. Ma a lei non importava nulla, non provava pietà per chi somigliava alla sua padrona. Le fece l'occhiolino e tra varie moine la spinse a guardare come dal nulla fossero apparsi dei nuovi legnetti. E come i loro fili sparivano tra le coperte del lettino. Si sentì felice. Iniziò una nuova storia.

« ...non si erano mai viste bambole di pezza così eleganti. »

Quella frase ruppe l'incanto. Poteva davvero condannare la sua strana metà a quella sorte? E compiacersene?

La figurà mutò. Il sorriso divenne un ghigno, gli occhi gentili brillavano avidi. Sentiva che qualcosa le stringeva i polsi e pur non potendosi guardare le manine sapeva che a farlo erano dei fili trasparenti. Ma lei era soltanto una bambola, mille volte più inutile delle sue. Perchè la voleva?

La porta si aprì di scatto e la luce di una lampada innondò la stanzetta. Sull'uscio c'era un uomo dai capelli biondi e gli occhi tristi, non lo conosceva ma le sembrava di averlo già visto prima.

Prima. Ma non da bambola? Cosa c'era prima? C'era stato un prima?

Lo osservò scagliarsi contro il pupazzo e gettarlo nel camino spento. Le fiamme arsero dal nulla e i loro colori le sembrarono improvvisamente più veri. Nella mente si figurò un carro bruciato. Perchè?

Ma il coniglio aveva ancora i suoi bastoncini. La tirò a sè. Sentì l'uomo urlare qualcosa ma non lo vide muoversi per salvarla.

Ricordare? Cosa c'era da ricordare?

Divenne tutto buio.

 

 

...Io...

 

 

Guarda in basso ma tutto è nero.

Un colore uniforme, quasi solido. Allunga le dita e distingue la sagoma della propria mano, ne resta sorpresa. Sotto i polpastrelli, una superficie liscia e fresca. Vi poggia contro il palmo e lo fa scorrere verso destra, incappando un un solco sottile spesso qualche millimetro. Corruga la fronte, lo ispeziona per un po'. Continua a sondare il terreno fino a scontrarsi con qualcosa di verticale. Duro. Vi picchietta contro una nocca e il suono le conferma che qualsiasi cosa sia, è piena. La tasta un po' e incappa in un gradino. Alza lo sguardo ma l'oscurità rimane fitta ed è il tatto a confermarle che ne seguono altri.

Dove porteranno?

Facendo leva su quello che ora sa essere un muro, si mette in piedi. Tentenna, incerta se proseguire. Salire una scala che non si vede non le pare una buona scelta. Ma non ne trova altre.

In quel momento, l'eco distante di un campanellino la raggiunge. Un suono sottilissimo, tanto che crede di immaginarselo. Ma lo sente ripetersi e si trova a seguirlo, dapprima lentamente, ponendo la massima cautela ad ogni passo. Poggia il piede, si accerta che lo scalino reggerà il suo peso. Avanza e si ferma di nuovo, per assicurarsi di non cadere nel vuoto. Perchè dentro di sè è certa che non vi sarebbe alcun atterraggio, soltanto l'aria a scombinarle i capelli e strapparle il respiro.

Non sa da quanto tempo sta rincorrendo quel trillo, ci sono momenti in cui le sembra una salvezza, altri in cui lo crede una condanna. Alle volte, per costringersi a salire, deve dirsi che qualcosa di orribile la sta seguendo. Altre, si chiede se non sia lei il mostro che cerca di agguantare il piccolo tintinnio. Tenta di tener il conto dei passi che la spingono verso l'alto, ma poi si lascia andare. Ricomincia a contare e di nuovo si perde, singhiozzando nelle tenebre. La mancina sale al volto per scacciare una lacrima, proprio su uno degli ormai molti gradini settantaquattro, ma invece di trovarvi dell'acqua accarezza un petalo.

Giglio. Nell'aria ora c'è un debole profumo di gigli.

Per qualche motivo che non riesce a spiegarsi, questo la conforta. E riprende a salire.

Passa un'eternità e forse un'altra ancora, prima che uno spiraglio di luce illumini la sua ascesa. La luce le dona nuova forza e si fa meno cauta, la spinge a inseguire il suono fattosi più chiaro. Molti passi dopo, lo scorge proprio sulla soglia. La schiena di un gatto striato, una lunga coda che si dimena stancamente sul pavimento. Quando gli è vicina, l'animale si allontana con un balzo e salta oltre l'uscio.

