Note: Eeeeeeeeee
rieccomi :3 Vi sono mancata? No, vero? Q_Q In questo momento sto
facendo un'enorme pazia a pubblicare il primo capitolo, dato che mi ero
promessa di finire il terzo prima di pubblicarlo ... Ma boh, non
resisto
Partiamo con le
avvertenze: non sono un'esperta di musica anni '80, di quei anni so
così poco che è pari a zero *si sente una merda*;
non frequento scuole americane, quindi non conosco gli orari e le
materie, in poche parole ho copiato l'istituzione scolastica italiana;
vi ho risparmiato dal giornaliero "pledge
of allegiance", il giuramento di
fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti che studenti e
professori effettuano ogni mattina alle 7.30.
Di cosa
parlerà la fic? Adolescence è una storia
-ovviamente d'amore, sennò non l'avrei mai scritta :'D-
dedicata principalmente alla crescita di Mike e Chester, con l'affronto
dei mille problemi di quest'ultimo che ha affrontato nella reale come
noi tutti sappiamo. I titoli di ogni capitolo sono presi da varie frasi
prese dai capolavori dei nostri
miti :DOgni
quanto la aggiornerò? Ad ogni morte di Papa. Mi dispiace, ma
la terza liceo mi sta facendo il culo non quadro ma cubico .-.
Come
finirà? Leggete e lo scoprirete :D
Voglio vedere
tante recensioni eh ò_ò Non ci saranno scene
rosse perché utlimamente sto cercando di allontanarmi dalla
lussuria (ovviamente fallendo sempre di più giorno dopo
giorno~) ...
Enjoy :3
Adolescence
Capitolo 1
–
It’s start with one thing
Lunedì
dodici Settembre
1983, la fatidica data che nessuno di quei pargoli avrebbe mai pensato
a
cosa li avrebbe
portati.
Loro, piccoli
ed ancora ignari del mondo e della vita, erano eccitati per quel
giorno,
avevano le farfalle nello stomaco perennemente, con
l’esaltazione che non cessava
di scorrere nei loro piccini corpi di bambino di cinque anni circa.
Prima
dell’inizio dell’estate appena trascorsa in
tranquillità come ogni anno da lì
alla loro nascita, avevano appena finito l’ultimo anno della
loro vecchia
scuola materna, la quale non vedevano l’ora di finire il
più presto possibile
per avventurarsi nel mondo delle elementari e delle superiori, nel
mondo che
per loro era da adulto.
Ma solo quando
sarebbero cresciuti avrebbero rimpianto quelle giornate passate a
riunire i
grandi tasselli dei puzzle con i quali si divertivano, il rincorrersi
nel
cortile della scuola, a giocare a nascondino, a imitare i personaggi
delle loro
serie tv preferite litigando per essere il protagonista.
Da
lì a
qualche anno avrebbero dovuto rimboccarsi le maniche e aprire i libri,
magari
prendendola sempre alla leggera, perché dopotutto si parlava
solo di sei anni
in preparazione a quelli successivi di serio studio e di serio impegno.
Ma
avendo appena cominciato sarebbe sembrato a tutti quei piccoli
inesperti una
cosa già difficile.
Tutti quei
piccoli bambini, che la notte prima andarono a dormire come di
consuetudine
alle ore nove ma che ci misero più tempo prima di trovare la
stanchezza adatta
per precipitarsi nel mondo dei sogni dato che l’agitazione
per il giorno
successivo non aveva intenzione di andarsene. Alle sette e mezza del
mattino furono
svegliati dai rispettivi genitori, pronti per il loro importante giorno.
Il piccolo
Michael di sei anni compiuti il febbraio scorso, stava ancora dormendo
sotto le
leggere trapunte di color azzurro del suo piccolo letto. Il suo viso
docile
rilassato lo mostrava come un tenero angelo dai lineamenti orientali
ereditati
dal proprio padre, a differenza di quei capelli lisci e a caschetto che
erano
di un castano intenso.
Sognava
beatamente sotto al caldo delle coperte, dopo aver passato tutta la
notte
insonne eccitato per il suo grande giorno, come del resto fecero i suoi
compagni. L’unica cosa che voleva in quel momento era
dormire, dormire e ancora
dormire, vivere quel sogno contorto che in quel momento gli passava per
la
testa.
Ma i giorni di
vacanza erano finiti, da quel giorno in poi si sarebbe dovuto svegliare
sempre
alle sette e mezza, massimo alle otto, per essere in orario e mai in
ritardo.
Nella
cameretta entrò la madre, una donna non tanto alta dai
capelli biondo tinto che
sembravano dessero più sull’oro, che si
addolcì come sempre nel vedere il
figlioletto così tranquillo mentre dormiva e quasi gli
dispiacque risvegliarlo,
portandolo al mondo dei vivi.
«
Mikey … »
sussurrò leggera sedendosi sul lettino del figlio,
scostandogli i capelli dalla
fronte di un colore nocciola pallido « Svegliati amore
… » posò dolcemente un
bacio sulla tempia del piccolo che poco dopo aprì i piccoli
ma grandi occhi che
subito cominciarono a bruciare.
Girata la
testa abbastanza per scrutare la madre, la guardò con
pietà, pregandola con lo
sguardo di lasciarlo dormire ancora, di rimandare a domani il primo
giorno di
scuola.
