Questa storia si è classificata prima al Contest “La Bellezza di una Coppia. Canon o fanon? A noi non importa” organizzato da Christine23 e Venenum. In coda, viene riportato il giudizio e il punteggio ottenuto dalla storia, corredato di link per eventuali verifiche. Le distrazioni, i refusi e gli errori di grammatica sono stati corretti. Non ho invece corretto quelle che io considero scelte lessicali, ritmiche o stilistiche.
La storia ha vinto inoltre i seguenti premi speciali al medesimo contest:
- Premio De Andrè per le atmosfere e la gestione della storia
- Premio Shakespeare per la Tragedia
- Premio Stile
- Miglior personaggio maschile (Barone Sanguinario)
- Miglior Pairing (Barone Sanguinario/Dama Grigia)
- Premio Originalità
- Premio Harry Potter
- Premio Intreccio
- Miglior Sviluppo del Prompt
1996
Inferni, Diavoli ed Eroi
«Hell is repetition».
Stephen King, Storm of the Century.
Scendeva la sera mentre gli studenti si riversavano nei corridoi e giù per le scale, diretti a cena. L’ultima lezione pomeridiana era finita da un pezzo e tra le mura della scuola riecheggiavano i mormorii soffocati e i gridolini di eccitazione che precedevano il banchetto di Halloween. Vistose decorazioni a forma di zucca aleggiavano sopra il capo dei passanti; qualcuno aveva incantato dei pipistrelli di cartapesta, che si nascondevano negli angoli scuri del soffitto e nelle nicchie dei muri e sbucavano all’improvviso dai loro nascondigli, suscitando reazioni di sgomento miste a fischi di approvazione.
Scheletri ornamentali di un bianco spettrale danzavano nel buio degli androni; qualcuna delle ragazze si ritraeva alla loro vista, reprimendo un brivido di disgusto. Altre, più a loro agio, improvvisavano passi di danza e ridevano tra loro.
Il soffitto della Sala Grande pareva una volta spalancata su un cielo violaceo, cosparso di nubi fosche e minacciose; lampi accecanti serpeggiavano nelle tenebre.
Al tavolo di Gryffindor, Natalie McDonald ascoltava affascinata il racconto del fantasma della sua Casa, che celebrava l’anniversario della sua morte.
«Sissignora» stava dicendo Nick-quasi-senza-testa, «sono morto da più di cinquecento anni».
«Oh». Natalie spalancò gli occhi. «E com’è successo?»
Dai posti vicini si levò un mormorio di protesta. «Ogni anno la stessa storia».
«Mi sembra un atteggiamento quantomeno irrispettoso, giovinotto». Lo spettro scoccò un’occhiata piena di sdegno a Cormac McLaggen che, in risposta, esibì un sorrisetto arrogante.
«Beh» commentò il ragazzo, con sussiego, «penso solo che un fantasma dovrebbe avere ben più da raccontare della solita solfa trita e ritrita».
«Come ti permetti, screanzato? Io conosco centinaia di storie e ognuna di esse ti toglierebbe il sonno per una settimana!» inveì Sir Nicholas, agitando un pugno sotto il naso del ragazzo.
Quello ghignò senza scomporsi. «Vorrei proprio ascoltarne una, allora».
«Non credo che tu ne sia all’altezza, ragazzo» ribatté il fantasma, arricciando le labbra in una smorfia di sufficienza.
«Oh, anch’io vorrei tanto sentirla» sospirò Natalie, speranzosa.
«Sì» soggiunse la ragazza seduta di fianco a lei, una biondina smunta dai lineamenti simili a quelli di un roditore. «Un racconto di fantasmi è l’ideale, la notte di Halloween».
«Che sia misterioso» puntualizzò Nigel Westpurt.
«E romantico» cinguettò Lavanda Brown, sbattendo le ciglia.
Un paio di studenti del primo anno si unì al coro di richieste; Sir Nicholas parve soppesare le proprie alternative. Infine si accigliò e borbottò: «Una volta un mio antenato è stato sfidato a duello dal Diavolo in persona; in famiglia si diceva che gli avesse predetto persino la mia morte... » Fece una pausa e poi aggiunse: «Sono abbastanza certo che fosse meno molesto di voi».
Si allontanò impettito, tra la delusione degli astanti, e aveva quasi raggiunto l’altro capo della tavolata quando tutti lo videro arrestarsi, voltandosi a guardare qualcosa all’estremità opposta del salone. Il mento gli si piegò verso il basso in un modo che sarebbe stato quasi buffo, se la vuota fissità del suo sguardo non avesse smentito ogni possibile intento giocoso. Dalle labbra gli sortì un sussurro flebile, che si spense senza rumore tra le voci dei commensali e un clangore lontano e sordo di catene scosse. Il Barone Sanguinario lo stava scrutando, lugubre e minaccioso nei suoi ceppi.
Al tavolo di Slytherin, intanto, qualcuno raccontava una storia di fantasmi.
«Così il Cavaliere Nero gli puntò la spada alla gola e... » Harper fece una pausa, in cerca dell’attenzione dei suoi commensali. «Sapete cosa fece?»
Blaise Zabini fece schioccare la lingua con impazienza. «Taglia corto. La cena è quasi finita».
Harper fece una smorfia, deluso. «Siete un pubblico orrendo».
«Qui in fondo, comunque, non si sente niente» si lagnò Asteria Greengrass. «Questi due non fanno altro che masticare».
Tiger e Goyle, sentendosi chiamati in causa, emisero un paio di grugniti di protesta.
«A me non sembra che facciano tanto rumore» obiettò la Parkinson, guadagnandosi un’occhiataccia da parte delle compagne. Theodore Nott sollevò su di lei uno sguardo ansioso e parve voler intervenire in suo sostegno, dedicandole un principio di sorriso, ma subito tornò impassibile, a chiudere le palpebre livide, adombrate da desideri inespressi. Tutti sapevano che Pansy non aveva occhi che per il ragazzo alla sua destra, che sedeva, pallido e serio, con le braccia strette al petto magro e gli occhi fissi su un punto lontano.
Certe sere come quella, quando tutti avevano qualcosa da raccontare, i ceppi pesavano di più. Gli sguardi carichi di timore lo attraversavano come fosse fatto di fumo - e di cosa era composto il simulacro di corpo che il suo destino gli aveva affibbiato per farsi gioco di lui ancora una volta? - ma il peso del tempo e dei segreti gli pesava sul petto, affliggendogli il cuore immoto e chiudendogli polmoni che da tempo avevano smesso di respirare, sigillando le sue labbra su ciò che si celava oltre il sangue che gli macchiava i vestiti e l’anima e il terrore che sapeva suscitare e quel nome da operetta con cui era stato designato, da qualcuno che non si era mai domandato quali davvero fossero gli anelli della catena che lo legava al proprio dolore.
Come il giovane Malfoy, che si torceva nelle lenzuola arroventate dai sogni, sibilando tra i denti stretti un nome che mai avrebbe dovuto uscire dalle sue labbra, e Nott, che tesseva le sue illusioni durante la notte e le disfaceva di giorno, il Barone Sanguinario nascondeva l’amore sotto il suo mantello macchiato d’argento.
