Hunger
1965
Fame.
Sono
spaventosamente affamato.
Non riesco a
pensare ad altro che non sia questa tenue scia che si dipana
nell’aria.
Tiepida,
dolce, morbida.
Carne.
Carne di
bambino.
Sono troppo
vicino alle abitazioni, agli umani, ma non riesco a trattenermi. Non
voglio trattenermi.
Le luci sono
tutte spente. Le finestre occhi vuoti senza palpebre.
Quella al
piano terra è aperta.
Mi lecco le
zanne.
Entro.
Seguo
la traccia che mi arpiona le narici come un amo, quasi trascinandomi su
per le scale, al piano superiore, alla cameretta che si affaccia sul
corridoio immerso nel silenzio.
Mi
avvicino al lettino senza smettere di stuzzicarmi i canini con la punta
della lingua.
Posso
già pregustare il sapore del sangue in bocca, nel fiotto
caldo di saliva che improvvisamente la riempie.
E'
quest'odore.
Mi fa impazzire.
I
miei artigli strisciano sul copriletto chiaro, a disegni azzurri di
cavalli a dondolo. Sento il mio stesso respiro affannoso stridere tra
le fauci socchiuse, mentre mi sporgo in avanti. Afferro un angolo della
coperta e la tiro lentamente via, attento a non svegliarlo.
I
miei occhi setacciano il corpicino ignaro, alla ricerca del punto
più morbido in cui affondare. Ma è tutto
incredibilmente morbido e invitante, ogni singolo centimetro che
fuoriesce dagli orli del pigiamino celeste.
Con
una zampa pelosa sfioro i capelli biondi del bambino, scendo
giù lungo la tempia, seguendo il rilievo di una vena
azzurrina, lungo l’orecchio e la tenera gola pulsante che
sparisce nel colletto, con mio disappunto.
Il
bambino dorme a pancia in su. Sembra tranquillo.
Forse
posso osare di più.
La
mia zampa corre al bordo della maglietta e la solleva, scoprendo la
pancia, che si alza e si abbassa con regolarità.
L’eccitazione comincia a pizzicarmi sulla pelle. Sento la
pelliccia drizzarsi su tutto il corpo, dalle orecchie alla punta della
coda.
Il
torace del bambino è un cilindro di rosea carne delicata.
Quando espira, la pelle si affossa al di sotto delle arcate costali,
evidenziando il punto esatto in cui queste convergono in avanti sullo
sterno. Potrei squarciarlo immediatamente al di sotto di questo punto,
spingergli le dita al di sotto della cassa toracica e in alto, un
po’ più in alto, fino ad afferrargli il piccolo
cuore. Strapparglielo via ancora pulsante.
Non
avrebbe neppure il tempo di gridare.
Quanto
ci metterei? Una manciata di secondi, non di più.
L’ho fatto centinaia di volte.
Ma
prima di ucciderlo voglio godermi un altro po’ questo
delizioso calore palpitante di vita.
Dopo,
diventano freddi e rigidi — troppo in fretta, per i miei
gusti.
Non
mi piacciono freddi e rigidi. Preferisco sentirli vivi sotto
le zanne.
Se
gli lacerassi la gola morirebbe troppo in fretta, lo spasso si
esaurirebbe decisamente troppo presto. E mi ritroverei più
affamato di prima.
Sono
così maledettamente fragili, questi bambini. Se li stringi
un po’ di più, si sbriciolano le ossa.
La
mia zampa gli circonda il cranio nella sua interezza. Potrei farglielo
scoppiare come un frutto maturo, con una minima insignificante
pressione, usando un decimo della mia forza. Ma non sono qui per
questo. Sono qui per il sangue. Voglio assaggiarlo, prima di ucciderlo.
Scelgo
accuratamente un punto non vitale. Gli prendo il braccio sinistro. Gli
tiro su la manica. Sorrido prima di chiudere la tenaglia delle mie
fauci sull’incavo liscio all’interno del gomito.
Un
urlo acuto frange il silenzio. La mia piccola, deliziosa preda
è sveglia. Mobile, terrorizzata, sofferente.
È
così che li voglio. Vinti.
Il
vero trionfo è la paura impotente nei loro occhi.
Ma
dura troppo poco. Rumori allarmati dall’altra stanza. Una
luce si accende in corridoio, filtra sotto la porta. Le mie labbra
scivolano sulla pelle del bambino, mentre ritraggo in fretta le zanne.
Troppo in fretta: lo squarcio si allarga, vomitando nuovo sangue.