Ma era ovvio
che quella volta la povera madre non l’avrebbe potuto
accontentare.
Tiratolo a
forza fuori dal letto, lo spedì immediatamente in cucina,
dove il fratellino
Jason di ancora quattro anni mangiava i suoi cereali incredibilmente
colorati a
ritmo della musica che usciva dalla radiolina sul tavolo, che in quel
momento
mandava una canzone che era diventata il tormentone
dell’estate appena finita.
Infatti,
appena il bambino di sei anni arrivò in cucina gli
scoppiò la testa, dato che
era già il terzo giorno di fila che la beccava alla radio e
sinceramente non ne
poteva più. Al contrario, il piccolo Jason sembrava
veramente apprezzare quella
canzone bambinesca della quale però non conosceva nemmeno il
significato. Infatti
mugolò sofferente appena finì, mentre Mike
esclamò un Alleluia.
Fatto
colazione anche lui con gli stessi zuccherosi cereali ricoperti di
glucosio
colorato che a volte si scioglieva nella calda ciotola di latte,
salì in bagno
a lavarsi i denti, salendo su un basso sgabello per riuscire ad
arrivare meglio
al lavandino troppo alto per la sua corta statura di bambino.
Denti
splendenti,
viso umido dopo essere stato sciacquato con un getto d’acqua
tiepida, era
pronto per essere vestito per bene con gl’indumenti che sua
madre gli infilava
addosso, senza protestare.
In una via non
molto distante da quella dove si trovava la famiglia Shinoda, in un
quartiere
un po’ più malfamato e povero, c’era una
casetta un po’ catapecchia, con un
tetto a tegole mancanti sotto la testa di quattro persone.
La casella
della posta un po’ ammaccata e piena solo di bollette mai
pagate, di inutile
pubblicità non interessante e di multe, era segnata da un
cognome lungo e
scritto rozzamente: Bennington.
Quella
famiglia era con pochi soldi, nonostante un componente fosse un
poliziotto, il
quale però doveva mantenere anche due figli ed una moglie
pretendente. E quei
figli dovevano pure andare a scuola, così era legge.
L’odore
di
sigarette perenne che circolava per tutta la casa ormai era
impercettibile per
i componenti di quella famiglia a furia di averci fatto
l’abitudine. Pure i
loro polmoni un po’ bruciacchiati per il vizio del poliziotto
di famiglia ormai
smettevano di carbonizzarsi sempre di più.
Il piccolo
Chester alle sette in punto, come tutti i maledetti giorni che Dio
mandava in
terra, si svegliò bruscamente nella cameretta che
condivideva con il fratello
Brian per colpa dello stupido cane dei loro vicini di casa, una
coppietta di
spacciatori e ladri che campavano con i loro rispettivi lavori sporchi.
Ogni giorno,
alle sette, il cane abbaiava senza un apparente motivo, prendeva ed
abbaiava
all’aria che gli soffiava addosso. Nemmeno ci fosse stato un
postino con cui
accanirsi, era completamente solo.
Forse, ogni
giorno alle sette di mattina, richiamava tutto il vicinato con i suoi
insulsi
ma fastidiosi guaii per un minimo di attenzione, anche per un lieve
contatto
fisico, pure un calcio gli sarebbe bastato, uno schiaffo, qualsiasi
cosa.
Peccato che
avesse il pelo così rognoso e inzaccherato che faceva schifo
persino ai propri
padroni che si limitavano a nutrirlo e a lasciarlo libero per il
giardino, che
invece di un colorito verde ne teneva uno che dava sul grigio.
Il
risvegliò
fu un incubo per lui, come sempre. Ritrovarsi giorno dopo giorno nella
solita
situazione di merda, nella quale arrivavano a fine mese facendo
sacrifici
impensabili per la loro piccola età. Sempre nella solita
baracca, sempre i
soliti litigi tra i suoi genitori che si chiedevano perché
si fossero sposati e
perché non si fossero ancora separati, sempre i soliti
giorni che doveva
passare con la guardia alzata prima che qualcuno lo rapisse o lo
derubasse, o
che lo violentasse.
Si
ritrovò a
pancia in giù sul materasso, con la faccia spiaccicata sul
proprio cuscino, con
la bocca aperta da cui usciva quel minimo di bava che però
faceva lo stesso
schifo, i capelli boccolosi naturalmente scompigliati.
Già
la
sensazione di mal di testa del primo mattino gli fece girare le
scatole, in più
il russare di suo fratello Brian non tanto più grande di lui
lo infastidì
ulteriormente, dato che aveva il sonno pensante e lui lo invidiava in
quanto ad
ogni minimo rumore che gli giungeva alle orecchie lo svegliava di
soprassalto.
In
più quel
giorno sarebbe dovuto andare a scuola pure lui, anche se in terza e lui
in
prima, nonostante avesse già compiuto sette anni. Ma
purtroppo all’asilo, due
anni prima, era successo qualcosa che non doveva succedere.
Si
tirò su
dalla sua posizione stramba della prima mattina, stiracchiandosi ed
aprendo le
fauci in uno sbadiglio, mugolando e facendo scroccare alcune ossa della
schiena
e delle braccia.