Per esso aveva ucciso e, in ultimo, aveva voluto morire.
«Everybody is a hero, a lover
a fool, a villain.
Everybody has their story to tell».
Alan Moore, V for Vendetta.
Il cielo aveva la sfumatura stinta di nuvole pigre e il prato sotto di esso era di un verde tanto accecante da sembrare un dipinto. Sotto i piedi, gli steli d’erba si piegavano senza spezzarsi e altrettanto dolcemente si rialzavano, quasi danzando, al ritmo dei passi della sua Dama. Il gioco in cui l’aveva trascinato non era altro che un puerile rincorrersi - tendete le vostre mani verso di me, affinché io possa illudervi che mi lascerò afferrare - ma lei aveva gli occhi ridenti e grandi come laghi e pomelli rossi sulle gote e forse, se lui l’avesse rincorsa abbastanza a lungo, gli avrebbe permesso di tenerla tra le braccia e di farla volteggiare sulle note di un ballo in tre tempi.
L’ampia gonna del suo vestito si era sollevata, mostrando un tratto candido di pelle tesa su caviglie sottili e aggraziate. Lui aveva allungato le dita a ghermire la stoffa e lei gli era sfuggita di un soffio; la sua risata argentina si era sparsa per i campi come il suono di mille campane a festa.
La corsa si era spinta ai limiti dell’imbrunire; sullo sfondo di un orizzonte sgombro di nubi, lui l’aveva inseguita tra sbuffi di caligine che si levavano molli al posarsi dei loro piedi e alberi carichi di frutti e foglie tenere che fremevano alle carezze dell’aria notturna. Sotto le fronde di un salice, i profili di pietra di due lapidi gemelle si riflettevano nelle acque scure del fiume e la sua Dama attendeva seduta sulla riva.
«Quante volte ancora mi sfuggirete?»
«Sempre una in più».
«Lord Bertram, siete sveglio?»
Nonostante la spossatezza derivata dal sogno appena sfumato, ebbe la forza di annuire. Si alzò dal giaciglio e si passò una mano sul volto; la luce che filtrava dalla feritoia nel muro era pallida e sbiadita, segno che l’alba era passata da poco. Sulla porta, un po’ in ombra, il suo elfo domestico si schiarì leggermente la voce e sollevò la mano che reggeva un grosso volatile incappucciato dal piumaggio bianco e grigio.
«Scoprigli la testa, Ablend».
Il braccio dell’elfo vacillò. «Sì, mio Signore» disse. Tuttavia, rimase a lungo immobile e le sue dita ebbero uno spasmo quando finalmente riuscì ad avvicinarle ai lacci dietro il collo dell’animale.
«Ablend, non è stato lui a cavarti gli occhi».
«N-no, Signore. È stato il mio vecchio padrone a ordinare ad Ablend di strapparli via».
«Allora fa’ quel che ti ho detto, prima che ti comandi di fare altrettanto con la tua lingua».
«Sì, Signore. Subito, Signore».
Il falco sbatté le ali poderose e schiuse il becco ricurvo, gonfiando le piume del collo; poi spiccò il volo fino a raggiungere il suo trespolo, posizionato al centro della stanza. Legato a una delle sue zampe, recava uno scampolo di pergamena richiuso da un nastro blu.
Lord Bertram lo sfilò con delicatezza; il nastro gli si avvolse docilmente tra le dita come se lo avesse riconosciuto e lui poté intravedere le prime parole della missiva. Aggrottò la fronte, sentendo la stanchezza piombargli addosso come una cappa di piombo; qualcosa di simile gli irritò la gola, costringendolo a tossire. Abbandonò la corrispondenza sul letto e indossò gli stivali e il mantello.
«Ablend, fa’ preparare la mia cavalcatura».
«Sì, Signore». La voce della creatura s’incrinò. «Dove andate, Signore? Se Ablend può domandarlo».
Lord Bertram sollevò un braccio e il grido del rapace echeggiò nella camera; l’elfo si rannicchiò su se stesso, proteggendosi la testa con le mani ossute, in attesa dell’attacco del volatile, che invece si posò sulla spalla del suo padrone e piegò docilmente la testa sotto l’ala. Per un attimo regnò il silenzio, rotto solo da sporadici singhiozzi. Poi l’uomo si allacciò il cinturone in vita e abbassò lo sguardo a terra.
«Vado a Hogwarts» disse. «Lady Rowena sta morendo».
Un tempo, aveva amato quei luoghi.
C’erano stati giorni lunghi dal profumo di pioggia che, chissà come, sapevano sempre di Primavera, in cui aveva vissuto la brughiera amandone luci e ombre. Ore di cui aveva apprezzato ogni istante speso a piegarsi su una pergamena o a mescolare il contenuto ribollente di un calderone, spiando l’espressione sul viso di una ragazza per capire se lei lo stesse guardando di nascosto a sua volta. Erano state stagioni trascorse a inseguirla tra l’erba alta o su per le scale strette del Torrione centrale e trovarla inondata di luce, a ridere, senza il ricordo di un dolore.
C’erano sogni, negli occhi di lei, che danzavano senza sosta e dettavano il ritmo dei battiti del suo cuore. Certe volte le sfiorava la mano e permetteva che questo gli turbasse il sonno; una volta sola l’aveva baciata e questo era bastato per dannarlo per sempre.
Helena era fuggita, lasciandosi dietro un quadro vuoto e il dolore della sua assenza.
La bandiera blu con il blasone dell’aquila sventolava a mezz’asta sopra la Torre di Ravenclaw e si stagliava contro l’azzurro terso del cielo come un vessillo di sventura. Bertram diede di sprone e il cavallo accelerò l’andatura, scuotendo la folta criniera nera; giunto di fronte all’imbocco del sentiero che conduceva al portone principale, si fermò, permettendo al suo cavaliere di smontare e proseguire a piedi. Il rumore di zoccoli si dissolse ben presto nell’aria gelida di Dicembre, portato via dal fragore del vento che spazzava impetuoso la brughiera desolata, non ancora imbiancata dalle prime nevi che avrebbero presto annunciato la venuta dell’Inverno.
La Scuola era immersa in un silenzio greve di sonno e lutto imminente; i pochi studenti che si trovavano all’esterno, abbigliati con la veste nera da mago su cui era stato cucito lo stemma della loro Casa di appartenenza, apparivano disorientati e smarriti e seguivano il suo passaggio con occhi pieni di preoccupazione.
L’alta soglia di Hogwarts si spalancò, mostrando la figura di un uomo alto e magro, dal volto austero. La bocca severa era una linea diritta e dura, che pareva quasi intagliata e spiccava sull’incarnato pallido, come pure gli occhi, verdi e profondi, e la barba, scura e a punta, che gli ricopriva il mento e si congiungeva alla capigliatura all’altezza degli zigomi sporgenti.
Il mago gli andò incontro, allargando le braccia.
«Figlio mio».
