Ordinary life of a doctor
Orbene,
eccomi qua. Come mi ero ripromessa, ho affrontato il POV di John sulla
grande lontananza, non so cosa ne è uscito ma era una
necessità per il “Gruppo di Autoaiuto
Post-Reichenbach”, affrontiamo insieme la cosa day-by-day XD
Aderite numerosi, tè e pasticcini sono ben graditi.
Spero di essere riuscita a immedesimarmi abbastanza, perché
decisamente la sociopatia di Sherlock mi è più consona
(forse perché siamo entrambi Capricorni). Il lutto però,
purtroppo, lo conosco e so che la rabbia e la frustrazione ne sono una
componente importante. Ditemi voi cosa ne pensate.
I personaggi appartengono ai loro legittimi autori, che dovrebbero
finanziare il “GAPR” - detto tra noi. Io non ci guadagno
niente se non scervellamenti inquantificabili. I versi vengono dalla
stupenda “This depression” di Bruce Springsteen, che fin
dal primo ascolto mi ha fatto pensare alla condizione di John –
grazie di esistere zio Bruce, God bless you.
Vi lascio alla lettura, statemi bene.
Sara
- Ordinary Life of a Doctor -
I haven't always been strong, but never felt so weak
All of my prayers, gone for nothing
I've been without love, but never forsaken
Now the morning sun, the morning sun is breaking
Oggi è venerdì. Un altro venerdì per cui quelli
dell’ufficio di fronte ringraziano Dio esponendo un cartello al
vetro della finestra. Per me è solo finita un’altra
settimana.
Vado avanti un giorno alla volta, come quelli dell’anonima
alcolisti. Forse mi daranno la medaglietta dei due anni di
sobrietà... Sarcasmo? Un po’, sì. Aiuta a far
passare i giorni. Sempre meglio che diventare davvero alcolista, o
cominciare a drogarmi, oppure buttarmi sotto il treno delle 7,15 della
Bakerloo Line.
Non che ci abbia pensato davvero. Ho visto troppa morte, per non apprezzare la vita.
M’incammino verso casa. Londra ha quell’odore forte e
grigio di quando sta per piovere. Il vento mi sferza a raffiche
erratiche, uggiose, trasportando le foglie dell’ennesimo autunno.
Un altro autunno senza di te.
Mi chiedo se smetterò mai di pensarti, se mi metterò
l’animo in pace. Dovrebbero davvero fare un gruppo per
disintossicarsi da Sherlock Holmes.
Mi ci è voluto un po’, all’inizio, prima di dirmi: ok, ce la faccio, posso tornare nel mondo.
Sì, va bene, ogni tanto la gamba mi disturba di nuovo. È
come se mi conficcassero degli spilloni nell’anca e nel
ginocchio. Ma ho deciso che riprendere il bastone non era
un’opzione.
Tu avresti disapprovato. Mi avresti guardato impassibile, sollevando un sopracciglio e giudicandomi col tuo silenzio.
Perché mi ricordo così bene le tue espressioni? Non credo sia naturale, dopo tutto questo tempo.
Sono tornato al lavoro dopo qualche settimana. Ho fatto doppi turni,
guardie, tutto ciò che c’era da fare. È tutto
quello che m’è rimasto.
Una vita normale.
Un lavoro duro. Bollette da pagare. Traslochi. Qualche amico che chiama
ogni tanto. La spesa. Il traffico. Le Olimpiadi. La pioggia. La crisi.
Una birra al pub. Lo sciopero della metro. Un saluto a Mrs. Hudson. La
visita dalla terapeuta. Il cibo da asporto. Litigare con Harry…
Certo, tutto tranquillo.
Niente più ladri, assassini, mafiosi, serial killer o consulenti criminali.
Niente più adrenalina.
Niente più Sherlock…
È quando il mio cervello arriva a questo punto che mi devo fermare e prendere un respiro più profondo.
Vivo. Perché è così, si va avanti.
Ho perso mio padre che ero un ragazzo e ce l’ho fatta. Ho perso
mia madre e non mi sono fermato, sono partito per la guerra. Ho perso
te e combatto la mia battaglia più grande.
Ogni mattina mi sveglio e aggiungo un giorno ad un conto che potrebbe diventare infinito.
Non so perché lo faccio, sembra uno di quegli stupidi e inutili
conti dei giorni che mancano alla fine della scuola. Ma la scuola non
finirà prima solo perché tracci un segno su
un’altra casella del calendario. Tu non tornerai e un giorno mi
dovrò rassegnare a smettere di contare.
