Okay,
probabilmente non sarò presente per un po’ di
giorni a causa del trasloco
imminente, ormai, quindi ho voluto pubblicare questa ultima fanfiction
come
“dono” per voi, sperando che nessuno si dimentichi
di me *piange* So che questa
trama è un trita e ritrita di solite cose, ma il fluff mi ha
colpito come un
boccino in testa e allora non ho potuto fare a meno di sorridere,
imprecare e
incominciare a scrivere.
Grazie a tutti
quelli che lasceranno un commento: vi amo perché siete la
mia famiglia.
Let
you rest your
head on me if that's what you need
Some
nights, I
stay up cashing in my bad luck
Some
nights, I
call it a draw
Some
nights, I
wish that my lips could build a castle
Some
nights, I
wish they'd just fall off
But I
still
wake up, I still see your ghost
Oh Lord,
I'm
still not sure what I stand for oh
What do I
stand
for? What do I stand for?
Most
nights, I
don't know anymore...
Fun
Correvano.
Stavano correndo da un tempo interminabile e John cominciava a sentire
quello
strano intorpidimento che posticipava la corsa avventata in giro per
Londra.
Riusciva a vedere sfocatamente la figura di Sherlock, metri
più avanti,
continuare il suo itinerario, senza preoccuparsi del fatto che John, a
causa
della sua modesta altezza, rimanesse irrimediabilmente indietro.
Provò ad
articolare il nome di Sherlock, ma gli riuscì solo un
rantolo basso mentre il
sentiva il cuore esplodergli rumorosamente nelle orecchie. Continuava a
tenere
gli occhi fissi sul retro del cappotto scuro del suo compagno, non
riuscendo a
guardare altro se non lui, così irraggiungibile nonostante
tutti gli sforzi. Il
rumore di uno sparo lo fece sobbalzare, facendogli spezzare il fiato
aritmico e
facendolo inciampare nei suoi stessi piedi. John sbattè
forte la testa contro
al marciapiede, i battiti del cuore che cedevano il posto al fischio
sinistro
della botta. Sherlock, Sherlock, Sherlock, riusciva solo a pensare,
raccogliendo
le poche forze rimaste e rimettendosi in piedi, pronto a correre da
Sherlock, a
guarirlo con tutte le sue forze, perché Sherlock era tutto,
Sherlock non poteva
farsi del male, no, no, no. Grattò i palmi contro il cemento
duro e freddo,
percependo tutt’intorno a lui un silenzio che non gli piaceva
per niente.
Quella strada, tutt’un tratto, sembrava aver perso di ogni
contorno e
importanza, lasciando solo una sfumatura di nero indefinita davanti
agli occhi
John, occhi che scrutavano l’ombra della notte alla ricerca
della sua persona.
“Sherlock?”
Provò a urlare, facendo perno sulle ginocchia e riuscendo,
finalmente, a
rimettersi in piedi senza crollare. Fece alcuni passi avanti, come se
una forza
gravitazionale lo stesse trasportando da Sherlock, e lo
trovò disteso a terra,
gli occhi chiari fissi contro il cielo e sangue, sangue, troppo sangue
per un
solo colpo di pistola.
“Sherlock,
Sherlock che cosa…” Gli prese la testa e gliela
appoggiò sulla sua gamba,
cercando di ricacciare indietro le lacrime che gli offuscavano
maggiormente la
vista. Provò a trovare e tamponare la ferita, ma sembrava
sanguinare da
qualunque parte del corpo e le sue mani si imbrattavano sempre di
più di quel
liquido rossastro.
“Chi
è stato? Sherlock, parlami, non…chiudere gli
occhi!” John strattonò il cappotto
di Sherlock per sincerarsi delle reali condizioni dell’altro.
Un piccolo
sorriso andò a infrangere la pallida maschera che aveva
indossato Sherlock per
quella tetra occasione, fermando la corsa impazzita delle mani di John
sul
proprio petto.
“Non
fa niente.” Mormorò, piano. John non
riuscì più a trattenere le lacrime che,
impertinenti, ruppero i saldi cardini della propria anima da soldato.
Come
poteva lasciarsi morire? Come poteva farlo di nuovo?