Afferrò
il
proprio cuscino e lo lanciò in faccia al fratello che
dormiva sul letto dalla
parte opposta del suo.
«
Brian,
svegliati che dobbiamo andare! » lo richiamò
grattandosi un lato della vita ed avviandosi
all’uscita della loro stretta ed umile cameretta priva di
qualsiasi gioco,
prima che il fratello si arrabbiasse per il modo con cui veniva sempre
svegliato.
Scese in
cucina facendosi la colazione da solo, cosa che aveva imparato qualche
anno
prima dopo una lunga serie di scottature e cicatrici ormai quasi
invisibili.
Colazione,
bagno, vestiti dalle proprie mamme, fotografati ed immortalati dai
propri padri
– chi si poteva permettere una polaroid – per
ricordare quell’importante dì del
loro primo giorno di scuola. Tutti i bambini abitanti a Los Angeles
erano
pronti.
Chi arrivato
in macchina, chi a piedi, chi col bus, chi solo col padre, chi solo con
la
madre, chi con entrambi, alle otto e mezzo in punto ogni bimbo del
nuovo anno
era nell’aula di psicomotricità, con il proprio
enorme zaino sulle spalle
colorato e pieno di quaderni immacolati, matite con punte pungenti,
pennarelli
carichi e pastelli non consumati.
Piccole spalle
circondate dalle mani dei propri genitori, mentre
quest’ultimi avevano le
orecchie tese verso il breve discorso di benvenuto che stava tenendo la
preside
dell’istituto della scuola primaria.
I loro figli
invece erano troppo occupati a guardarsi intorno, a scrutare le altre
piccole e
candide facce dei loro coetanei i quali di lì a poco,
probabilmente, avrebbe
visto tutti i giorni, per cinque lunghi anni.
Si guardavano
l’uno l’altro, curiosi, ognuno credendosi migliore
di quello che in quel
momento lo stava fissando, o magari cercando di fare un minimo di colpo
verso
una bambina che li aveva a mala pena degnato di uno sguardo.
Era
incredibile come dei bambini, già a
quell’età, riuscivano già a mettersi al
confronto, in mostra, cercando di essere migliori tra gli altri,
più belli, più
intelligenti, più stronzi, più simpatici,
più favoriti.
Io
ho lo zaino di Iron Man! E io invece di Astroboy! Io del Mazinga Z! come se uno fosse
meglio
dell’altro. E chi avesse il migliore si sarebbe posto
più in alto.
Dopo ben dieci
minuti di discorso, in cui la preside spiegò
l’organizzazione dell’istituto, parlando
bene del servizio mensa di cui in quegli anni si criticava per la
scarsa
qualità e la pessima prestazione nelle scuole, finalmente
prese il fascicoletto
con scritte le sezioni delle prime classi e l’elenco degli
alunni che
l’avrebbero composte.
«
Sezione
prima A. » cominciò la preside di già
cinquanta e passa anni, dove il viso
truccato mostrava imbarazzanti rughe che le solcavano gli zigomi, gli
occhi ed
infine la fronte.
A mano a mano
che lei richiamava nomi dei bambini della sezione,
quest’ultimi venivano
guidati dai genitori fuori dall’aula di motoria e condotti
fuori verso quella
dove avrebbero passato l’anno.
«
Sezione B. »
Il tempo
sembrava non scorrere mai quando il fiume dei nuovi alunni usciva dalla
palestra, mentre quelli rimanenti aspettavano con impazienza il sentir
pronunciare il proprio nome.
«
Sezione C:
Gregory Johnny Armstrong, Anabelle Baker, Chester Charles Bennington
… » il
cuore dell’ultimo bambino chiamato scoppiò nel
sentire il suo nome essere pronunciato,
sentì uno stormo di farfalle girargli per lo stomaco, mentre
sia la madre che
il padre lo spingevano verso l’esterno della sala da
ginnastica.
«
… Juliana
Peterson, Kevin Juan Salomon, Michael Kenji Shinoda …
» il piccoletto tirò per
le maniche entrambi genitori conducendoli verso l’uscita,
mentre quest’ultimi
sorridevano di fronte al suo comportamento eccitato.
Vennero
chiamati
in totale diciotto bambini, tra maschi e femmine, tra americani e
stranieri,
tra bianchi e neri. Tutti in un’aula al piano terra
dell’istituto. La prima C.
I primi
arrivati si fiondarono subito ai posti più lontani dalla
cattedra, verso le
ultime file tra i banchi bianchi con le gambe rosse, come le loro basse
sedie.
Ma Chester venne spinto dal padre in prima fila, con
l’intenzione di mandarlo
proprio davanti la cattedra assicurandosi che non si sarebbe potuto
distrarre
in alcun modo.
Ma il
piccoletto sgusciò dalla presa del padre, fiondandosi agli
estremi dell’aula,
sempre in prima fila ma attaccato al muro dalla parte di sinistra,
inchiodandosi sulla sedia e resistendo ai vari tentativi del poliziotto
che
cercava di scollarlo di lì. Ma era tutto inutile!
Gli ultimi
alunni entrarono nella classe, alcuni sbuffando per non essersi
riusciti ad
aggiudicarsi le ultime file, altri accontentandosi di ciò
che era rimasto. Ed
il caro e piccolo Michael sbuffò quando vide che due
bambinetti con le stesse
cartelle, a quanto pare si conoscevano già prima di allora,
si erano presi gli
ultimi due banchi disponibili per una coppia di alunni, che
però erano nella
prima fila e proprio in centro, posto che lui desiderava.