Mi
ci vuole tutto il mio controllo per strapparmi via da lui, per
impedirmi di continuare a succhiargli via ogni goccia fino a lasciargli
le vene asciutte come un torrente in agosto. Istinto di conservazione.
Dicono che sia più sviluppato, in quelli come noi.
Scavalco
con un balzo il letto, fiondandomi verso la finestra. Ancor prima che
possa raggiungerla, il vetro si rompe con uno schianto assordante,
colpito da un getto di luce rossastra. Guadagno il varco appena in
tempo: un secondo getto mi sfiora la spalla destra, strinandomi i peli
e diffondendo intorno un secco odore di bruciato. Atterro a quattro
zampe nel giardino della casa e me la batto silenzioso e fugace come
un’ombra nel buio, inseguito da maledizioni e imprecazioni
vane.
Un
urlo di donna — la madre, presumibilmente —
squarcia il silenzio. Nel silenzio la luna continua ad ammiccare,
complice.
Urla
e continua ad urlare. Sembra che non voglia più smetterla.
Musica, per le mie
orecchie.
«Per
Merlino! L’ho mancato di pochissimo!»
L’uomo
si strappa i capelli a ciocche per la rabbia, digrigna i denti,
calpesta schegge di vetro che ricoprono il pavimento. Poi si volta, con
espressione atterrita. Il suo sguardo corre inorridito dalla moglie al
figlio.
La
donna fissa due occhi immobili e annientati sul bambino. Il piccolo
piange, singhiozza e si lamenta a bassa voce, mentre gli occhi dei suoi
genitori rifiutano di cogliere il significato della scena, del
copriletto insanguinato, del pigiama insanguinato.
Il
bimbo è rannicchiato al centro del letto, nella pozza umida
della sua urina, nell’odore greve e bagnato di sudore e
terrore. Si dondola ininterrottamente su se stesso, gli occhi sbarrati,
il volto deformato dalle lacrime. Si stringe al petto il braccio
ferito, da cui continua a sgorgare copiosa la vita.
I
suoi genitori sono troppo scioccati per fare alcunché.
Passano minuti cruciali. Sua madre non osa nemmeno toccarlo.
È suo padre che si riscuote, lo prende in braccio, lo
avvolge in una coperta, pulita, e si precipita fuori dalla stanza,
fuori di casa, senza curarsi di essere in pigiama, di essere spettinato
e sotto shock, di avere l’aspetto di un cadavere redivivo.
Sa
che non storceranno il naso per quello, al San Mungo. Non gli
chiederanno perché non si sia preoccupato di rendersi
più presentabile.
Spera
solo che ci sia ancora speranza per suo figlio. Spera che si salvi. Ha
intravisto la cosa che gli ha fatto male, mentre scappava. Enorme,
irta, feroce. Sa cos’è successo. Dicono che quelle
ferite siano maledette. Dicono che non ci sia scampo al destino che
recano con sé le zanne di un lupo mannaro.
Ma
in questo momento non gli importa se suo figlio diverrà o
meno un licantropo. Gli interessa sapere se sopravvivrà.
Rimane
al suo capezzale per tutta la notte, finchè non viene
dichiarato fuori pericolo. Sulla scheda di dimissioni, cinque giorni
dopo — hanno voluto trattenerlo per degli
“accertamenti”, inutili, l’ha capito
anche lui, come l’hanno capito i Medimaghi, perché
la diagnosi è irrefutabile —
c’è scritto: affetto
da licantropia.
Legge
e rilegge quelle parole cercando di darvi un senso, sforzandosi di
lasciarle penetrare nell’intontimento e nella negazione che
gli permeano la mente come un Incanto Testabolla, strenuo quanto
patetico tentativo di proteggersi dalla verità. A poco, a
poco essa si sedimenta sul fondo della sua mente, col tonfo pesante e
sordo di massi nel greto di un fiume.
Ora
non gli sembra più un incubo. Ora l’incubo
è diventato realtà.
Si
volta a guardare suo figlio che dorme tranquillo. È tale e
quale a prima, solo più pallido, gli occhi più
infossati, le guance meno floride. Lo sguardo più grigio
— lo sguardio di un vecchio. Ogni tanto gli sembra di vederci
lampeggiare del giallo; da' la colpa a una immaginazione irrequieta.
Remus
non sa che quella notte ha rischiato molto più che la
trasformazione in licantropo.
È
un miracolo che sia vivo.