“No,
no, io posso salvarti, questa volta posso farlo, non devi preoccuparti,
Sherlock, io…” John gli passò una mano
tra i capelli aggrovigliati, sforzandosi
di trovare una soluzione qualunque per ciò che stava
accadendo. No, non di
nuovo, Dio, ti prego, non di nuovo. Alzò lo sguardo per
intercettare qualche
passante a cui potesse chiedere aiuto, ma
l’oscurità li avvolgeva come una
seconda pelle, rendendo impossibile la vista. Ritornò a
prestare attenzione al
corpo di Sherlock, notando solo in quell’istante il buco
grande quanto un pugno
che gli aveva centrato il cuore. Un singhiozzo lo scosse, la mano, che
prima
era stata dedicata alle coccole, ora cercava di strappare un pezzo di
stoffa
dalla sua camicia, senza riuscirci.
“Sherlock,
non puoi lasciarmi! L’hai già fatto una volta,
ricordi? Non ancora, ti prego,
Sherlock…non ora che sei ritornato da me.” John
tirò su col naso, stringendolo
un po’ di più a sé. Era egoista, lo
ammetteva, non riusciva a pensare che
proprio ora che l’aveva perdonato, glielo portassero
nuovamente via. Il suo Sherlock,
il suo amore.
“Non
lasciarmi da solo…”
“Starai
bene, John. E’ tutto okay, sei stato senza di me per tutto
questo tempo, puoi
farlo di nuovo. Hai…hai Mary, ora.” Mary? Chi era
Mary? John aggrottò le
sopracciglia, confuso, continuando a spostare lo sguardo da Sherlock
alla
strada, disperato.
“Che
cosa stai dicendo? Non c’è nessuna Mary, Sherlock,
ci sei sempre stato solo tu!
Promettimi che non morirai, promettimelo.” Mise la mano sulla
ferita, pressando
in modo tale da fermare il sangue, senza riuscirci –per
favore, Dio, per
favore, non a me, non ancora.
“Starai
bene, l’hai detto anche tu, dopo che ci siamo rincontrati. Mi
hai lasciato da
solo per altri due mesi. Ti costruirai una famiglia e ti dimenticherai
di me,
parole tue.” John abbassò la testa, sconfitto. Non
era quello che voleva, non
lo aveva mai voluto. Aveva parlato in preda alla rabbia, in quei
giorni, non
era sua intenzione vederlo morire fra le sue braccia una seconda volta.
Gli
voleva bene, Cristo, gli voleva un bene dell’anima,
nonostante fosse un odioso
geniaccio per tutto il tempo. John gli strinse un braccio e
accostò la propria
fronte con quella di Sherlock, facendo cadere alcune lacrime sulle
palpebre
socchiuse dell’altro.
“No,
sei un idiota, non capisci. Voglio stare con te. Sì,
sì, voglio stare solo con
te, Sherlock!” Sherlock continuava a scuotere la testa,
sempre con l’ombra di
un sorriso triste sul volto.
“Mi
hai lasciato andare.” John non riusciva più a
controllarsi, essendo consapevole
che quella stretta era troppo oppressiva per Sherlock, già
in fin di vita, e
che il piangergli addosso come un bambino non gli sarebbe servito a
farlo
restare con lui.
“No,
non ti lascio andare. Prova ad alzarti, posiamo chiamare soccorso,
vieni.” Lo
afferrò per le spalle, tirando in un ultimo, disperato
tentativo, ma il peso
del corpo di Sherlock sembrava insostenibile, tanto che non
riuscì a muoverlo
di un millimetro.
“Forza,
Sherlock! Alzati!”
“E’
arrivato il momento, John, non c’è più
niente che tu possa fare.”
“No…”
Provò a dire John, sentendo la sua anima sgretolarsi insieme
a Sherlock.
“Fa
male, ma è così. Non restare qui con me
se…se non vuoi farlo.”
“Sì
che voglio, Sherlock, cosa dici?”
“Mi
amerai per il resto della mia vita, John? Dimmelo ora, dimmi che mi hai
perdonato.”