Mugolando tra
sé e sé mentre i due genitori si guardavano
stupiti dalla voglia d’imparare del
figlioletto, Michael si sedette affianco a quel bambino dai capelli
boccolosi,
dallo zaino scrauso e dalle matite non temperate che spuntavano dal
piccolo
astuccio aperto.
Si guardarono
per un decimo di secondo, quel minimo di tempo per vedersi
l’un l’altro come
due extraterrestri. Erano l’uno il contrario
dell’altro e subito con uno
sguardo l’avevano capito, anche se il fatto di aver trovato
il più grande nella
prima fila lasciava sperare che invece fosse anche lui un assetato di
nuove
conoscenze.
I genitori dei
due bambini si scambiarono un sorriso abbastanza tirato per colpa
dell’imbarazzo, mentre nell’aula entrava un uomo
sulla trentina d’anni, con
capelli castani che arrivavano poco più sopra delle spalle e
con un paio di
occhiali con le lenti grandi quanto un televisore ma sottili come la
leggera
montatura che posava sul naso.
«
Buon giorno
a tutti quanti, buon giorno signori e buon giorno signore. Buon giorno
anche a
voi signorini. » si rivolse ai bambini « Io sono
David Norton, il vostro
maestro d’inglese, di geografia e di storia. Spero di
accompagnarvi fino alla
quinta elementare, nonché di riuscire a farvi arrivare tutti
quanti in quella
classe. » sorrise mostrando i suoi denti brillanti.
Parlò
del
programma che avrebbero svolto durante l’anno, delle regole
che i bambini
avrebbero dovuto seguire per la buona educazione, come gestire le
assenze ed i
ritardi ed infine consegnò ad ogni genitore la lista dei
libri di scuola che
avrebbero dovuto comprare assieme al calendario delle
festività annuali.
Nessun bambino
ascoltava il proprio maestro, tutti erano troppo impegnati a scrutarsi
tra di
loro, a conoscersi inizialmente con uno sguardo: quello
mi sta simpatico, quello antipatico … Pure il
piccolo
Michael venne risucchiato dall’emozione, non prestando
attenzione alle parole
del docente ma bensì fissando di sottecchi il suo nuovo
compagno di banco.
Aveva delle
piccole lentiggini scure che gli macchiavano dolcemente le guance ed il
nasino,
occhi grandi circondati da palpebre assottigliate, capelli corti ma
riccioluti
di un castano cenere.
A volte,
quando si girava quel poco per contemplarlo meglio, incontrava il suo
sguardo,
che subito distoglieva per la vergogna di essere stato beccato,
perché anche
lui a sua volta lo stava scrutando
cercando i suoi particolari che gli avrebbe fatto magari capire che
tipo era.
L’unica
cosa
che lo colpì furono i suoi occhi grandi ma con i lineamenti
a mandorla, che non
capiva se fossero dati alle sue origini straniere oppure fosse
semplicemente
nato con quella forma, magari ereditata da uno dei genitori. Anche le
sue
orecchie a sventola non passarono inosservate.
«
Come uscita
didattica di primo anno, la classe andrà a visitare una
mostra d’arte di
Picasso, aperta dal trenta Agosto al quindici Ottobre. Ma noi
l’andremo ci
andremo il venti Settembre, accompagnati da Thomas Way, il loro maestro
di
matematica, scienze, musica e motoria. » disse il giovane
insegnante,
catturando l’attenzione di tutti i presenti, piccoli o grandi
che fossero alla
parola ‘uscita didattica’.
Era la cosa
più eccitante che i bambini potessero provare durante
l’anno: distaccarsi per
una o più volte durante l’orario scolastico dalla
scuola che dopo qualche anno
avrebbero visto come una prigione, dire ciao ciao ai libri e a tutto,
uscire
tutti assieme accompagnati e guidati dai propri insegnanti per la
città.
La mostra
d’arte quasi a nessuno interessava veramente, gli sarebbe
bastato solo scappare
da quell’edificio. Soltanto al piccolo Michael si drizzarono
le antenne,
vibrando come delle matte appena sentì la parola
‘arte’.
A lui era
sempre
piaciuta, ogni pomeriggio quando ritornava dall’asilo o
quando non sapeva che
fare prendeva carta e pennarelli e iniziava a comporre dei infantili
capolavori
colorati, posizionando sia sul tavolo che sul pavimento, ogni luogo era
adatta
alle sue creazioni.
I suoi
genitori, una volta accortisi della grande passione e bravura del loro
primogenito, lo spronarono ad andare avanti, ad approfondire la sua
grande voglia
di creare immagini astratte, animali inesistenti e tutto ciò
che gli girava per
la testa. All’asilo pure le maestre gli facevano i
complimenti, aumentando così
la voglia di disegnare nel bambino, che vedeva nel suo futuro
l’immagine di un
pittore di un artista di grande fama.
A Chester
invece l’arte non gli aveva mai fatto né caldo
né freddo, per lui era più che
altro una perdita di tempo andare ad assistere una mostra, che fosse di
un
pittore famoso o meno a lui non importava. Credeva che nella vita fosse
più
importante imparare a difendersi dai mal’intenzionati
piuttosto che studiare i
fiumi passano per la Francia.