Bertram s’inchinò. «Maestro Salazar. Sono venuto appena ho saputo».
«Seguimi. C’è una cosa molto importante di cui Rowena vuole parlarti».
«Quanto tempo le resta?»
«È una donna molto tenace» ribatté il suo interlocutore, facendogli strada. «E desidera ancora vivere. Per ora».
Raggiunsero assieme l’anticamera, spogliata dai suoi consueti fasti; Slytherin gli indicò le scale con un cenno, invitandolo a salire.
«Voi non venite con me?» domandò Bertram.
«Sono tutti nella sua stanza. Helga, le sue ancelle. E Godric» sibilò, irrigidendosi.
«Avete avuto altri dissapori?»
«Temo che non ci sia modo di appianarli questa volta» confermò il Maestro. «Le nostre vedute sono troppo distanti. Ora va’» aggiunse, «Lady Rowena ti attende dall’alba e ti ho trattenuto sin troppo a lungo. Sarò nel mio Studio; passa a salutarmi, prima di andartene».
Non era mai tornato nei sotterranei, da vivo.
Aveva lasciato la Torre di Ravenclaw in fretta, come se fosse inseguito dal diavolo in persona, venuto a reclamare la sua anima per portarla negli abissi dell’Inferno vuoto della memoria; strade lastricate di ricordi avevano annunciato la sua venuta: la cornice che si apriva su una stanza buia e lo fissava col suo occhio cieco, la teca vuota di cristallo incantato che un tempo aveva contenuto il Diadema e ancora rifletteva l’immagine di chi per ultimo l’aveva toccata. Eppure, lui era andato avanti lo stesso, si era inginocchiato ai piedi della Dama e le aveva tenuto la mano, mentre lei riapriva una per una le sue ferite con parole taglienti come frammenti di vetro.
Godric lo squadrava con gli occhi fiammeggianti e montava una guardia silenziosa alla destra di Lady Rowena, che invece lo guardava con l’affetto di una madre.
«Maestra, perché sono stato chiamato?»
La sua risposta era stata un sussurro stanco. «Si tratta di Helena».
Nessuno aveva fiatato.
«L’ho cercata ovunque, Maestra».
«Non ti sei mai arreso».
«No, Signora».
«Allora è giunto il momento che tu la trovi. C’è un uomo, un monaco del Convento di Camden, che forse può aiutarti. Helena gli ha mandato qualcosa, qualcosa che ti appartiene. Salva mia figlia» gli aveva detto. «A qualunque costo. Portala da me, così che io possa lasciare questo mondo avendola vista un’ultima volta».
Lui aveva stretto le dita attorno a quelle fragili della donna e aveva firmato la sua condanna a morte.
Spirava un vento rabbioso sulla brughiera, che piegava gli arbusti e scuoteva con violenza i rami degli alberi, trascinando via in un vortice le foglie morte. L’aria odorava di temporale e il cielo a ovest, dietro le montagne, era un velo scuro e greve di promesse di pioggia.
Dalla sommità della collina, il Convento dominava la valle; il destriero nero, lanciato al galoppo, imboccò il sentiero che risaliva il declivio, sollevando nugoli di polvere. Lord Bertram si schermò la bocca con la mano guantata e tossì forte, le redini strette nell’altro pugno e il lungo mantello scuro che si gonfiava alle sue spalle. Giunto al punto in cui la strada sboccava sul pianoro, diede uno strattone alle briglie; obbediente, il cavallo rallentò l’andatura sino a fermarsi e segnò il passo, agitando il capo fiero. Il Barone gli assestò una pacca a lato del collo e smontò di sella.
Bussò due volte al massiccio portone di legno.
«Chi è là?»
«Lord Bertram, Barone di Mirkwood. Cerco Messer Chapman, lui sa chi sono».
Il monaco, in realtà poco più di un novizio dal volto ricoperto di lentiggini, scosse energicamente la testa. «Non c’è nessuno qui che porti quel nome».
Il Barone sfilò il guanto della mano destra e si terse la fronte. «Aymon da Badgerwall, forse lo conoscete così».
«Sì, Sir». La porta si aprì e apparve un ragazzo di circa quindici anni, che gli fece cenno di entrare. «Fratello Aymon è in confessionale. Potete attenderlo nel chiostro».
«No, grazie. Un confessore è esattamente quello che mi serve».
L’atmosfera, all’interno della cappella, era fosca e malinconica, satura dell’odore di fumo e cera di candele: echeggiavano, sporadici, i sussurri dei novizi e le preghiere dei frati erano una nenia bassa e ritmata, come un canto scandito sottovoce. L’altare era sormontato da una pala di legno che ritraeva tre uomini, intenti a inginocchiarsi di fronte a un nimbo di luce splendente, al centro del quale un rapace con le ali spiegate dominava la scena dall’alto.
Il Barone entrò nel confessionale e si inginocchiò, recitando le parole latine per dare inizio al rito.
«Perdonatemi, Padre, perché ho peccato».
Lo sportello del tramezzo rimase chiuso. «Quali peccati hai commesso, figliolo?»
«Padre, sono un assassino. Ho ucciso un uomo».
«Quando?»
«Domani».
«Quando fui presso a la beata riva,
'Asperges me' sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva.
La bella donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi».
Dante, Purgatorio, Canto XXXI
«Helena parlava molto bene di voi».
Il monaco ebbe un fremito e appoggiò le spalle contro il muro della cella, urtando un bacile d’argento retto da un treppiede. Certo la minaccia insita nella sua confessione doveva essere stata d’effetto o forse, si disse il Barone, guardando il viso rubicondo e spaventato del pover’uomo, lui aveva davvero l’aria di un assassino. Forse era così che doveva andare.
«Vi supplico» gemette. «Voi non capite... Ho tentato di aiutarla, ma era troppo tardi!»
Bertram gli pungolò la gola con la spada. «Fu sua madre a chiedervelo?»
L’uomo scosse la testa. «N-no, Sir. La stessa Helena mi chiese di conservare il segreto anche con lei. Io ero l’unico a sapere cosa le stesse succedendo: diceva spesso che, se ne fosse venuta a conoscenza, Lady Rowena ne sarebbe morta».
«Come ho avuto modo di dirvi poco fa, potreste essere voi stesso a morire prima che il sole sorga di nuovo» obiettò Bertram. «In ogni caso» aggiunse, «a Lady Ravenclaw non resta molto da vivere. Suppongo lo sappiate».
Il monaco annuì. «L’ho sentito dire» ansimò. «Le ho inviato una missiva, proprio per questo. Volevo che sapesse che sua figlia era pentita, che l’amava». Una goccia di sudore gli scivolò lungo la tempia, rapida, andando a posarsi sulla lama sguainata, con un debole scintillio, che riportò alla mente del Barone qualcosa di sopito, come una lacrima pianta molto tempo prima che tornava a farsi sentire.
«Lady Rowena dice che voi avete qualcosa che mi appartiene».
Un altro cenno di assenso. Bertram tornò a incalzarlo con più irruenza e qualche goccia di sangue macchiò il filo d’acciaio tagliente. «Che cos’è?»