Il tempo scorre inevitabile e io aspetto qualcosa che non succede.
Ogni tanto vado al cimitero. Non spesso, mi fa incazzare. La tua tomba
è sempre in ordine, probabilmente Mycroft paga qualcuno per
mantenerla. Non ho più visto tuo fratello dal funerale, non
saprei cosa dirgli. Ho pensato di odiarlo, per un po’, ma poi mi
è parso inutile anche quello. Quando, però, una macchina
nera e lucida mi passa accanto, ho ancora i brividi.
Non vivo più a Baker Street. La scusa è che non potevo
più permettermelo. Ci sono stato l’ultima volta per
prendere la mia roba ed è stato… Sarebbe stato meglio se
mi avessero sparato di nuovo.
C’eri tu, dappertutto. In ogni angolo, in ogni piega, in ogni
molecola d’aria. Ed erano passati più di tre mesi dal tuo
funerale. Il profumo del tuo fantasma mi ha mozzato il respiro e le
gambe.
Non potevo permettermi di stare così male, proprio nel momento in cui ricominciavo a vivere.
Ora sto in un appartamento carino, luminoso, economico, che non puzza
di chimico, di bruciaticcio, di cadavere decomposto. Non profuma di
sapone e camice ben stirate.
Un posto che non è Baker Street e non ha il tuo odore.
Adeguarsi per sopravvivere, dicono.
Io mi sono adeguato e sono sopravvissuto. Ho cambiato casa, orari,
abitudini. Sono invischiato in una vita che non mi sembra la mia.
È una noia mortale.
Santo Dio, quanto mi manca sentirti dire: noioso!
Dicono che una delle cose peggiori del lutto sia cominciare a
dimenticare la voce delle persone che non ci sono più. Io potrei
giurare di sentire ancora la tua, ogni tanto.
La voce era una delle cose che più ti caratterizzavano.
Così profonda, cavernosa, calda, espressiva, avvolgente,
ipnotica quasi. Avrei potuto ascoltarti per una vita intera.
E invece ho potuto farlo solo per poco più di un anno. L’esistenza è ingiusta.
Sono fermo ad un semaforo rosso ed un autobus mi passa davanti. La
pioggia comincia a cadere subito piuttosto forte. Oh, Londra, almeno
potresti avvertire… Sbuffo e m’infilo nella Tube.
Ho incontrato Greg, qualche giorno fa, per caso. C’era una scena
del crimine sulla strada che percorrevo per andare a comprarmi un paio
di scarpe. Lestrade è stato cordiale, amichevole, stasera
andiamo a bere una birra insieme, era da un po’ che non lo
facevamo.
C’erano anche Donovan e Anderson. Non hanno avuto nemmeno il
coraggio di guardarmi, quei due ipocriti. Chissà se ci hanno
goduto a vedere la pozza del tuo sangue sul marciapiede.
Che schifo mi fanno tutti quanti. Tutti quelli che hanno dubitato di te.
Sei sparito presto dai giornali. Troppe principesse in topless e divi
dei reality che cambiano sesso, a quanto pare, per occuparsi ancora di
un mediocre truffatore. Meglio così, non ci tenevo a vederti
ancora coperto di fango, dopo che ti hanno preso anche la vita.
Eri una persona così speciale che – e perdonami
l’immodestia – per apprezzarti bisognava essere un
po’ speciali a nostra volta.
Sono fiero di poter dire: ero amico di Sherlock Holmes.
Sono orgoglioso di dichiarare: io ho visto la sua umanità e voi no, non sapete cosa vi siete persi.
Ti ho voluto bene, Sherlock. A te ed ai tuoi difetti.
Sarà per questo che ora mi sogno la tua figura nera contro il
cielo chiaro e la tua voce spezzata in un telefono che mi mente
piangendo lacrime vere.
Dio, ti odio! Mi hai ricoperto di bugie a cui sapevi benissimo non
avrei creduto mai. E non posso nemmeno riempirti di pugni per questo.
Sono ancora così arrabbiato con te e mi chiedo se mi passerà mai.
Perché non mi hai fatto salire a trascinarti giù da quel
fottuto cornicione? Ti avrei afferrato per quel cazzo di bavero e ti
avrei tirato giù con tutta la mia forza. Ti avrei chiesto
perché, perché, perché, stupido idiota, vuoi buttarti da un tetto e spezzarmi il cuore.