I
suoi genitori lo sanno, razionalmente. Sanno che devono essere grati
per questo, ma è difficile far accettare l’assurda
verità al loro cuore, che emette uno scricchiolio ogni volta
che i loro sguardi si posano sul bambino. Precocemente segnato, dannato
per sempre.
Si
chiedono se se la caverà. Da quella notte, la sua salute
è andata deteriorandosi prematuramente, senza che possiano
ovviare a ciò.
E
rabbrividiscono al pensiero di quello che dirà la gente: i
vicini, gli amici, i parenti…
"David, vieni qui. Non devi
giocare con quel bambino. Quante volte te lo devo ripetere?"
Sono
marchiati insieme al loro figlio. Nessuno vorrà
più avere niente a che fare con loro.
"Signori, ci dispiace, ma
riteniamo che questa scuola non sia adatta a vostro figlio...
Sicuramente in un altro istituto... insegnanti più
tolleranti, di ampie vedute... Cercate di capire..."
Tranquilli,
se la caveranno. Si riesce sempre a cavarsela. In un modo o
nell’altro. Dipende tutto da chi incontri lungo la strada.
Ogni tanto, capita qualcuno che ti tende una mano.
"Remus,
è arrivata una lettera per te."
"Nessuno
mi ha mai scritto, mamma."
"Viene
da Hogwarts. Qualcuno ha parlato di te ad Albus Silente."
Dipende
tutto da chi incrocia il suo cammino col tuo.
***
1998
Io non sono come lui.
Io sono una brava persona.
Sono un uomo con un...un
problema, ecco.
Non farei del male a una
mosca.
C'è luna
piena, stanotte.
Ma io non sono come lui.
Sono un uomo buono, sono
una brava persona.
Eccola la luna, la vedo...
Non sono come
lui. Non sono come lui...
Il
bambino è nella culla.
Non
ha capelli biondi, ma azzurro cielo. E l’odore è
lo stesso di quello inspirato avidamente da Greyback, una notte di
tanti anni fa.
Solo
che adesso l’ombra che si tende sul sonno innocente non
è quella di uno sconosciuto licantropo fuori controllo, ma
quella di suo padre. Occhi
uguali ai suoi, cerchiati e stanchi, viso come appassito, il colorito
grigiastro di un budino rancido.
Manca
un giorno alla luna piena. Il cerchio di carta velina, nel cielo,
è quasi completo.
Da
quando è nato Teddy, ogni mese è un incubo. In
genere, prima della trasformazione, non accusa alcun sintomo. Ma con i
neonati, ha scoperto a sue spese, è diverso. Il loro profumo
è intenso e fa sbatacchiare qualcosa nel suo stomaco, come
un pesce che si dibatte all’amo. Resuscita istinti sepolti,
esecrati. Evoca brutti ricordi, cattivi pensieri, marciti e guasti a
furia di ristagnare nel fondo, mai dissotterrati.
La
notte prima del plenilunio, l’odore raggiunge il picco. E con
esso quel desiderio perverso eppure primordiale che gli fa venire
voglia di strapparsi a brandelli la sua stessa carne, tale è
il disgusto per se stesso che gli suscita il solo pensiero di poter
attaccare suo figlio.
Si
controlla, è ovvio. Prende la Pozione Antilupo per
minimizzare gli effetti più disastrosi della trasformazione.
Ma non scompaiono del tutto gli istinti ferini.
Le
notti che precedono immediatamente il plenilunio sono le peggiori.
Lo
sveglia l’odore di bambino. Così intenso che
riesce a sentirlo attraverso muri e porte chiuse. Copre anche quello
altrettanto fresco ma diversamente allettante di Dora, al suo fianco.
Lo induce a mettere i piedi fuori dal letto, ad alzarsi, attraversare
il corridoio, andare da lui.
Ogni
volta si ripete.
Remus
non lo sfiora nemmeno. Si limita a vegliarlo in silenzio fino
all’alba, combattendo contro i propri incubi e i fantasmi
della sua mente. Dora non ha mai sospettato niente. A volte, quando
alzandosi nel cuore della notte lo ha trovato nella stanza di Teddy,
lui ha inventato di averlo sentito piangere. Lei non si preoccupa: si
fida di lui, e come non potrebbe, dal momento che, di giorno e lontano
dalla luna, Remus è il papà più
fantastico che si possa desiderare per un figlio?
Lui
ha troppa vergogna per confidarle ciò che prova.
È
troppo inorridito da se stesso per fermarsi ad analizzare quanto
l’odore della carne di suo figlio gli solletichi
prepotentemente il palato, perfino quando è ancora in
spoglie umane.