Il religioso socchiuse gli occhi e distorse le labbra in una smorfia sofferente; poi congiunse le mani al petto e trasse, dall’interno del saio nero, un rotolo di pergamena legato attorno a un’ampolla sigillata con la ceralacca. C’erano parole vergate sul foglio con mano leggera e il liquido nel contenitore emanava un bagliore lattescente.
«C’è un’ultima lettera, oltre a questa. Helena me la inviò e io la seppellii dietro sue istruzioni nel cuore della Foresta degli Antichi. Lei... Lei disse che quello era il vostro albero, che voi avreste capito».
Con dita tremanti, l’uomo ruppe il sigillo con l’aquila di bronzo e versò il contenuto della boccetta nella conca d’argento; poi gli rivolse un cenno, invitandolo a guardare.
Egli, allora, si sporse a controllare; filamenti lucidi d’un bianco spettrale si intrecciavano sul fondo. Gli parve di riconoscere una figura, un viso candido e un vuoto d’occhi scuri. L’elsa della spada gli sfuggì di mano e lui udì appena il tonfo sordo del metallo sul pavimento di tufo.
«Un giorno, qualcuno racconterà la mia storia. Diranno di me che ho sacrificato me stessa per salvare le generazioni future. Questo Diadema è maledetto: mi ha insegnato a fare cose meravigliose, ma mi ha condannata a desiderarlo per sempre. Anche ora che lo guardo con terrore, provo l’istinto di indossarlo. Se lo facessi, vedi, potrei spiegarti il senso di ogni cosa, valicare i bordi dell’infinito e portarti con me; ci sono tante e tali meraviglie, in questo universo, che nessuno immagina, che aspettano solo che io le trovi. Io lo so: il Diadema me le ha mostrate».
«Helena».
Seduta su una pietra, sul ciglio del fiume, si era voltata a guardarlo. Aveva fiori bianchi intrecciati nella chioma corvina, lo sguardo adombrato dalla seta delle ciglia scure e da una sorta di melanconia, identica a quella che traspariva dalla piega sofferta delle labbra.
«Sono venuta per dirti addio».
Inginocchiato di fronte a lei, l’aveva vista rifulgere di una luce straziante, come l’ultimo barbaglio d’una fiamma prima di spegnersi. Le mani che lui stringeva erano fredde come il marmo e tuttavia vi aveva posato le labbra, desiderando di poterlo fare ancora e sapendo che quella sarebbe stata l’ultima volta. Come sempre, la cortesia di lei era un’arma a doppio taglio; se non avesse potuto salutarla, avrebbe rimpianto in eterno quella privazione. Eppure non desiderava affatto farlo, non quando lei era così vicina e il suo profumo gli empiva le nari e la sua bocca mormorava cristalli di parole obliate. Le dita pallide di lei erano affondate tra i suoi capelli, gli avevano lambito la mandibola, gli avevano alzato il mento per far sì che lui la guardasse.
«Devi farmi una promessa».
E lui si era proteso verso il suo viso, vedendolo tingersi di un lieve rossore; c’era ancora qualcosa, in lei, della ragazzina che lo aveva amato, qualcosa da tenersi dentro per i giorni di solitudine, il fantasma di una fanciulla che tentava ancora, disperatamente, di vivere. Il loro ultimo bacio, di cui gli sarebbe stato strappato il ricordo, si era spento dietro un velo di lacrime.
«Tutto ciò che vuoi».
Lei aveva annuito. «Dimenticami».
«Questo non posso farlo».
«Lo so». Aveva una boccetta tra le mani, la stessa che avrebbe affidato al suo confessore, turata con un pezzo di sughero. La sua voce tremava. «Per questo devi bere. Bevi e tutto andrà bene».
Gli aveva sfilato la bacchetta dalle dita inerti. Non aveva neppure avuto bisogno di disarmarlo: era stata lei a donargliela, dopo averla plasmata intagliando il ramo di un albero che cresceva nel greto del ruscello e averle infuso un’anima fatta del crine di un destriero dell’ombra. Non gli era mai appartenuta veramente, se non per il tempo in cui la sua creatrice gli aveva donato se stessa.
Ogni cosa, lentamente, si sfocò attorno a lui; Helena si chinò a fargli una carezza; sembrava quasi trasparente nel blu del crepuscolo, ma gli occhi erano ancora i suoi.
«Amore mio, perdonami, se me ne vado via».
Un attimo dopo, non c’era più.
1997
Limbo. Tutti morimmo a stento
Il corridoio del sotterraneo era vuoto; dalle finestre, poste quasi al soffitto, penetrava un chiarore sbiadito, il pallido riverbero dei raggi lunari su nubi plumbee e dense, che si posava quasi distrattamente sulle pareti e sul pavimento, facendo rilucere la polvere che ivi si era deposta di un alone cinereo. Ragnatele d’un bianco spettrale si tendevano lungo gli spigoli dei muri o si gonfiavano al soffio placido della brezza autunnale, ondeggiando funeste come i resti strappati di lenzuola funebri.
La mezzanotte era passata da un pezzo e la ragazza camminava spedita; attraversò quasi correndo tutto l’androne e si fermò di fronte a un tramezzo, grigio e spoglio come tutti gli altri. Vi passò le dita, quasi esplorandolo al tatto. Poco dopo, come d’incanto, tra le pietre apparvero solchi profondi; i mattoni scattarono verso l’interno e a poco a poco svanirono, aprendo nella parete una fessura dalla quale fuoriusciva un bagliore verde.
La ragazza sospirò di sollievo. «Sei in ritardo».
Una mano femminile afferrò la sua e la strinse. «Non è semplice uscire a quest’ora. Quei due bestioni che gironzolano sempre in Sala Comune stavano per scoprirmi. Per fortuna si sono addormentati su uno dei divani vicino al caminetto».
«Buon per noi». Sorrisero entrambe e lei aggiunse: «Tiger e Goyle non sono mai stati molto svegli, in ogni caso».
L’altra annuì, illuminandosi. «Per fortuna».
«Faith?»
«Mh?»
«Vieni con me. Voglio raccontarti una storia: parla della Morte e dei suoi doni, di come sia necessario stare attenti a ciò che chiediamo, perché poi dovremo renderne conto».
Si incamminarono assieme, tenendosi strette. «Se potessi domandare qualunque cosa, vorrei solo non dovermi nascondere più».
«Attenta a esprimere questi desideri. I mastichini potrebbero sentirti».
Faith rise piano. «Racconta la tua storia, Luna Lovegood. L’ora è tarda e gli spiriti stanno per parlare».
«Dovremmo ascoltarli più spesso, sai. I fantasmi sanno un sacco di cose».
«Road goes ever on,
under cloud and under stars.
Yet feet that wandering have gone
turn at last to home afar».
John R.R. Tolkien, The Hobbit.