Ma per sua
sfortuna, ogni volta che camminava per le vie del suo quartiere era
sempre una
lezione alla sopravvivenza nonostante fosse ancora piccolo per certe
cose.
« Non
so se la
preside dell’istituto vi abbia già parlato del mio
progetto che ho programmato
all’inizio dell’estate: si tratta di un club di
boyscout, al quale ovviamente
possono partecipare anche le future girlscout. In quanto ex istruttore
del club
di San José, credevo che sarebbe stata un bella idea creare
un club della
scuola, al quale hanno già aderito alcuni studenti delle
classi superiori alla
prima. » spiegò il docente tirando fuori delle
striscioline di carta « Per chi
ne fosse interessato, qui c’è l’orario
extrascolastico in cui ci ritroviamo per
iniziare ogni pomeriggio dalle quattro e mezza alle sei e mezza
nell’atrio
all’entrata. Non costa praticamente niente, solo i soldi per
l’uniforme e dicei
dollari d’iscrizione, che ci permetteranno di comprare i
distintivi per i vari
gradi del bambino. » distribuì i foglietti a tutti
i genitori presenti che
contemplarono attentamente il costo dell’uniforme di ben
trenta dollari.
Quando i
signori Bennington ricevettero in mano quel biglietto si scambiarono
veloci
un’occhiata complice, sapendo già cosa avrebbe
fatto da quel giorno in poi il
loro figlioletto, invece di stare in giro per i parchi malfamati della
sua
zona. Invece i signori Shinoda si guardarono dubitosi sul fatto che il
loro
figlio avrebbe accettato a rinunciare ad ogni suo pomeriggio per
un’attività di
gruppo di quel genere.
«
Bene, posso
dire che per oggi abbiamo finito con le presentazioni. »
disse ritornando
dietro la cattedra « Se volete colloqui o altro, basta
scrivere la
comunicazione sul diario dell’alunno. È stato un
piacere. » sorrise ai genitori
che salutarono i propri figli prima di lasciarli lì ancora
per le prossime due
ore e mezza.
«
Ciao tesoro.
» la madre di Mike gli baciò la testa coperta dai
capelli a caschetto ben
pettinati lavati la sera prima.
«
Ciao mamma.
» disse lui con la sua vocina.
Il padre gli
fece l’occhiolino, dandogli delle pacche affettuose sulla
spalla « Ti aspetto
in macchina. » disse riferendosi al fatto che da
lì a qualche ora sarebbe di
nuovo stato fuori da scuola ad aspettarlo con la sua macchina nera a
cinque
posti.
« Fai
il
bravo, mi raccomando. » la madre di Chester riprese suo
figlio accarezzandogli
la nuca.
«
Tornerai a
casa con Brian, d’accordo? » gli chiese il padre,
ma il figlio si limitò ad
annuire.
Lui ed i suoi
genitori non avevano un bel rapporto, non per chissà cosa,
li odiava a priori.
Per il loro modo di essere falsi con tutti, perché facevano
i bravi ed i
simpatici con tutti ma appena gli voltavano le spalle sputavano veleno
su di
loro. E poi li odiava perché non erano capaci di convivere
insieme con
serenità, e si ostinava a non capire perché
diavolo stessero ancora insieme se
in verità non si amavano più.
Quando la
classe si svuotò dai genitori e l’unico adulto
rimasto fu il loro nuovo
docente, quest’ultimo sorrise di fronte a tutti quegli
occhioni che lo
fissavano spaesati, dopotutto era il loro primo giorno di scuola.
«
Bene, fino
adesso mi sono presentato io, ma ora tocca a voi. Sotto alle
presentazioni, chi
comincia? » chiese guardandoli uno ad uno, tutti che
fremevano nei loro banchi,
sulle loro sedie, mentre nelle loro menti si accalcavano tutte le
informazioni
che avrebbero potuto riferire.
Ma ovviamente
nessuno aprì bocca.
« Non
tutti
insieme, mi raccomando! » fece alzare un coro di piccole
risate che sembrarono
un grande e rumoroso ronzio « Allora, cominciamo da qui.
» indicò il bambino in
prima fila, più attaccato al muro di destra, dalla parte
della porta « Come ti
chiami piccolo? »
Il bambino di
colore con i capelli neri come il carbone racchiusi in tante piccole
trecce
sussultò imbarazzato e quasi si poté vedere uno
spruzzo di rosso d’imbarazzo
sulle sue guance scure.
«
M-Mi chiamo
Leonard. » disse con un filo di voce che fece tendere le
orecchie a tutti i
presenti per sentirlo meglio.
«
Bene,
Leonard. Immagino che tutti ti chiamino Leo, non è vero?
» chiese il maestro
con informalità.
«
Sì! »
sorrise il piccolo, mostrando il contrasto tra i denti bianchi ed il
colore
della pelle, scura come i suoi capelli e come gli occhi.
«
Cosa ti
aspetti dalle scuole elementari? »
« Beh
… Credo
cose difficili da imparare … » la sua voce si
riabbassò di volume in un batter
d’occhio.