“Ti
ho perdonato, ti perdono per tutto ciò che hai fatto, ti
perdono per avermi
lasciato solo e ti perdono per esserti finto forte ma…ma non
posso perdonarti
anche questo, non posso perdonarti di morire per davvero. Io voglio
amarti per
tutto il resto della mia vita, Sherlock, per favore.” Sherlock
chiuse definitivamente gli occhi, lasciando la frase di John senza una
risposta. Mugolò, disperato, scuotendo il corpo senza vita e
tenendolo fra le
braccia, come un bambino. “
Ti
amo, ti amo, ti amo, ma non lasciarmi…”
Mormorò, prima di strizzare gli occhi e
lasciarsi perdere nell’oblio.
John sgranò
gli occhi, ritornando nel
mondo reale. Sì passò una mano sul petto,
cercando di fermare il battito
impetuoso del suo cuore e darsi un tono civile. Ricordava quando si
svegliava
in quel modo, dopo il congedo della guerra e dopo il congedo da
assistente
dell’unico consulente investigativo, e odiava mostrarsi
così debole alle mura
silenziose della sua stanza. Riconnetté il cervello e
lanciò uno sguardo alla
sveglia, notando l’orario indecente, ancora completamente
notte. Era andato a
letto presto dopo una furiosa litigata con Sherlock, proprio il giorno
in cui
John aveva deciso di ritornare a convivere con lui, donandogli
un’altra chance.
Non c’era
proprio riuscito, John, a
restare con la bocca chiusa di fronte agli accaduti precedenti
–mi hai lasciato
mesi da solo e non hai neanche il coraggio di spendere una buona parola
per
rassicurarmi, come dovrei sentirmi a riguardo? E lui non aveva
risposto, come
sempre–, quindi aveva ben deciso di salire le scale e
chiudersi nella sua
stanza, ancora piena di scatoloni appena riportati.
Protetto dal buio, si
chiese se fosse
stato giusto puntargli il dito contro per l’ennesima volta,
nonostante avesse
accettato di ritornare ad essere il suo coinquilino. Beh, lui non era
stato di
certo comprensivo quando aveva pensato di buttarsi dal tetto di un
ospedale
fingendosi morto per sette, dannati mesi, quindi non doveva sentirsi in
colpa
di niente. Ma. Ma c’era qualcosa che gli
rodeva nello stomaco, in quel
momento. Qualcosa che lo fece alzare dal letto, poggiando le piante dei
piedi
sul pavimento gelato, e scendere le scale, accostandosi alla porta
chiusa della
camera di Sherlock. Abbassò lentamente la maniglia,
sentendosi sempre più
idiota per quella pazzia che stava commettendo. E se Sherlock fosse
stato
sveglio? Che scusa avrebbe potuto inventare per giustificare la sua
presenza in
camera sua? Avrebbero rincominciato a litigare? La verità,
nuda e cruda, era
che, semplicemente, John era stanco. Stanco di litigare con Sherlock
ogni
qualvolta lo incrociava sul suo cammino, da dopo la caduta, stanco di
guardarlo
negli occhi e non sapergli dire cosa diavolo provasse realmente nei
suoi
confronti. Stanco. Spinse piano la porta con due dita, cercando di
scorgere la
figura di Sherlock da qualche parte nella stanza e trovandola
rannicchiata nel
letto, con la testa girata verso la porta, verso di lui.
John
trattenne il respiro, cercando di non
provocare nessun rumore e complimentandosi con se stesso per
l’ottimo
risultato. John, guardandolo così indifeso, con la fievole
luce che proveniva
dalla finestra a illuminarlo, pensò che il loro rapporto
poteva paragonarsi a
un elastico. Erano stati legati ancora prima di conoscersi, ancora
prima che
John fosse stato sparato e Sherlock avesse bisogno di un coinquilino
con cui
condividere l’affitto, legati da un elastico che li aveva
allontanati e
allontanati solo per, alla fine, farli scontrare e intrecciare. Era
successo
quello strano processo anche dopo la finta morte di Sherlock. John
aveva fatto
finta che quell’elastico non fosse mai esistito, aveva
cercato di allontanarsi
dal polo opposto con tutte le sue forze, ma niente poteva dividere
ciò che era
legato in quel modo. Aveva sperato, in quei mesi di solitudine, che
quell’elastico, quel legame, si spezzasse, finalmente, teso
fino allo stremo,
ma era successo tutto il contrario: con un rumore violentissimo aveva
fatto
ritornare Sherlock tra le sue braccia e John si era sentito arrabbiato,
deluso,
ferito, tradito e abbandonato. Poi la rabbia era sparita, lentamente e
progressivamente, e ciò che aveva lasciato in John non era
altro che un grande
deserto fatto di affetto e felicità, perché
Sherlock era vivo, vivo, e lui non
poteva semplicemente lasciarlo, non ne era in grado.