Mai gli era sembrato che l’andatura del suo cavallo fosse più lenta; mai alberi più fitti gli avevano sbarrato la strada. Bertram diede uno strappo alle redini e il destriero impennò, scartando di lato e indietreggiando pericolosamente in direzione del fosso. Un nitrito spaventato squarciò l’aria silente; il Barone imprecò sottovoce e calcò le suole degli stivali nelle staffe, cercando di riprendere il controllo dell’animale imbizzarrito.
A fatica, si rimise in arcione, assestando colpetti sul collo del cavallo, che sbuffava e scalpitava, senza dar cenno di voler proseguire.
«E va bene, codarda di una bestia» mormorò a mezza bocca. «Aggireremo il bosco».
Deviò lungo la strada che costeggiava la fitta schiera di tronchi; il sentiero che tagliava lungo la foresta era chiuso da tempo immemorabile e apparteneva alle storie di tempi remoti, quando creature ormai svanite dalla memoria ancora camminavano tra gli uomini. Maghi e Streghe conoscevano le leggende e quasi nessuno, nemmeno tra i più coraggiosi, osava addentrarsi lungo le rive custodite dai morti, dove, sotto le chiome di alberi ricurvi, gli spiriti vegliavano sui segreti degli antichi.
Era stata Helena a condurlo in quei luoghi.
Lo aveva preso per mano e lo aveva guidato attraverso le ombre e le luci delle querce, fino alla riva del torrente; gli aveva svelato la canzone che l’acqua mormorava senza sosta, le parole che il vento soffiava tra i rami, i segreti delle pietre del fondale e mille altre cose ancora, con gli occhi accesi di un entusiasmo insano, intenti a sognare cose mai viste.
Smontò di sella, deciso a proseguire a piedi, e si addentrò tra i cespugli; l’avvallamento era dolce e lo guidava verso il letto del fiume. Il terreno era soffice, così che i tacchi degli stivali un poco vi sprofondavano, ma non si sgretolava sotto i suoi piedi. Giunse in poco tempo sull’argine nord e si chinò in corrispondenza di un’ansa del rivo, a bagnarsi il volto, attento a non assaggiare neppure una goccia di quell’acqua che pure sembrava fresca e invitante.
Helena gli aveva raccontato la storia del fiume dell’oblio, che custodiva le memorie di chi si abbeverava alla sua fonte; l’incantesimo di memoria più efficace non sarebbe mai riuscito ad eguagliare la forza di quelle acque, che trascinavano nel proprio gorgo ricordi di epoche lontane e vicine e li sigillavano in profondità, dove nessuno li avrebbe ritrovati.
Ma forse lei non desiderava davvero che lui dimenticasse del tutto, perché aveva conservato la sua memoria e l’aveva affidata all’unica persona che potesse fargliela pervenire, al momento giusto. Forse c’era ancora una speranza.
L’albero di sambuco si ergeva nel mezzo di una secca; il tronco, diviso alla base in due fusti più sottili, era ormai arido e morto; non c’erano foglie ad adornare le sue fronde né fiori bianchi di quelli che Helena aveva amato tanto. Uno dei rami più alti era stato mozzato e portava ancora il segno della propria mutilazione.
La sua bacchetta. Non ne aveva voluta un’altra, dopo che quella era scomparsa, così come non aveva più desiderato di giacere con una donna che non fosse Helena. Sue erano le labbra che lui voleva baciare, sue le carni bramate, che gli rendevano il sonno un inferno.
Bertram si chinò e piantò il coltello nel terreno, ancora umido dalla recente piena, e sorrise quando la punta dell’arma incontrò qualcosa di metallico. Incominciò a scavare, empiendosi di fango gli stivali e i guanti, finché la buca non fu abbastanza larga da potervi infilare una mano e lui poté finalmente estrarne il contenuto: era un cofanetto in legno scuro, con intarsi di bronzo e un monogramma dorato sul coperchio. Le sue dita ne seguirono il rilievo e, infine, fecero scattare la serratura.
Sfilò i guanti imbrattati e li assicurò alla cintola; la pergamena custodita all’interno dello scrigno era ingiallita e sbiadita, ma la calligrafia era inconfondibile.
Nell’ultima lettera di Helena c’erano tre nomi e un cognome.
Bertram balzò in piedi e chiamò il falco, che rispose al suo fischio con uno stridio acuto.
«Dead men tell no lies».
Ancient English Proverb
La storia dei Maghi in questo mondo è costellata di leggende, molte delle quali così fantastiche da sembrare prive di ogni fondamento; alcune, favole oscure dal sapore antico, sono state tramandate di padre in figlio dai secoli passati sino a diventare storie di famiglia: l’uomo che incontrò il Diavolo, per esempio, lo descrisse come un cavaliere alto e scuro, con un falco sulla spalla, che penetrava oltre il manto che rendeva invisibili con i suoi occhi di brace arroventata. Non sapeva, invero, che il rapace vedeva per suo conto e che acuta è la vista dei predatori del cielo, come quella dei gatti o di certe bestie che vivono nelle tenebre. L’uomo, che avrebbe avuto vita lunga e felice, narrò che il Diavolo, dopo averlo interrogato dettagliatamente sulla provenienza del suo Mantello, gli aveva predetto una lunga discendenza; aveva anche aggiunto che, essendo la sua una schiatta particolarmente fortunata, se qualcuno dei suoi congiunti fosse stato condannato a morire per decapitazione, avrebbe comunque conservato la testa, seppure di un filo.
Né l’uno né l’altro avrebbero mai saputo che la profezia si sarebbe avverata, quasi cinquecento anni dopo; il Mago, il cui nome era Ignotus, aveva in effetti avuto due linee di discendenza, di cui una originata dall’incontro con una fanciulla normanna durante un soggiorno Oltremanica che era durato quasi cinque anni; il Mago era giunto in Francia per scortare in continente la Dama velata che gli aveva donato il Mantello ed era tornato in patria dopo l’incontro con il Cavaliere Nero, sicuro che quello l’avrebbe inseguito fino alla morte. Così non fu. Dal ramo bastardo di Ignotus Peverell - questo era in effetti il suo cognome - era discesa una lunga stirpe di Maghi e guerrieri, sbarcati in terra d’Albione durante l’invasione Normanna. Uno di questi, distintosi per le sue grandi imprese, era divenuto Duca di Mimsy, al servizio di Riccardo Cuor di Leone, e aveva raccontato a figli e nipoti la storia del Diavolo e dei suoi vaticini; il resto è storia nota.
Narra un’altra leggenda che in Illiria, la terra ora conosciuta come Albania, vi fosse una Foresta incantata in cui aveva preso dimora una Dea decaduta, che si mostrava ai mortali con il viso coperto, poiché tale era la sua bellezza che la sola vista di esso poteva uccidere; i suoi capelli erano neri come il giaietto, tempestati di fiori bianchi. Questo diceva il popolo, senza sapere che la Dama era la medesima che era apparsa anni prima a tre fratelli, in terra d’Albione, alla foce di un fiume, e aveva pagato ciascuno di essi con gli oggetti più preziosi che possedeva, una Bacchetta di sambuco, una Pietra raccolta dal greto di un torrente e un Mantello che lei stessa aveva tessuto, affinché potessero scortarla oltre il mare. I tre avevano tirato a sorte, per decidere a chi toccasse l’ingrato compito; di tutti, il più fortunato era risultato alla fine colui che, apparentemente, aveva perso. Anche questa è storia nota.