« Non
saranno
tanto difficili, se v’impegnerete. E spero che sia chiaro per
tutti, perché se
la roba che imparerete qui sarà difficile secondo voi, ma
solo per adesso,
aspettate di vedere il liceo e vedrete come rideremo! »
cominciò a girare per i
banchi.
« Tu,
» indicò
una bambina coi capelli castani e lisci raccolti in una coda lunga,
piccola nel
suo vestito rosa shocking « come ti chiami? »
«
Ashley. »
rispose la bambina sicura di sé.
« Mi
sembri
determinata, Ashley. Non vedi l’ora di diventare grande e far
vedere a tutti la
tua intelligenza, non è vero? »
« Lo
farei
subito! » rise la bambina, mostrando un dente mancante.
«
È così che
si fa! » esultò il giovane maestro che si era
laureato in filosofia l’anno
prima, trovando lavoro la stessa estate in quell’istituto
« Mostratemi fin da
subito di che pasta siete fatti. Ora, ogni volta che vi
chiamerò fatemi vedere
la vostra grinta, sempre se l’avete … Tu,
lì in cima! » indicò i banchi in
prima fila, verso il lato sinistro, dove i due bambini che lo fissavano
ebbero
un infarto non capendo a chi si riferisse.
«
I-Io? »
chiese timidamente Michael.
« No,
prima
l’altro, ma poi arrivo pure da te. Come ti chiami, ricciolo? » fece ridere tutti i
bambini, eccetto il ricciolo in
questione che diventò rosso
dall’imbarazzo.
« Io
mi chiamo
Chester. » rispose con voce cupa e con freddezza, ma non
quella freddezza da
chi è pronto a tutto, ma da chi ha voglia di uccidere.
« Oh,
Chester
… Mi sembri un ragazzo scontroso, o mi sbaglio? »
ma il bambino si limitò a
scuotere lentamente la testa in segno di dissenso « Che ti
aspetti da questa
scuola? »
«
Tanta noia.
» rispose sinceramente.
Il silenzio
calò tra i diciotto bambini e l’adulto, tutti
mentre fissavano sbalorditi il
bambino che aveva dette semplicemente ed innocentemente ciò
che pensava e ciò
che credeva vero.
« Mi
dispiace
che la pensi così … » riprese a parlare
l’insegnante « Sai, Chester, lo studio
sembrerà noioso, anzi lo è. » si
avvicinò alla prima fila, ponendosi davanti al
suo banchi e chinandosi su un ginocchio per averlo alla stessa altezza.
«
Nessuno in
questa classe, in questa scuola, in questo paese, mondo e universo,
vorrà mai
sostituire una partita a calcio con un ora di studio di storia o di
matematica.
Appena aprirai il libro ti verrà subito voglia di chiuderlo,
capiterà a te come
capiterà a lui. » indicò Michael che
sussultò nell’essersi sentito mettere in
mezzo alla discussione
« Ma
sai qual
è il problema? È che tutti
t’insegneranno le cose in modo noioso, in modo da
fartele odiare, ma tu dovrai studiarle per forza per avere un futuro.
» si
rialzò in piedi avvicinandosi alla lavagna ed afferrando un
gessetto.
« Io
invece
cercherò ad insegnare a tutti quanti in modo divertente,
perché non voglio che
odiate ogni singola cosa che dovrete imparare. »
disegnò due cerchi bianchi,
uniti in un punto in cui uno entrava nell’altro.
«
Sapete cosa
sono questi? » chiese alla classe.
«
È un sedere!
» rispose un bambino dai capelli rossi infondo alla classe,
scatenando la
risata di tutti.
«
Beh,
vedetela così: questo sedere è composto dalla
chiappa destra con tatuati i
numeri dodici, dieci, cinque, sei, nove. » scrisse quei
numeri nel primo
cerchio « E nella chiappa sinistra invece ci sono tatuati i
numeri quarantacinque,
due e diciotto. »
I bimbi
guardavano la mano del loro maestro muoversi sulla lavagna disegnando
quei
numeri che per alcuni di loro erano alti, in quanto sapevano contare
fino a
cento.
«
Cosa fate
voi, quando avete mangiato tante cose e dopo un po’ dovete
andare in bagno? » silenzio,
solo i visi rossi di vergogna dei bambini fece capolinea alla domanda
« Suvvia,
non siate timidi! Uno di voi ha appena detto che questa cosa di
matematica
sembra un sedere! » li fece di nuovo ridere, mentre alcuni di
loro si
chiedevano se veramente quella buffonata fosse una lezione di
matematica.
«
Facciamo la
cacca. » rise Chester, mostrando uno splendido sorriso sulla
sua faccia di
bambino.
« Oh,
visto
che le cose le sai e che non ti annoiano? Ritornando a noi, lo so che
è una
domanda stupida dato che siete piccoli, ma chi sa le tabelline?
»
I piccoli
studenti si guardarono confusi tra di loro, non capendo di cosa stesse
parlando. Ma una piccola mano si alzò in aria in modo
composto ed una leggera
voce disse « Io. »
«
Bene, l’avevo
detto io che sarei arrivato a te prima o poi. Come ti chiami?
»
«
Michael, ma
tutti mi chiamano Mike. » disse con un filo di voce, quella
fievole voce
candida.