Anche nella solitudine
e nella furia più
nera, John aveva sempre avuto un posto nel cuore riservato solo ed
esclusivamente per Sherlock. Una parte che, per un certo periodo di
tempo, era
stata vuota del suo protagonista e John aveva dovuto riempirla solo di
fiori,
commemorazione e sentimenti repressi. Una parte che non era mai stata
scalfita
dalle malelingue della gente, ma che era rimasta fedele al suo padrone,
quello
vero. C’era ancora in lui quella nota stonata che lo
riportava al tradimento
subìto riguardante la sua morte, ma la rabbia era solo una
parte della medaglia
che piano piano si smaterializzava e cedeva il posto al sollievo.
Sollievo nel
poterlo rivedere e toccare e sentirlo respirare e sparare contro il
muro del
loro appartamento, come era sempre stato in passato e come aveva
immaginato il
suo intero futuro.
Sospirò
piano, continuando a fissare
Sherlock che pareva addormentato –cosa quanto mai rara,
quindi ancora più
speciale.
“John, il
tuo modo di fissarmi è noioso e
ambiguo. Puoi entrare nella stanza, non mordo.” Come non
detto.
“Stavo
andando a letto, sono solo passato
per andare in bagno.” Borbottò John, incrociando
le dita che credesse a quella
bugia paradossale.
“Oh, quindi
hai passato mezz’ora davanti
alla mia porta perché avevi bisogno del bagno?”
John avrebbe voluto soffocarlo
con il cuscino, chiudergli la porta in faccia e lasciarlo a marcire
lì dentro
per sempre e al diavolo che fossero appena ritornati insieme
–come coinquilini,
ovviamente. John digrignò i denti, irritato, incrociando le
braccia al petto.
Fece per andarsene quando una nuova ondata di rancore lo sopraffece,
facendolo
ritornare al punto di partenza.
“Comunque,
potresti anche avere un po’ di
tatto in più visto ciò che mi hai fatto passare,
Sherlock!”
“Ciò
che avevo da dirti l’ho già detto,
John. Non aspettarti preghiere inutili, lo sai come sono
fatto.” Sherlock si
girò dalla parte opposta, nascondendo il viso e lasciando
agli occhi di John
solamente la schiena piegata, dovuta alla posizione fetale. John
sentì le mani
pizzicare e una gran voglia di accendere la luce e incominciare a
picchiarlo
assediò il suo cervello. Strinse il legno della porta,
cercando di
controllarsi.
“Il fatto
che tu sia così non giustifica
tutte le tue azioni, Sherlock. Non giustifica proprio un bel niente, in
realtà.” Sherlock emise un grugnito indistinto,
non premurandosi nemmeno di
parlargli faccia a faccia o quantomeno di avere la decenza di
rispondergli a
parole. La pazienza di John stava già per distruggersi in
milioni di frammenti,
se lo sentiva.
“Potresti
girarti? Sto parlando con te,
se non te ne sei accorto!”
“Non ho
voglia di litigare di nuovo.” John
lasciò perdere la presa sul legno della porta per emettere
un sospiro
sconfitto. Semplicemente si stava arrendendo, arrendendo al fatto che
era
Sherlock e che, pur essendo ancora incavolato a morte con lui,
c’era quella
voglia immensa di abbracciarlo e stringerlo che l’aveva
ottenebrato fin dal
primo momento in cui l’aveva rivisto. C’era quella
voglia di abbassare le armi,
di mettere da parte tutte quelle parole mai dette, trattenute e usate
per
ferire, e di usare solo gli sguardi e i fatti, quelli che valevano per
mille
parole. John aveva provato a gestire il problema Sherlock, in quei
mesi, come
se fosse una specie di bomba a orologeria, pronta a esplodergli in
faccia se
l’avesse fatta riavvicinare troppo a lui; poi
l’aveva rivisto davanti al suo
monolocale, sotto la pioggia, e ancora davanti al suo ambulatorio, alla
fermata
della metro, davanti al supermercato e ovunque si trovasse. I primi
tempi
l’aveva trovato irritante, una presa di egoismo che, davvero,
non poteva
permettersi di fare, alla fine l’aveva, invece, catalogato
come affettuoso, un
gesto che da Sherlock poteva significare solo interessamento
–forse, non ne era
ancora molto sicuro.