Meno lo è, invece, quella che narra che, alla morte della Dama, un grande rapace maestoso si levò da est sulla Foresta e da allora vegliò su di essa per gli anni a venire; in suo onore, gli uomini battezzarono quelle lande come Shqipëri, che significa “terra delle Aquile”.
Le fronde del salice sfioravano le acque calme del fiume, al ritmo del vento dell’est; tra i vapori della foschia, eretta e sottile come un giunco, stava la Dama velata di grigio. Teneva le mani giunte sul petto; le sue dita erano pallide e scarne come ossa sbiancate dal tempo.
Immobile a pochi passi da lei, Bertram quasi non osava respirare.
«Sapevo che mi avresti trovata, prima o poi. Come ci sei riuscito?»
Lui sorrise debolmente. «Ho visto il ricordo che mi avevi portato via. Ho trovato le tue lettere e ho rintracciato l’uomo che ti aveva accompagnata in Francia. C’era una chiesa, vicino al molo, e uno dei quadri era simile a quello che avevo visto nella Cappella del Convento di Camden: un’aquila che appariva a tre pellegrini. Allora ho capito che mi avevi lasciato una traccia e l’ho seguita».
Lei annuì: «Sei sempre stato un bravo cacciatore».
Stanco e provato, l’uomo piegò un ginocchio a terra. La Dama si avvicinò: i suoi passi nell’erba frusciavano appena, come se non vi fosse in lei che la forza dello spirito, a tenerla ancora in vita. «Stamani, ho visto il falco volare in cerchio sopra di me e ho capito che eri arrivato» disse.
«Non ha dimenticato» mormorò il Barone. «E nemmeno io».
«Era poco più di un pulcino quando lo abbiamo trovato e io ho sempre pensato che fosse un segno. Quando sono partita, sapevo che non saresti stato del tutto solo: lui sarebbe rimasto con te. Era come lasciare un pezzo della mia anima a farti compagnia». C’era tenerezza nella sua voce e un fremito trepidante nelle sue mani, mentre gli sfiorava il viso. «Forse avrei dovuto portarlo via con me, ma ha scelto lui per tutti noi. È rimasto nella foresta a vegliarti, mentre io me ne andavo».
«Helena... »
«Ho temuto e atteso questo giorno così a lungo che, ora che è giunto, vorrei avere parole migliori per accoglierti. E non le ho. Non ho niente da offrirti, se non la fine di una storia. Vieni con me; lascia che ti prenda per mano un’ultima volta».
Si lasciò condurre all’ombra del salice, aggrappato a lei come se temesse di vederla scomparire, soffiata via da una folata di vento, senza osare stringere troppo per paura di spezzarla. Dietro la cortina verde, entrambi sedettero in silenzio.
«Credo di aver sognato questo posto» sussurrò lui. «C’erano due tombe, qui, dove siamo seduti noi».
Helena tacque.
«Sono venuto per riportarti a casa».
La figura ammantata scosse la testa. «Non posso venire».
«Tua madre vuole vederti». Bertram esitò, indovinando i timori di lei nel tremito che la scuoteva. Infine si decise: «Sta morendo».
«Mi ha... mi ha perdonata?»
«Nessuno di noi aveva qualcosa da perdonarti. Dovevamo perdonare noi stessi, per non averti protetta. Tu dicesti che il Diadema era maledetto; le maledizioni possono essere spezzate. Vieni con me. Insieme troveremo un modo».
«Non capisci» disse lei e, dal tono della sua voce, lui capì che stava piangendo.
«No» ammise.
«Allora guardami».
Slacciò la spilla che teneva appuntato il drappo che le copriva il viso: gli strati di stoffa scivolarono per terra, uno alla volta, scoprendo braccia su cui la pelle era talmente tirata da sembrare trasparente, spalle ossute, la cui curva fragile sembrava essere sul punto di spezzarsi sotto un peso troppo grande da portare; il collo troppo sottile, in cui si tradiva la tensione di lei. L’ultimo velo cadde, mostrando un viso che non aveva età, bianco come il latte, la pelle che quasi traspariva nei bagliori incerti del crepuscolo: era il viso splendido e terribile di una statua, antico eppure giovane, che tradiva il male di vivere di un’anima fatiscente, imprigionata in un bozzolo di carne mortale che andava assottigliandosi, disfacendosi.
E lui tese le mani per accoglierla contro il suo petto, forse per fermare quello spogliarsi che era una confessione di sé; poi vide i suoi occhi, abissi di luce e di follia, e le mani gli ricaddero lungo i fianchi, gli tremarono le labbra, il cuore sembrò esplodergli nel petto.
«Ora comprendi?»
Incapace di proferire verbo, egli scosse la testa. Ma avrebbe voluto dire che cosa ti hanno fatto, amore mio, io ti salverò.
«Sono stata io stessa, la mia maledizione. Volevo oltrepassare i confini, essere più forte, più intelligente, prima che giungesse il mio momento. Imbrogliare il destino. Ora lo so: il Fato è un baro migliore di me e a nulla serve spodestarlo, se non a morire a stento, consumando se stessi nel tentativo di sapere sempre qualcosa in più. Quale mano accende le stelle la notte, chi spinge il Sole in alto nel cielo alle prime ore del mattino? Un tempo lo sapevo. Un tempo avevo un amore, ma l’ho gettato via, tra le risate dei fantasmi che affollano la mia mente».
Lui le sfiorò la gota esangue, le labbra senza più colore. Non c’era più carne su quel volto, solo pallore e iridi scure.
«Io sono qui» disse.
«Ma non ci sono più io. Va’ via. Dimenticami». Nascose il viso nel velo e soggiunse: «Di’ a mia madre che non tornerò».
Sei giorni e sette notti passarono, prima che giungesse la fine.
Certe volte sedevano sotto il salice senza nemmeno parlare, fianco a fianco, e guardavano l’acqua scorrere. Nel folto dell’erba tenera, le loro dita si sfioravano; la sofferenza di lei, allora, pareva alleviarsi, farsi più lontana. Tornava però, più feroce di prima, a manifestarsi nel suo sguardo, offuscandolo; gli occhi di Helena non sognavano più - non c’era più incanto nelle sue idee, solo un sapere troppo grande per una persona sola - e guardavano ogni cosa senza vederla davvero. Erano rimasti gli stessi, però, e lui li amava ancora.
«Mi hai lasciato una traccia» le disse, uno degli ultimi giorni. «Perché, se non volevi che io ti riportassi a casa?»
Helena non rispose. Aveva le palpebre serrate e le labbra schiuse e, quando sollevò il braccio per sfiorargli il volto, lui le andò incontro, tremando, perché lei era fredda come neve; soprattutto, perché riconosceva il suo tocco.
«Mi sento vera, vicino a te» bisbigliò Helena. «Voglio sentirmi così, prima di morire. Vera. Viva».