E poi ti avrei abbracciato. Perché nessuno lo ha mai fatto, vero
Sherlock? E me ne sarei fregato delle tue proteste, perché ti
volevo bene ed ero spaventato.
Che pensieri sciocchi ma, soprattutto, senza utilità.
Quasi mi sembra di sentirti, con la tua brutale praticità,
affermare che è tempo perso pensare a cosa non si è
fatto, perché per l’appunto non lo abbiamo fatto e
indietro non si torna.
Non ho fatto e detto troppe cose con te e ora è tardi per tutto.
Continuo a ripetermi che ho una nuova vita, adesso, che dovrei
smetterla di far inchiodare il cervello ogni volta che penso a te, che
questo ricordo dovrebbe cominciare a fare meno male. Sono quasi due
anni e mezzo, in fondo.
Non è così male, la vita che faccio. Molti me la invidierebbero, coi tempi che corrono.
Ho un lavoro, una casa decente, qualche amico, ho anche… una fidanzata.
Sì, beh, è capitato.
Si chiama Mary – oh, so che lo troveresti noioso! Me l’ha
presentata Sarah, una sera al pub, circa un anno fa. Fa la commessa in
un grande magazzino a Hammersmith. È carina e dolce, tranquilla.
E io ne avevo bisogno. Ci siamo andati piano all’inizio, ma ora
è… bello.
Mary è morbida, accogliente, ha un carattere ottimista e pratico.
Non ha angoli, spigoli o aculei che ti fanno sanguinare le dita.
Ha gli occhi scuri e placidi, Mary, così tranquillizzanti.
Non due lame di pugnale trasparenti, inquietanti e belle da morire, che
ti attraversano l’anima lasciando ferite che non si chiuderanno
mai più.
Mi domando perché mi sono lasciato ferire così tanto da
te. Come ho potuto farti penetrare così a fondo nella parte
indifesa del mio cuore. Io, che non mi fidavo di nessuno.
Quando credo di aver raggiunto un po’ di conforto, un po’
di pace, tu – arrogante come sempre – torni da qualche
sogno lontano e t’imponi nella mia mente.
Neanche Mary basta più, in quei giorni.
Lei si domanda, sai, perché possiedo una vestaglia di seta azzurra che non metto mai e che, comunque, mi andrebbe lunga.
È l’unica cosa tua che ho preso da Baker Street.
Per fortuna lei non c’è, quando, in quelle sere in cui fa
brutto tempo nel mio cuore, mi stringo al petto quell’indumento
che, orami, non può certo più profumare di te e piango
come un bambino abbandonato dalla mamma. Quanto sono patetico.
Riesci ancora a farmi piangere, sì. Contento?
Perché ricordo le tue lacrime, mentre mi mentivi – quanta
rabbia, le tue bugie – e mi hanno fatto ancora più male
dei tuoi capelli inzuppati di sangue, dei tuoi occhi rivolti ad un
cielo ingrato, della tua mano stranamente fredda stretta
nell’ultimo contatto con la mia…
Vorrei soltanto riuscire ad accettare la tua morte. Come ho accettato
quella dei miei genitori. Come ho superato quelle dei compagni in
guerra, dei feriti sotto le mie mani di chirurgo.
E invece no, tu continui a tormentarmi.
E io so qual è il motivo.
È perché tu sei – sì, al presente – Sherlock Holmes.
Io non posso credere che qualcuno sia riuscito a spingerti ad un gesto
simile soltanto minacciando la tua reputazione, anche se era Jim
Moriarty. Non senza che tu avessi un piano di riserva.
Sì, certo, la sua mente era geniale quasi quanto la tua, ma
c’è qualcosa dentro di me che insiste nell’affermare
che tu dovevi aver previsto tutto.
Una flebile, impaurita, scintilla di speranza, che teme anche solo di farsi vedere.
È quella che mi ha chiesto d’implorati di non essere morto, di smetterla di farmi così male.
So che è assurdo, perché ho visto il tuo corpo
sfracellato. Eri tu. Ero sconvolto e confuso, avevo sbattuto la testa,
ma eri tu. Morto su un marciapiede.
Eppure, in dei momenti, ancora non ci credo.
Non puoi essere stato tanto debole e idiota.
Non puoi essere stato così cattivo con me, perché lo sapevi che ti volevo bene.