«
Bene
Michael. Mi sai dire, allora, quali tra questi tre numeri nella chiappa
destra,
moltiplicato per un altro numero, è uguale a quarantacinque?
» chiese il
docente, mentre il piccolo Michael cominciò a vociferare
sotto voce tra sé e
sé, dicendo un susseguirsi di numeri in un modo che agli
altri pareva confuso.
Infatti anche il suo nuovo compagno di banco lo squadrò
perplesso.
«
Trenta,
trentacinque, quaranta, quarantacinque … Il cinque!
» esultò sicuro di sé.
«
Bravissimo,
il numero cinque! E con quanti numeri si moltiplica? »
« Con
il …
nove? » chiese con la paura di aver sbagliato.
«
Giusto! E
adesso lo mettiamo qui. » disse scrivendo un nove nel punto
in cui i due cerchi
s’incontravano « Adesso … Sapresti dirmi
quali numeri, presenti qui,
moltiplicati fra di loro fanno diciotto? »
Lo sguardo di
Michael passò ripetutamente quei due insiemi di numeri,
leggendoli e
rileggendoli, cercando di capire quali due componessero la risposta
giusta,
facendo un miliardo di semplici calcoli a mente che per lui sembravano
difficilissimi, quasi impossibili.
« Il
due … ed
il … nove? » chiese con fievole voce.
«
Ottimo! Ma,
dato che il numero nove è già pronto per finire
nel water, noi non lo
scriviamo. »
La campanella
della scuola squillò rintronando tutti i bambini con il suo
suono stridulo e
fastidioso, facendoli saltare tutti per aria per lo spavento e
avvertendo tutti
quanti che era passata mezz’ora ed era il momento del cambio
d’insegnante e
dell’intervallo.
«
Beh, è un
peccato doverla finire così, dopotutto ci stavamo divertendo
… » disse
dispiaciuto il giovane maestro riponendo la sua roba nella semplice
borsa di
lavoro in canapa verdastra « Almeno vi ho dimostrato, anche
se per poco, che
imparare non significa annoiarsi! » fece un occhiolino ad il
piccolo Chester
che sorrise imbarazzato grattandosi la testa.
« A
domani … Ah,
ho un compito per voi. » tutti i piccoli alunni tirarono
fuori dai loro zaini i
propri diari dei super eroi o della Barbie « Domani, fate una
piccola
presentazione su di voi, su cosa vi piace fare, il vostro passatempo
preferito,
la vostra famiglia, di tutto! Parlate di voi stessi. E adesso potete
godervi in
pace la vostra prima ricreazione da bravi scolari. »
Tutte le
matite ricedettero sul banco dopo essere state abbandonate dalle
piccole mani
dei bambini, che subito cominciarono a ravanare nei propri zaini alla
ricerca
delle loro merendine, dei succhi di frutta o di altro di commestibile e
sfizioso.
Ma Chester non
fece nient’altro che fissare i suoi nuovi compagni guardare
meravigliati i loro
snack lasciati dalle proprie mamme la sera prima quando gli prepararono
la
cartella, perché lui invece non poteva permettersi anche
qualche cosa da
mangiare in più, sarebbe stato come uno spreco in quanto era
benissimo capace
di arrivare all’ora di pranzo.
C’era
chi si
alzava semplicemente e chi usciva addirittura dalla classe, per andare
a
salutare qualche suo vecchio compagno d’asilo che era stato
messo in un’altra
sezione, c’era chi andava in bagno o chi girovagava per i
corridoi, stando
sempre sotto lo sguardo del proprio docente, oppure chi restava
tranquillamente
al proprio posto.
I due bambini
della prima fila al centro, con lo zaino uguale, tirarono fuori due
merendine a
loro volta identiche ridendo di fronte alla loro uguaglianza. La
piccola Ashley
dal vestito rosa si alzò solamente per poi risedersi
affianco ad un’altra
bambina dal vestito azzurro come il cielo del primo mattino, candido,
che
risaltava il colore dei suoi capelli di color castano intenso, con un
sorriso
stampato sulle piccole e sottili labbra quando vide la sua amica
sedersi
affianco a lei.
Leo, il
bambino di colore, rimase seduto al suo banco, contemplando la brioche
della
Ferrero tra le sue piccole mani. Il bambino dai capelli rossi era
troppo
impegnato a scarabocchiare il proprio banco con i pennarelli per poter
consumare il proprio cibo al cioccolato che gli si stava sciogliendo in
mano.
Il bambino dai
capelli boccolosi quasi si schifò di fronte a tutto quello
spreco di cibo e
d’inchiostro, non riusciva a credere che veramente certi
bambini fossero così
viziati e così ingenui da usare e sperperare cose che per
altri magari sono
impensabili.
Due
bustine di cocaina,
pensò con frustrazione il piccolo che già aveva
conoscenze con quelle brutte
sostanze. Forse anche tre e potrei pure
io possedere così tanti pennarelli.
Non che avesse
già avuto esperienze con certe sostanze stupefacenti, ne
aveva solo già sentito
parlare da suo padre, che a volte incastrava vari spacciatori illegali
in giro
per la città. Ed il piccolo, ascoltando i vanti del
genitore, aveva capito col
tempo cos’era la cocaina, a cosa serviva, quanto poteva
costare e particolarmente
quanto fosse desiderata, soprattutto nel suo quartiere malfamato.