Bertram rammentò il suo sogno e un brivido violento lo scosse, penetrandogli nelle ossa. «Non parlare di queste cose. Non è ancora giunto il tempo di farlo».
«La morte si sconta vivendo. O forse è così soltanto per me; ogni giorno mi usura, senza mai farlo del tutto. Vorrei sciogliere i lacci che mi tengono legata a quest’esistenza fittizia». Helena lo guardò, spalancando i suoi terribili occhi, e, nel suo sguardo, lui lesse la verità.
«Vuoi questo da me» disse, dando voce alle parole che lei aveva taciuto. «Vuoi che io ti liberi».
«There is something
about Death
like Love itself».
Edgar Lee Masters, Spoon River Anthology
«Il dono dell’immortalità è quello cui ho rinunciato più volentieri. L’ho dato ad un uomo che non saprà che farsene, perché così accade sempre. Simili prodigi hanno un prezzo che i mortali non dovrebbero mai pagare».
Bertram sospirò, appoggiandosi al tronco dell’albero. «Allora perché glielo hai concesso?»
«Lui credeva di desiderarlo. Chissà» aggiunse Helena, «chissà se ha già scoperto di essersi sbagliato. Forse ha imparato più in fretta di me».
Entrambi tacquero; Bertram non osava guardarla, vinto dal timore di ciò che avrebbe scorto sul suo viso. Più ancora, rifuggiva il proprio riflesso negli occhi di lei, un uomo alto e fosco, dall’aria risoluta, che appariva capace di qualunque cosa.
«Desideravi essere immortale?» le chiese.
«Mi attraeva l’idea di sfidare l’inesorabile corso delle stagioni. È sciocco a pensarci: non c’è nessuno che viva di meno di chi sa di non poter morire. Allora, però, non lo sapevo, perché per quanto si possa cercare di imbrogliare il tempo, è sempre lui a insegnarci le lezioni più importanti. Così ho raccolto un sasso dal fiume della vecchia foresta e gli ho estorto i segreti degli Antichi, dei giorni in cui il mondo era giovane e gli Dei camminavano sulla terra; è stato facile. Ere sono trascorse, da allora, ma la memoria dell’acqua è lunga e custodisce i ricordi di coloro che se ne sono abbeverati. Lo sai».
Lui annuì: non c’era altro che potesse fare o dire, a parte raccogliere le sue parole. Erano le ultime; entrambi lo sapevano.
«Fu il Diadema a farmi conoscere queste cose: era come se fossero sempre state lì, nella mia testa. Mi bastava allungare la mano e afferrarle; credevo che così sarei stata felice, sai, ma fa male. Non ci si può comprare una scala per il Paradiso. Bisogna guadagnarsela». La sua voce mutò in un rantolo ed ella si piegò in avanti, come se dovesse tossire; i lunghi capelli scuri le coprirono il volto, scivolando giù dalle spalle scarne. Bertram vi posò una mano e fu come toccare aria, tanto la sofferenza l’aveva logorata, poi lei affondò il viso contro il suo collo e riprese il suo racconto.
«Avevo quindici anni, la prima volta che lo usai. Sembra passata un’eternità, da allora. Mia madre lo aveva riposto nella sua teca e io mi ci specchiai, mentre la aprivo. Fu così che mi scoprì: il cristallo dell’urna era incantato e conservava le immagini di chi l’aveva toccata per ultimo».
«Lo so» mormorò lui in risposta. Ricordava bene il volto di lei impresso nella trasparenza adamantina della lastra, l’ombra scura di cupidigia nei suoi occhi.
«Così decisi di tessere un mantello che mi permettesse di non essere vista, né da occhio umano né per mezzo di incantesimi. Adoperai la seta tessuta dai bachi che crescevano sui gelsi della foresta. Quello, però, l’ho donato ad un altro. Lo sai» sentenziò, con un'ombra di dolcezza a intenerire le sue parole, «credo sia stato un dono ben fatto».
«Lo credo anch’io».
Rimasero in silenzio per un po’, stretti l’una all’altro; lei, come fumo tra le braccia, impossibile da toccare davvero, respirava a fatica, intossicava l’aria con la sua sofferenza. Eppure lui l’amava anche così.
«La bacchetta... » sussurrò. «Perché l’hai portata via?»
«Forse volevo proteggerti. C’è qualcosa, in essa, di strano, come nell’albero di sambuco da cui ho tagliato il ramo; tutto ciò che viene da quella foresta è incredibilmente potente. Un po’ mi faceva paura. Anche se» bisbigliò, carezzandogli una guancia, «in realtà volevo che dimenticassi. Speravo che non avere più nulla di me ti aiutasse a farlo, ma il falco è rimasto ed è stato tutto inutile. Ti ha impedito di dimenticare».
«Non è stato così. Mi ha impedito di perdermi del tutto. Dimenticare per me era impossibile».
«Lo so. Nemmeno portarti via i ricordi è servito».
Bertram si chinò a baciarla sulla fronte; la sua pelle era fredda e umida, impalpabile come la nebbia della sera. Sembrava sfuggirgli dalle dita, anche mentre lei gli passava le braccia intorno al collo e lo stringeva, sfiorandogli le labbra con le sue.
«Aiutami, ti prego. Non lasciare che mi consumi fino in fondo. Voglio che ci sia ancora qualcosa di me, quando chiuderò gli occhi per sempre».
1998
Una scala per il Paradiso
«... As we wind on down the road
Our shadows taller than our soul.
There walks a Lady we all know
who shines white light and wants to show
how everything still turns to gold».
Led Zeppelin, Stairway to Heaven.
La notte in cui il Diadema di Ravenclaw fu distrutto e scomparve in un gorgo di fiamme, le catene del Barone si dissolsero e il sangue sul suo manto sembrò sbiadire; mentre questo accadeva, due ragazze sulle scale scoppiavano a piangere e un grido si levava, disumano e acuto, dal cortile di Hogwarts. C’era odore di bruciato, nell’aria, e di sangue e di lacrime piante su corpi ancora caldi; l’atrio era vuoto, a parte le due figure abbracciate, che singhiozzavano piano.
I due fantasmi, uno in fondo e l’altra in cima alla rampa, quasi non le videro. Rapiti, si fissavano a vicenda. La Dama Grigia sollevò una mano e la tese, il Barone si sentì toccare qualcosa di molto vicino al cuore. Ci si poteva ancora sfiorare, da morti? O la sua condanna era poterla soltanto guardare, vederla svanire come foschia ai bagliori dell’aurora?
Entrambi si volsero a guardare la cima della scalinata che svaniva nel buio, ma il ragazzo pallido ancora non si vedeva.
Lo aveva incontrato all’imbocco dei sotterranei; era alto quasi quanto lui e bianco in viso, ma aveva occhi fieri che brillavano nel buio. Aveva impiegato un po’ a riconoscerlo; lui, invece, aveva l’aria di sapere benissimo con chi stava parlando. E gli aveva chiesto del Diadema di Ravenclaw.