Si
fa schifo.
Si
detesta.
Si
maledice.
Vorrebbe
tornare indietro, non aver sposato Dora, non aver concepito Teddy.
Vorrebbe
che Greyback lo avesse ucciso, in quel remoto 1965.
Morire, piuttosto
che diventare come lui.
Perché
è proprio come lui che si sente, mentre trattiene il fiato a
lato della culla, per attenuare la tentazione profumata che inspira
insieme all’aria. E' così, purtroppo. Deve
ammetterlo.
Si
controlla.
Gronda
sudore e sangue, ma i suoi tentativi sembrano non portare a nulla.
Invece di fortificarsi, sente scivolare via le energie, la
volontà.
Sopporta,
ma senza forza. Accetta in stoico silenzio la tortura, l'ennesima.
Lascia che affondi i denti nel suo cuore. Si sente maciullato, un
pezzetto alla volta, non ce la fa quasi più a trattenere il
fiato, sul punto di esplodere i polmoni, di schizzargli fuori dalle
orbite gli occhi. Da dentro gli preme la bestia, ruggendo e raspando
per uscire. Scuote forsennata le catene, gli pianta gli artigli a
fondo, graffiando, scorticando, ansando, schiumante di rabbia.
Distoglie gli occhi dal fagotto angelicamente addormentato nella culla,
ma non perde di vista la bestia.
La
sente urlare dentro di sé. Sente la sua ferocia sollevarsi
come un polverone, accartocciargli scariche elettriche lungo le membra.
A
un certo punto, l’Uomo teme di avere la peggio. La bestia
è troppo forte. E lo sa. Percepisce il ringhio famelico
tramutarsi in ghigno di trionfo. Quelle zanne giallastre, scoperte
nell’esultanza, gli fanno tornare nella pelle
l’orrore di se stesso; nel cuore il ricordo, mai sopito, di
altre zanne. Il loro morso d'acciaio.
Scuote
la testa, come a liberarsi dall’immagine, dalla sete di
violenza non sua che gli rumina dentro.
La
vede davanti a sé, chiara come una stella nel buio, la belva
proiettata dal suo inconscio tormentato e fiaccato, la guarda, occhi
negli occhi. Si tuffa nelle iridi giallastre, segate a metà
dalle immobili pupille verticali, asole nere conficcate in un pallore
vitreo, iniettato di sangue. E' talmente vicino da vedere ogni singolo
capillare, enfiato e tortuoso, disegnarsi sulle sclere; da assorbire
l’odore denso, rivoltante, intrappolato nella pelliccia
incrostata; da udire il ringhio basso che crepita dietro la muraglia di
zanne scheggiate, scalfitte, rose, ma sempre letali.
Resta
inerte a specchiarsi negli occhi fissi del lupo. A rivedere se stesso
in quello. A osservarsi per la prima volta dall’esterno,
com’è realmente, spogliato di fronzoli, di
paramenti. Caduto anche l’ultimo velo, la verità
gli viene incontro nella forma di un gigantesco mostro.
È
questo che è. Un mostro. E niente
potrà cambiare la verità.
La
bestia si avvicina. Ringhia.
Vede
il muso arricciarsi,il pelo eretto sulle pieghe di carne che si
sollevano a scoprire i lunghi canini.
Fa
un gesto debole con la mano, senza nemmeno accorgersene. La muove
fiacca davanti a sé, senza reale intenzione, come ad
allontanare da sé quell’immagine con la sola forza
del pensiero. Rispedirla, così, nella bocca degli incubi che
l’ha risputata.
Poi
il ringhio diventa più sonoro. Cambia tonalità.
Si spezzetta in una risata trattenuta, ansante.
Sto impazzendo,
pensa. Non sono io. Non posso essere io.
E
allora perchè gli sembra di aver atteso questo momento tutta
la vita? L'ora in cui avrebbe finalmente fatto i conti con la parte di
se stesso che non ha mai accettato?
E'
stato questo il suo sbaglio. Non l'ha mai affrontato faccia a faccia,
ergo non ha mai potuto imparare a dominarlo completamente.
Il
lupo ride. La risata cresce in altezza, fino a diventare
così forte, così piena da riempirgli
completamente le orecchie. Urta dolorosamente, ripetutamente,
ritmicamente, contro i timpani, sbalzata indietro con coraggio, ma una
parte di quel suono tremendo gli si insinua dentro, frugando e trovando
buchi sconosciuti, microscopici anfratti, invisibili meati in cui
scivolare.