Fece qualche passo
dentro la stanza buia,
sperando di non andare a sbattere contro nulla che potesse procurargli
dolore
o, eventualmente, una di quelle epiche figure da idiota che lo
contraddistinguevano agli occhi di Sherlock. Tenne gli occhi fissi
sull’angolo
del materasso, non volendo incontrare lo sguardo, sicuramente
interrogativo, di
Sherlock.
“Non voglio
litigare neanche io, vorrei
solo che…la smettessi di far finta che tutto questo non
riguardi te.” Disse,
sedendosi sul bordo del letto, pronto ad affrontare il viso di
Sherlock, ancora
nascosto nel buio rassicurante della notte. “Lo so benissimo
cos’ho fatto come
so benissimo le mie motivazioni a riguardo.” Mantieni la
calma, John, mantieni
la calma, si disse, cercando di modulare il tono di voce per creare una
conversazione pacifica.
“E hai
pensato a come, magari, avessi
potuto sentirmi io, a riguardo?” Proruppe, fallendo nel
tentativo di non
risultare acido e scontroso. Aspettò la risposta di
Sherlock, giocherellando di
tanto in tanto con un lembo di coperta che Sherlock si era tirato fino
alle
spalle, nascondendolo completamente alla sua vista.
“Sherlock?”
“Ti ho detto
che non ho voglia di
litigare.” John gemette, esasperato.
“Non stiamo
litigando, Sherlock. Girati e
parliamo come due persone adulte.” Sherlock, come risposta,
si rannicchiò
ancora di più, grugnendo. John aveva imparato ad essere
calmo, in quei mesi di
convivenza con Sherlock, e ancora di più quando Sherlock non
c’era stato e
aveva dovuto fare i conti con l’irritazione di ogni singola
cosa o persona si
trovasse davanti a lui. Ora, quindi, Sherlock non si poteva certo
permettere di
fare il bambino, voltandogli letteralmente le spalle e arginando la
questione,
decidendo ancora lui cosa poter fare o non fare. Quel permesso, ora,
John non
glielo concedeva più.
“Stammi a
sentire, Sherlock, o ti giri e
discutiamo tranquillamente o posso riprendere tutte le mie cose e
tornarmene
nel mio monolocale. Sai che lo farò.” John
sentì una morsa di vittoria
afferrargli lo stomaco quando, con uno sbuffo, Sherlock si mise a
sedere sul
letto, dandogli la possibilità di vedere i suoi occhi chiari
che risplendevano
nel buio.
“Io
comprendo le tue motivazioni, so che
l’hai fatto per proteggere le persone a cui vuoi
bene…” Incominciò John, non
arrestandosi alla smorfia di sufficienza che si era impressa sul volto
di
Sherlock dopo le ultime parole. “…però
tu potresti anche capire me. Ho passato
mesi interi aspettando che un miracolo accadesse e ti facesse ritornare
in vita
mentre tu giravi in chissà quale città alla
ricerca di chissà quali criminali.
Non è stato facile, per niente, e non lo è
neanche ora, nonostante sia
ritornato ad abitare qui.” Sherlock rimase in silenzio, non
distogliendo un
momento gli occhi dal dottore. John sapeva che Sherlock lo stava
ascoltando
attentamente anche se la sua espressione continuava a rimanere
imperturbabile.
Sapeva che Sherlock non era così alieno ai sentimenti come
voleva tanto
credere, come sapeva bene che li provava tutti, quei sentimenti, in
modo
nascosto, magari reprimendoli e odiandoli, ma erano pur sempre
lì e John poteva
percepirli. Non poteva arrabbiarsi con lui per quel motivo,
perché c’era quella
parte nascosta di lui che era lì e gli urlava
silenziosamente, rendendolo sordo
e abbassando le sue difese.