« Tu
non ce
l’hai la merenda? » una piccola voce lo
richiamò al suo fianco, era il suo
compagno di banco dagli occhi a mandorla che gli aveva chiesto il
motivo del
suo digiuno, non capendone il perché.
« No.
» in
quel momento le loro voci sembravano così uguali, candide e
squillante, come i
bambini che erano.
« E
perché? »
« Mio
padre
dice che dobbiamo risparmiare, e che posso anche non mangiare quando
siamo a
scuola, tanto poi pranziamo. » rispose sinceramente, non
badando al fatto che
gli stava praticamente descrivendo la sua grave situazione economica.
« Ne
vuoi un
pezzo? » chiese allora Michael, porgendogli metà
della sua merenda fatta da due
fette di pan di spagna ed in mezzo una glassa rosea quasi rossa di
ciliegia che
oltre alla dolcezza rilasciava anche asprezza.
«
Grazie. »
abbozzò un sorriso cercando di nascondere la sua espressione
sorpresa nel
vederlo così gentile e disposto a condividere la sua roba.
Non gli era
mai capitato, lui era cresciuto in un mondo di avarizia ed egoismo,
sapeva che
tutti i bambini erano stronzi, pronti a sputtanarlo appena potevano e
metterlo
nei casini, prenderlo in giro per ogni suo minimo difetto,
discriminarlo per
cose di cui non aveva colpa, emarginarlo e fargli odiare la vita
nonostante la
tenera età. E tutte quelle cose le aveva vissute sulla sua
pelle.
Ma adesso
c’era un bambino che non lo derideva per i capelli, per le
lentiggini, per i
suoi problemi familiari. Anzi, gli stava offrendo del cibo, anche se
era in
quantità minima, cosa che però a lui
importò poco dato che s’interessò
più che
altro per il gesto.
Il pezzetto
finì subito tra le sue fauci, masticandolo e assaporandosi
il suo gusto per
bene, sentendo lo zucchero ed il colorante invadergli la bocca.
Solo una volta
aveva sentito quel gusto, quando l’ultimo giorno di scuola
all’asilo, l’anno
prima, avevano fatto una piccola festa per le classi che non avrebbero
più
frequentato quella scuola. C’era un tavolo basso e lungo,
pieno di tante
scodelle riempite di patatine e dolci, tra cui alcune caramelle alla
ciliegia.
Quella fu la
prima volta che partecipò ad una festa, nessuno
l’aveva mai invitato, perché
lui era sempre stato odiato da tutti i suoi compagni che a sua volta
lui
odiava. Ma non perché lui era cattivo e scorbutico, ma
perché loro lo facevano
diventare prepotente ed irascibile.
Le loro
piccole testoline che tanto avrebbe voluto spaccare non conosceva
ancora la
parola ‘tatto’, e quindi ogni volta che aprivano
bocca per sfotterlo non riuscivano
a contenersi.
« Ti
piace? »
chiese Michael vedendolo con lo sguardo perso.
«
Sì, mi piace
la ciliegia! » sorrise.
«
Piace tanto
anche a me. » sorrise a sua volta compiaciuto per i loro
gusti in comune « Come
ti chiami? »
«
Chester
Bennington, tu? »
« Io
Michael
Shinoda, ma mi puoi chiamare Mike. »
« Ti
piace
Goldrake? » chiese il piccolo Chester vedendo il diario
rappresentante Actarus,
il protagonista, con il suo robot alle spalle, alto e possente.
«
Sì! »
afferrò il suo grande diario, sfogliandolo assieme al suo
nuovo amico.
Amico, persona che Chester
non
aveva mai avuto veramente. I suoi ‘amici’
dell’asilo erano solo un gruppo di
bambini, tra maschi e femmine, che tendevano a metterlo sempre in
disparte.
Il suo vero ed
unico vero amico rimasto era il suo cuscino, l’unico che lo
accoglieva ogni
volta che piangeva.
I venti e
passa minuti di pausa passarono così in fretta che
sembrarono quasi la metà,
proprio perché i due bambini si divertirono tra di loro,
anche stando
semplicemente seduti, guardando solamente un diario e commentando i
personaggi
e la trama di quell’anime.
Di nuovo la
campanella stridente richiamò l’attenzione di
tutti gli alunni che, borbottando
fragorosamente, se ne ritornarono dietro ai propri banchi bassi.
«
Bene, è
stato un piacere conoscervi. » disse il maestro Norton
prendendo in mano la sua
borsa « Ricordatevi di fare i compiti, perché
è una regola importante svolgere
sempre gli esercizi che si danno per casa. Fate i bravi con il signor
Way, è un
ottimo insegnante di matematica, anche se … Che rimanga tra
noi … » sussurrò
alla classe « È una persona noiosissima!
» fece ridere i piccoli che però non
erano entusiasti di dover aspettare il giorno seguente per assistere ad
una
nuova lezione di quel giovane uomo.
I piccoli Mike
e Chester quel giorno non sapevano ancora che figura importante sarebbe
poi
diventata per loro quella persona, così importante e che
avrebbe lasciato il
segno dentro ai loro innocenti e piccoli animi. Le parole che avrebbe
detto nel
corso di quei anni sarebbero diventate fondamentali per entrambi, per crescere e soprattutto per capire.
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