Lo
terrorizza quella risata, perché sente che non gli lascia
scampo.
Lo
domina quella paura. Paura di finire sconfitto.
Sente
che stavolta deve piegarsi. Sente che la sua umanità
è un lenzuolo troppo teso, troppo liso. Si squarcia al
centro, lo strappo si allarga, corre, corre, fino agli angoli,
centimetro dopo centimetro si lacera.
Del
liscio sotto le sue dita. Qualcosa gli sfiora la faccia.
Ma
i suoi occhi non vedono, immersi nell’oscuramento.
Se
potesse guardarsi allo specchio, in questo momento, vedrebbe quel
sorriso folle che gli stira le labbra, come se un bisturi
gliel’avesse inciso sulla faccia, preciso e trasversale,
margini netti, immobile; le narici dilatate, anch’esse
paralizzate nel catturare l’odore.
Quell’odore. Lo fa
impazzire.
Gli
sembra una scena già vista. Non può sottrarsi.
Non può neppure chiudere gli occhi; è
immobilizzato, incollato, privato della volontà, risucchiato
di tutte le sue forze. Non può far altro che aspettare,
impietrito, e guardarsi fare scempio di se stesso. Guardare le sue
stesse dita muoversi insistenti sul liscio senza macchie, come
pattinatori su una lastra di ghiaccio. Indecise, insistenti, perverse.
Fare ombra al sonno disteso, alla fronte liscia di quel minuscolo umano
in culla.
All’improvviso
il neonato solleva le palpebre. Scivola con gli occhi di torbido
azzurro nei suoi e rimane lì, sospeso nelle sue pupille, in
un’attesa senza tempo né spazio, tra un battito e
l’altro.
È
assurda l’immagine che gli rimanda la sua mente sconvolta: se
stesso a un lato della culla e l’enorme lupo mostruoso
dall’altro.
Sto impazzendo. Sono impazzito.
Qualcuno mi aiuti...
Sa
che è solo un fantasma della sua coscienza turbata.
Sa
che, se guardasse bene, non vedrebbe alcuna ombra proiettata dalla
bestia sul rettangolo di liquida luce lunare del pavimento. Non ha
peso, non ha corpo. Non è materia. Non esiste, se non
nell’universo parallelo che si svolge dentro di lui. E'
lì che deve ricacciarlo. Lì dove appartiene. Il
suo posto non è qua. Non vicino a suo figlio.
Uno
sbattere di palpebre e ritorna se stesso. All'improvviso, come se
qualcuno gli avesse riacceso dentro il lume della ragione. Il velo
purpureo che gli adombrava la vista si solleva, è
squarciato. Ora può vedere. Cosa vede?
La
stanzetta affollata di giocattoli. Le pareti meravigliosamente linde,
terse, sgombre. Il buio le tinge di grigio, ma sa — ricorda
— che in realtà sono verde mela. L’ha
scelto lui personalmente quel colore per la stanza di suo figlio,
quando ancora scalciava come un diavoletto nel ventre placido di sua
madre. Dora aveva storto il naso: lei avrebbe preferito un colore
più vivace, ma lui, onestamente, non poteva permetterle di
infilare un bambino appena nato in una scatoletta fucsia o arancione
violento. L’avrebbe fatto crescere nervoso e iperattivo. Ci
avevano riso su.
Vede.
Ora vede tutto.
Tremano
le sue mani mentre le ritrae lentamente dal neonato che continua a
guardarlo tra le palpebre socchiuse.
Il
ghigno inconsulto che gli deformava la bocca si ritrae
anch’esso, seppellendosi sotto le labbra, lasciando una
smorfia di raccapriccio, di incredulità.
La
vergogna lo afferra, brucia. Lo lascia annichilito, il petto
palpitante. Si copre gli occhi con le mani che non smettono di tremare
nemmeno quando si preme le dita sulle orbite, schiacciando la pelle
contro l’osso, desiderando poterlo perforare con le unghie,
attraversare il cranio, penetrare fin nel cervello, per strappare
fuori, estirpare, il verme che lo fa marcire dall’interno.
Il
lupo è ancora là, sente il respiro pesante, roco,
muoversi intorno al perimetro della sua mente, costeggiare le difese,
cercando un varco per potersi insinuare, per poterlo attaccare di
nuovo. Ma stavolta incontra bastioni solidi; resistono.