Fa per seguirlo, ma dove prima c'era l'aria, ora c'è un muro di pietra. Si volta e non vede scale, ma soltanto altre pareti. Una stanza chiusa.

Si lascia cadere a terra, la testa tra le mani, e urla al nulla tutta la sua frustrazione.

Quando la sua gola è seccata e la voce svanita, continua a urlare il suo silenzio.

E quando termina anche quello, l'aria torna ad arricchirsi di quell'aroma dolciastro di fiori. Meccanicamente, i suoi occhi vanno in cerca della sua origine.

Un quadro.

Un cielo sereno tinto d'azzurro, una distesa smeraldina punteggiata di bianco. Un pallido sorriso le piega le labbra. Un gazebo dalle colonne di marmo striate dall'edera ed un orizzonte fatto di abeti lontani. Si alza in piedi, continuando a guardare. Nella camera si riversano gli odori dell'erba, dei fiori, della rugiada del mattino. Qualcosa le solletica la mano, una farfalla dalle ali nere e arancioni. Un contatto breve, l'insetto vola lontano rientrando nel dipinto. Una brezza rinfrescante le smuove i capelli, facendo ondeggiare i riccioli corvini. Nel suo cuore nasce il bisogno di seguire la farfalla e far parte di quell'immagine. Nel momento stesso in cui lo realizza, si trova immersa in quel paesaggio.

Stende le braccia e gira su sè stessa, respira a fondo l'aria pulita, si gusta quella sensazione di libertà. Non vede cornici, nè prigioni di pietra. Non ci sono pennellate sapienti, è tutto reale. Quando si sente stanca ed il tepore del sole la spinge alla sonnolenza, cerca riparo tra le colonne bianche. Socchiude gli occhi all'ombra della cupola, ascoltando il fruscio degli alberi. Si sente bene. Ma una macchiolina sporca la pace del momento, qualcosa che sa di aver dimenticato. Un quieto ronzio le fa aprire gli occhi e si accorge che è il sole ha ceduto il posto alla luna. C'è un lago che non aveva visto prima, illuminato dal riflesso delle stelle e dai puntini luminosi delle lucciole. Sono loro ad averla svegliata, le danzano attorno, sembrano incitarla. A ricordare? Cosa? Chi?

Si dispongono nell'aria, formando delle lettere. Un nome: Sìnead. Lo conosce, ne è sicura. Ma non c'è altro che la sua mente sembra volerle concedere.

Si avvicina all'acqua in punta di piedi, chinandosi sulla riva per osservare il proprio riflesso. Si sorride, sentendosi sciocca a salutare la sua immagine.

E non è più il riflesso smosso di un lago, ma quello nitido e perfetto di uno specchio.

Sbatte le ciglia, accorgendosi che dietro di lei c'è qualcuno. Voltandosi, trova un secondo specchio, perfettamente identico all'altro. Ma non le rimanda la stessa immagine. La donna che la osserva stupita è sempre lei, ha i suoi capelli e le sue forme, ma veste in modo diverso. Indossa abiti dal taglio maschile, simili a quelli di un paggio. Si gira ancora, perplessa, e invece del riflesso familiare si vede con una buffa parrucca incipriata, le labbra dipinte di viola, stretta in un corsetto di seta rosa, i piedi ornati da buffe scarpette a punta rosse ed il collo nascosto da una strana sciarpa di piume blu. E basta. La sua nudità l'imbarazza e si volta di scatto, osservando ora una distesa d'acqua salmastra e una figurina seduta su uno scoglio. Quando prova a muovere un braccio la vede fare altrettanto, ma non riesce a distinguerne i tratti. Turbata, finisce per guardare un piccolo fiore dai petali rosati, abile nel far ondeggiare i petali come la sua mano. E diventa un susseguirsi infinito di altre vite, di altre sè. Umane, animali, vegetali, eteree, astratte. La testa le gira e chiude gli occhi, stringendoli forte.

Sente la sua voce cantare una ninnananna, ma le sue labbra sono chiuse. Si guarda riflessa, si vede cullare un fagottino di stoffa sussurrando una nenia addolcita dal suo amore.