“Quindi ora
ti chiedo: perché sei
ritornato da me dopo tutto questo tempo?” Sherlock distolse
lo sguardo, la
bocca costantemente serrata che rendeva il suo volto più
severo del solito.
John non aveva alcuna intenzione di dargliela vinta, al diavolo
l’ora tarda e
il fatto che il giorno dopo avrebbe dovuto fare il doppio turno a causa
dell’assenza di Sarah dall’ambulatorio. Al diavolo
tutto, Sherlock era lì con
lui e John voleva qualcosa di concreto a cui aggrapparsi per non
cadere.
“Perché
sei ritornato da me dopo tutto
questo tempo?” Riprovò, restando immobile a
fissarlo, in una muta supplica.
“Era ovvio
che sarei ritornato a casa,
John. Il piano che avevo programmato non era a tempo indeterminato, era
solo un
fattore temporale e poi avrei ripreso possesso della mia
vita.” Stava
svicolando, John lo aveva capito benissimo. Il modo in cui stringeva il
lenzuolo nel pugno, lo sguardo che si perdeva fuori dalla finestra
senza mai
incontrare la sua figura, erano tutti chiari segni del fatto che fosse
nervoso
–per la prima volta in difficoltà.
“Sì,
ma perché sei ritornato da me?
Potevi semplicemente ritornare dalla signora Hudson e continuare a
risolvere
casi con Lestrade.”
“Eri il mio
coinquilino, mi
sembrava…doveroso, da parte mia, metterti al corrente dei
fatti.” John non
riuscì a reprimere un mezzo sorriso a quella vista. Umano.
“E
così hai deciso di seguirmi tutti i
giorni fino a darti retta? Non mi sembra solo un gesto tra coinquilini,
Sherlock.” Sherlock ritornò a guardarlo fisso
negli occhi, ritornando uno
scalino più in alto di tutti.
“Non ho idea
di cosa tu voglia sentirti
dire, John, e qualunque cosa sia, non credo faccia per me.”
“Io sono
sicuro che tu sappia dove io
voglia arrivare.” Disse John, maledicendosi per la piega
severa che aveva preso
la sua voce. Si morse l’interno guancia, avvicinando,
esitante, la propria mano
a quella di Sherlock, poggiata sul suo ginocchio. Sherlock
sgranò gli occhi,
ritraendo istintivamente la mano, facendola cadere mollemente sul
lenzuolo,
vicino a lui.
John
riscoprì una nuova parte di lui che
non aveva mai visto nei mesi precedenti alla caduta; non aveva mai
avuto l’istinto
di toccarlo, prima, o meglio, l’aveva avuto ma era stato
così solido nelle
proprie convinzioni sessuali da reprimere ogni impulso e rinchiuderlo a
chiave
in uno sgabuzzino, per non farlo uscire mai più. Non gli era
mai sembrato tipo
da abbracci, Sherlock, o da coccole sul divano, nonostante il
più delle volte
si comportasse da bambino e si spiaccicasse su di lui, prendendo tutto
il posto
sul sofà. Eppure ora, vedendolo con il capo reclinato in
avanti e i riccioli
scuri a coprirgli la visuale del suo volto, John non resistette
all’impulso di
toccare ancora quella pelle che aveva solamente sfiorato. Rompere i
suoi argini
per disegnare nuovi schemi. Riprovò nuovamente ad allungare
la mano, passando
dalle unghie, alle nocche, al palmo, con una lentezza estrema, come se
dovesse
addomesticare un animale selvatico.
“John…”
Mormorò Sherlock, alzando di poco
la testa per poterlo osservare.
“Per favore,
Sherlock.” John lo guardò
ancora, sentendo il cuore riempirsi di un sentimento strano ed enorme,
che non
accennava a farlo respirare, ma solo annaspare in cerca di aria e
affetto. Si
sbilanciò un poco, puntellando i palmi vicino ai fianchi di
Sherlock e le
ginocchia contro il materasso duro, fino a trovarsi viso contro viso,
ad una
distanza vicinissima. John alzò le braccia e si
lasciò trasportare dalla
situazione, abbracciandolo stretto e premendo le mani contro la schiena
di
Sherlock, coperta solo dalla maglia leggera del pigiama.