«Questa è davvero una domanda strana» aveva commentato il Barone. Le parole, da tempo chiuse in gola, gli erano uscite come uno sbuffo di polvere.
Il ragazzo aveva fatto un cenno di assenso, ma non aveva desistito. «Faith Valentine dice che i fantasmi sanno un sacco di cose. Gliel’ha detto Lunatica Lovegood e, Dio solo sa perché, lei ci crede». Si era passato una mano nei capelli in disordine, nervoso. «Ho bisogno di sapere com’è fatto. Devo distruggerlo».
«Avrei dovuto farlo io, molto tempo fa. Vieni» gli aveva detto il Barone, «devi parlare con lei. La Dama Grigia. Io non ricordo più che voce ha» aveva mormorato sovrappensiero. «Ascoltala anche per me».
Lui non aveva più potuto, da quando Lady Rowena era spirata con un sorriso sulle labbra, guardando il volto luminoso della figlia già morta; l’hai salvata, gli aveva detto, grazie, e lui non aveva mai saputo se la donna avesse compreso davvero.
Non aveva più parlato con Helena, da allora; l’aveva osservata, consapevole che, per quanto fossero vicini, la distanza tra loro sarebbe sempre stata troppa; aveva contemplato gli anni scorrere via, portandosi dietro le persone che aveva amato; Salazar Slytherin aveva abbandonato la sua aula e si era portato via i suoi segreti, lasciandosi dietro il guscio vuoto di un uovo e una covata di girini di rospo. Qualcuno aveva ripulito tutto, senza dare importanza a quelle poche cose; se glielo avessero chiesto, lui avrebbe forse saputo rispondere a proposito del significato di quell’oscuro lascito; se lo avessero fatto, le cose sarebbero probabilmente andate in modo del tutto diverso.
Il monaco che gli aveva fornito la chiave per trovare Helena era morto; il suo spirito vagava per i corridoi di Hogwarts, vegliando paternamente sugli studenti di Hufflepuff. La sua salma, seppellita nel cimitero del convento, sarebbe stata ritrovata misteriosamente intatta molti anni dopo e ci sarebbe stato chi lo avrebbe acclamato come Santo, senza sapere che un tempo era stato un Mago.
Il mondo era cambiato sotto gli occhi spenti del Barone e lui era rimasto indietro, a coltivare un rancore che aveva l’odore rancido del sangue rappreso sulle sue vesti. La sua condanna era una catena di ricordi, solitudine, soprattutto di parole d’amore che non aveva mai detto del tutto; con esse era legato alla sua silenziosa Dama, ne sentiva il dolore e ne percepiva le ansie e i desideri. L’aveva veduta cercarlo nelle fattezze di un giovane alto e pallido, dai folti capelli scuri. Uno della casa di Slytherin, come lui stesso era stato da studente, che sarebbe divenuto famoso come il Mago Oscuro più potente di tutti i tempi.
«È finita. Lord Voldemort è morto».
Sulla soglia c’era una fanciulla bruna, sporca di sangue e fango. Camminò lenta fino a raggiungere le compagne e sedette con loro, affondando il viso nelle mani a coppa.
«È finita» ripeté, piano, lasciandosi abbracciare.
Il Barone voltò loro le spalle e lasciò che il suo sguardo vagasse oltre la porta. Fu la Dama Grigia ad avvicinarsi in silenzio e ad affiancarlo. Sorrideva, notò lui, e quella visione lo turbò: sembrava così viva e vera da far sentire allo stesso modo anche lui.
«Mia madre» disse Helena, perché era Helena, di nuovo, dopo tanti secoli. «Mia madre sapeva. Tu mi hai salvata, riportandomi qui. Ho potuto espiare le mie colpe: il diadema è andato distrutto, il nemico sconfitto. Io ho aiutato a fare in modo che questo avvenisse; il cerchio si è chiuso».
«Io ti ho uccisa» obiettò lui, meravigliandosi di quanto fosse più semplice ammetterlo, adesso.
«Eppure mi sento viva. Forse è venuto il momento di andare: forse la morte è un altro viaggio, una nuova grande avventura per una mente ben organizzata. Ci sono arcobaleni, là fuori, fatti di colori che non conosco e fiori che non ho ancora colto. Voglio vedere tutto questo».
«Vuoi andartene?»
«Sì. Ora voglio morire davvero». Gli prese la mano - e la sua stretta era quella della ragazzina che era stata un tempo - e se la portò al volto. Se avesse potuto, sarebbe forse arrossita. «E vorrei che tu venissi con me».
Fluttuava eterea come nei suoi sogni da vivo; d’un tratto, egli comprese che anche lei aveva avuto delle catene, sebbene nessuno le avesse mai viste, che avevano gravato sul suo cuore; si erano legati reciprocamente, da quando lei gli aveva chiesto di darle la morte e lui si era macchiato del suo sangue, guardandola spegnersi tra le sue braccia con il suo coltello piantato nel petto. Il falco aveva spiccato il volo con un grido, mentre lui, chino sulla donna che amava più della sua stessa vita, si aggrappava alla cadenza del suo ultimo respiro, cercava di cogliervi le sue parole, senza riuscirci. Non aveva potuto sopravviverle allora e non avrebbe neppure tentato adesso. Helena era libera e lui con lei, come sin dall’inizio avrebbe dovuto essere. Chinò il capo, cavallerescamente. «Conosci già la mia risposta».
La Dama sorrise. «Il ragazzo che mi hai mandato prima, quello che ho aiutato a trovare il Diadema... Pensi che stia bene?»
Il Barone scoccò un’occhiata in cima alle scale. «I figli di Salazar hanno la pelle dura» disse, prima di svanire.
Tutti quelli che li videro andare via raccontarono del miracolo di Hogwarts, della luce che danzava al centro del Salone, salendo a spirale verso il soffitto. C’era qualcosa di struggente in quel bagliore, che spinse molti ad alzare la testa e a seguirne le involuzioni fino a vederlo ergersi su, su in alto, ai confini del cielo notturno, a sorridere tra le lacrime, stringendosi gli uni vicini agli altri tra le macerie. Minuscoli petali bianchi scesero come pioggia dal cielo, posandosi sui loro capelli, e le ragazze li raccolsero a piene mani.
La Guerra era finita.
In una stanza dimenticata del castello, il ritratto di Lady Rowena e quello di Salazar Slytherin si guardarono, scambiandosi un cenno di intesa. Fuori dalla finestra, intanto, la luce era sempre più lontana.
Qualcuno disse di aver veduto un falco, luminoso e argenteo come un Patronus, seguito da un destriero lanciato al galoppo; in groppa, portava un cavaliere nero e una bella dama dalla chioma scura, che danzava nel vento. Il cavallo impennò una volta, frustando l’aria con la lunga coda, e scomparve oltre le stelle.
Fuori dal blu e dentro il nero.
And she’s buying
a stairway to Heaven.
Fine
«Ciò che allora
chiamammo dolore
è soltanto
un discorso
sospeso».
Fabrizio De Andrè, La Ballata degli Impiccati
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