La mano sale per sfiorarsi il ventre piatto, mentre lo specchio si oscura. Lacrime amare le scendono copiose lungo le guance, mentre sente il corpo spezzarsi sotto un dolore talmente grande che la mente non può riuscire ad immaginarlo. Sola, si rattrappisce come un foglio di carta dato alle fiamme, trattenendo il respiro per non disfacersi e divenire cenere.

 

 

...

 

 

Cammina. Non sa da quando. Non ha un perchè. Forse fugge dai ricordi. Non ne ha, se si ferma la raggiungeranno?

Non vuole ridivenire schiava di quelle catene fatte da lacrime e sorrisi.

Senza forma, le sue mani sono trasparenti, le sue gambe non hanno sostanza.

Avanza. Ancora. Ancora.

Ancora.

 

 

...

 

 

Davanti a lei c'è un vecchio pianoforte di legno. Una sedia ospita una bambina con un buffo abitino ricamato, la gonna sembra una nuvola di veli. Le da le spalle, tiene il capo chino sui tasti dello strumento. Sembra concentrata, forse un po' triste. La riconosce all'istante.

La sua piccola.

Vorrebbe correre da lei, abbracciarla e stringerla forte a sè. Ma non le è concesso, perchè sta fallendo. Sta svanendo. E la colpa è soltanto sua.

L'umiliazione della sconfitta la sovrasta, schiacciandola come mille montagne.

Ma la sua volontà era soltanto sbiadita, non perduta. La stava costringendo ancora ad andare avanti, anche quando lei dimenticava.

« Ti salverò. »

La sua voce suona sicura, il fuoco che le arde dentro è di nuovo completo. Non lascerà più andare la determinazione che ha ritrovato. Non sbaglierà.

Le manine della sua Irie, la sua adorata bambina, si muovono sui tasti d'avorio.

L'aria si riempie della ninnananna che lei le cantava ogni sera accarezzandole il capo, promettendole sogni sereni.

Chiude gli occhi.

E ricorda.

 

Una bottiglia di cristallo dal liquido cangiante, il più grande tesoro di ogni mago.

Magia, pura e semplice.

Ci sono innumerevoli leggende legate al potere degli stregoni, lei le conosceva tutte. Per anni aveva lavorato per uno dei più grandi incantatori della sua epoca. Un uomo accorto, gentile, misurato. Affascinante, con i suoi occhi azzurri e i capelli color grano. Sì, lo conosceva bene. Giovane soltanto in apparenza, la prima a servirlo era stata la nonna materna. Si vergognava ad ammetterlo, c'era stato un tempo in cui lo aveva desiderato per sè. Si era poi sposata con un uomo diverso, le aveva dato una bimba. Erano stati felici.

Ma erano tornati due.

 

La magia poteva tutto. E lei non la possedeva.

Lui era un mago però non voleva renderle la sua creatura, le diceva di rassegnarsi alla perdita. Oh non l'avrebbe mai fatto, mai. Lo aveva giurato a sè stessa: se al mondo esisteva un modo per riaverla lei lo avrebbe trovato. Ci sono tesori che nessuno può accettare di abbandonare. Glielo aveva detto, gli aveva offerto persino la sua vita in cambio. Ma lui era sordo. Diceva che non si poteva, era irremovibile. Non era possibile? Mentiva!

Sì, la magia può tutto.

Anche rendere un mago chi non lo è.

Non le importava di rischiare di impazzire, di svanire nel nulla, di dover nascere e morire millecentoundici volte. Se quella doveva essere la prova, l'avrebbe superata! Perchè nessuno lo capiva? Nessun prezzo sarebbe mai stato troppo alto per lei. Aveva indossato la maschera del lutto a beneficio del mondo. Si era forzata ad attendere, soltanto un po', quel che bastava per convincere gli altri. Sapeva dov'era custodita la bottiglia di cristallo. Non ne aveva preso molto, davvero. Si era bagnata le labbra e poco di più, a malapena un sorso.

Solo un assaggio.

 

 

...Io sono Arha...

 

 

Mentre il mondo muta ancora, dice a sè stessa che non lo avrebbe più dimenticato.

 

 

...

 

 

« Mi resta soltanto lei, salvala! »

« Ho provato. »

« Tenta ancora! »

« Non mi è possibile. »

« Come? Perchè? »

« Perchè ormai sta singhiozzando rubini. »

« Non capisco, cosa significa? »

« ...che non tornerà. »





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