“Mi sei
mancato, Dio, mi sei mancato
dannatamente.” Sherlock restava immobile in quella presa,
forse troppo sorpreso
o scioccato o disgustato, John non lo sapeva e, in realtà,
non voleva nemmeno
saperlo, perché in quel momento andava tutto bene. Era
lì la prova che Sherlock
aveva sconfitto la morte ed era ritornato da lui. Era lì la
prova che erano
riusciti a mettere da parte tutto e a ricominciare, semplicemente con
la
perseveranza e testardaggine di Sherlock e l’infinita
pazienza e bontà di John.
Sherlock mosse piano le braccia, andando a stringere il maglione di
John
all’altezza del petto, in una presa debole ma presente.
Umano.
“Non credere
che mi sia dimenticato la
mia domanda, Sherlock. Sto ancora aspettando la tua
risposta.” Proruppe John,
dopo un silenzio infinito, con ancora la testa che sfregava dolcemente
contro
la spalla di Sherlock.
“Non credo
l’avrai mai, John.” John
sorrise, a dispetto di tutto. Da quella posizione poté
vedere la sveglia
poggiata sul comodino che segnava a caratteri cubitali le tre e mezza
del
mattino. Avevano decisamente esagerato. Lasciò lentamente la
presa dal corpo di
Sherlock, assaporando gli ultimi rimasugli di calore che quel contatto
gli
aveva provocato. Si alzò e fece il giro del letto, andando a
disporsi nella
parte libera del materasso matrimoniale che Sherlock aveva preteso
appena
avevano deciso di abitare in quell’appartamento
–ovvero subito.
“John, cosa
stai facendo?” Domandò
Sherlock, ancora fermo nella posizione precedente. John
si tirò le coperte fino alla testa, tirando
appena per far spostare Sherlock, ostacolante di
quell’impresa.
“Beh, dormo,
mi sembra ovvio. Abbiamo già
fatto abbastanza tardi e sto morendo di sonno, non sono più
abituato a restare
sveglio quarantotto ore di fila.” Borbottò
svogliatamente, rimanendo vigile per
constatare la vera reazione che Sherlock avrebbe avuto alla sua mossa.
“Non hai
più paura che la gente possa
parlare?” Chiese, mettendosi anche lui sotto le coperte e
depositando una mano
sotto al cuscino, con il viso rivolto verso John.
“Ormai non
ha più importanza.” Constatò,
scrollando appena le spalle. Sherlock sorrise e John con lui,
avvicinandosi un
po’ di più al suo corpo e sentendosi emozionato
come un bambino alle giostre.
“Buonanotte,
Sherlock.”
“Buonanotte,
John.” Sherlock chiuse gli
occhi e John restò a guardarlo per minuti interi, immerso
nell’ombra come se
fosse una piacevole coperta nel quale nascondersi e trovarsi.
L’istinto di
allungare il collo e baciarlo sulle labbra gli venne naturale,
così come posare
una mano sulla sua guancia e solcare con le dita ogni linea e ombra che
quella
notte aveva da offrire al volto di Sherlock.
Sherlock premette le
labbra contro quelle
di John, un bacio a labbra chiuse e cuore aperti che fece rabbrividire
il
medico come se fosse il più ardito dei gesti –e
forse un po’ lo era, ma andava
bene così. John si staccò, ponendo fine al
momento stato idilliaco e
riprendendo posto sul suo cuscino, avvicinando la mano a quella di
Sherlock,
sotto al cuscino, stringendola piano.
Chiuse gli occhi, con
un sorriso
soddisfatto sul volto, sentendo, finalmente, che tutti i pezzi del
puzzle
stavano tornando al loro posto, insieme ad altri nuovi e pieni di
sorprese,
come era sempre stata la sua vita al fianco del detective.
C’erano
persone legate da un elastico:
non importava quanto tempo cercassi di spezzarlo o di allontanarti
dall’altro
polo, esso continuava a riportarti al punto di partenza, facendoti
ricordare
ogni singola volta che c’è sempre
un’altra parte al quale siamo legati, anche
senza volerlo, anche se combattiamo con tutte le nostre forze.
John aveva provato a
combattere il
ricordo di Sherlock con tutte le sue forze, dopo la sua finta morte, e
al suo
ritorno aveva incominciato a combattere lui stesso, non capendo che, in
fondo,
non si può mai combattere ciò che si ama davvero.
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