Lo sapevi, oltre quella cortina di ghiaccio, impenetrabile e
inespressiva, dietro la quale ti sei sempre rifugiato, come una sfinge
scolpita nella neve che nasconde un cuore di fragilissimo cristallo.
E non importa quello che hai sempre detto dei sentimenti. Io so che hai
sofferto. Perché, Cristo, l’ho sentita io la tua voce
rotta dalla commozione. L’ho avuto io il tuo addio.
Non sembravi per niente uno che ha voglia di andarsene.
E so di aver sfiorato il tuo cuore, in qualche modo.
Ma devo confessarti che ne avrei bisogno ora, perché non sono mai arrivato così in basso.
Avrei bisogno del tuo cuore, ma sta marcendo sotto sei piedi di terra. È inconcepibile.
Non mi affretto, tra la folla dell’ora di punta. La gente invece
corre verso il convoglio in arrivo. Un turista mi urta con lo zaino e
biascica un “Sorry” dall’accento strambo. È
alto e magro, come te, ma onestamente non ti ci avrei mai visto coi
bermuda.
Gesù, quanto avremmo riso per una cosa del genere!
Oh, se l’amore si misurasse in risate, quanto ci saremmo amati, noi due!
Ho usato proprio quella parola e quel verbo? Amare?
Sì, l’ho fatto.
Perché, in tutta onestà, non saprei proprio come altro chiamare quello che ho provato per te.
Quanto lontano ci aveva visto, Irene Adler? Quanto poco lontano ho guardato io, preso dalle mie paure e pregiudizi?
Quello che c’era tra noi prescindeva qualsiasi definizione
restrittiva. Tu sei sempre stato oltre ogni definizione, per questo non
si può catalogare il sentimento che ci univa. Il groviglio
inestricabile di sentimenti direi, è più giusto.
È già buio, quando esco dalla metropolitana. I pub sono
pieni, solo un altro venerdì sera, in una città lucida
della pioggia che ha già finito di cadere. Londra è
indifferente e accogliente, come sempre, come una vecchia signora che
non ti negherà mai una tazza di tè o un bicchierino di
cherry, ma scordati che ti faccia una confidenza.
Tra poco sarò a casa. Accenderò il bollitore e nel
frattempo mi farò una doccia. Sono stanco. È dura fare
una vita ordinaria. L’abitudine mi uccide.
Mi stancavo meno a starti dietro mentre correvi tra i vicoli, saltando
da un tetto all’altro – incosciente che non eri altro. Ma
mi bastava guardarti un attimo negli occhi, per sapere che non avrei
voluto fare altro, mai.
Ora cosa guardo, quando torno a casa? Un ordine militare e un po’
asettico dentro un bilocale stretto, che non potrebbe mai contenere la
tua energia come facevano le pareti dilatate di Baker Street.
Questa è solitudine. È la depressione che fingo di non
avere. È la speranza che muore ogni giorno, come le mie
preghiere finite nel niente. È qualcosa a cui nemmeno le
telefonate confortanti di Mary possono rimediare.
Domattina mi sveglierò. Potrebbe esserci Mary, calda e
profumata, accanto a me. O forse solo la tua vestaglia bagnata dalle
mie lacrime. Ma mi sveglierò e conterò un altro giorno.
Novecentotre giorni senza di te.
E avrei bisogno del tuo cuore, perché non l’ho mai sentito
battere. Non ho mai posato la mia mano sul tuo petto e sentito il
riverbero del tuo battito sul mio palmo. Almeno avrei saputo che eri
vero.
Vorrei svegliarmi domani e vedere il mattino spezzare questo brutto
sogno. Vorrei sentire il tuo cuore e il tuo violino. Vorrei la tua voce
che mi ordina di fare il tè. Vorrei i tuoi occhi che mi
ringraziano.
E sapere che per qualcuno, i miracoli esistono.
This is my confession
I need your heart
In this depression
I need your heart
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Hm, continuo a pensare che quella col POV di Sherlock sia uscita
più incisiva, però magari mi sbaglio. Volevo rendere
l’idea di quanto frustrante potesse essere la vita di John senza
Sherlock ed il suo modo di negare il più possibile il dolore. Se
funziona potete dirlo solo voi lettori.
Volevo anche che Londra comparisse come una specie di personaggio.
È una città che amo molto, non mi stanca mai e mi
sorprende sempre. Credo che anche i personaggi la amino, mi sembrava
giusto darle un po’ di spazio.
Attendo i vostri commenti, impegnatevi vi prego!
Baci
Sara
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