Il
lupo viene respinto. I suoi contorni iniziano a sfumare. Il suo ringhio
si fa più rabbioso mentre avverte la sconfitta, ma ormai
perde forma. Le linee si dilatano, i colori si diluiscono, i dettagli
stingono, confondendosi sempre più con il muro alle sue
spalle. Alla fine, solo gli occhi rimangono. Della bestia assassina,
della colpa acquattata, solo le sclere iniettate di sangue, conficcate
nell’irto della pelliccia scura, raggrinzita, contratta
ancora nel ringhio ostinato ma sconfitto.
Strizza
forte le palpebre dietro i palmi delle mani. Forte, più
forte che può.
Non
si rende nemmeno conto quando il silenzio si sostituisce al vibrare
minaccioso della bestia. Se n’è andato?
Non
si fida. Il lupo potrebbe essersi nascosto. Potrebbe essersi rintanato
in un angolo per tendergli un agguato. Potrebbe essere andato ovunque.
Potrebbe essere lì, da qualche parte, ad aspettare che
abbassi la guardia per sferrargli un altro micidiale attacco.
Poi
sente un gorgoglio che somiglia tanto a una risata. Ecco, lo sapeva,
è ancora lì la bestia, pronta ad afferrarlo, a
farsi beffe dei suoi ingenui soprassalti di umanità
colpevole.
Ma
non può appartenere a una bestia quel suono così
puro, così fresco. È vetro che tintinna sottile
sfiorato dalle dita del vento. Conosce quel suono.
Spia
fra le dita in cui ancora nasconde il viso, come un bambino atterrito
di fronte all’orco delle fiabe. Come molte, moltissime volte
si è risvegliato bambino, inzuppato dal sudore gelido, unico
strascico di un incubo confuso che recava inevitabilmente il nome e il
volto di Greyback.
Lo
scacciapensieri ondeggia pigro all’aria notturna, appeso
sopra la finestra aperta in cui è incastonato un ritaglio di
cielo nero.
È
stata un’idea di Dora. Lei va matta per quel genere di
chiassose cianfrusaglie Babbane alle quali scaltri imbonatori
attribuiscono mille utilità pur di spennare a dovere ignari
clienti dalla manica un pò larga. Come sua moglie, appunto.
“Aiuta a scacciare gli spiriti
maligni…”
Quando
l’ha detto, le ha quasi riso in faccia. Dentro. Fuori,
invece, le sue labbra hanno accennato un sorriso storto. Si
è voltato prima che Dora vi leggesse dentro
l’amarezza e la disperazione.
Avrebbe
voluto urlarle che non bastava uno stupido ninnolo, una sciocca
superstizione, per sbarazzarsi del Male. Esso non esiste solo fuori,
non è qualcosa che devi lottare per non far entrare. Il
pericolo ce l’ha in casa, Dora, e non lo sa. Non sa di non
dover andare troppo lontano per trovarsi faccia a faccia con
l’inferno. L’inferno in cui un uomo viene
traghettato ogni notte, su un fragile guscio di noce che ballonzola su
una tempesta in agguato. E, tutt’intorno, crepitano ringhi
lupeschi, ammiccano occhi giallastri, fiutano narici umide.
Dora
non sa. Non può sapere. Non potrebbe capire.
«Remus?»
Abbassa
lentamente le mani dagli occhi, mentre lei lo aggira per sporgersi su
Teddy. Eccola qui, ripescata dal filo dei suoi pensieri.
Percepisce
il profumo ignaro dei suoi capelli, il fruscio della sua camicia da
notte, vede con la coda dell’occhio il biancore della pelle
lattea.
Non
si muove. Continua a guardare diritto davanti a sé, rigido,
portato lontano dalla marea delle sue tristi elucubrazioni che lambisce
appena la terra solida sotto i piedi di sua moglie. E' lei il suo porto
sicuro e lui vuole lasciarla tale il più a lungo possibile.
Dora
torna a rivolgergli l’attenzione, dopo aver constatato che il
piccolo Teddy, ora di nuovo addormentato, sia ben coperto e al caldo.
«Remus?»
Sente
una mano calda scivolare nella sua. Dita sottili trovano gli spazi tra
le sue e ne arrestano il tremito.
«Remus…» ripete lei per la terza volta.
«Che hai?»
Gli
viene in mente all’improvviso il giorno, non lontano, della
nascita di Teddy. L’orgoglio gioioso, dirompente, che gli
sfondava il petto; l’inno di esultanza che cantava nella sua
mente, a ritmo con il tambureggiare euforico del suo cuore. Ricorda la
prima volta che l’ha tenuto tra le braccia e non riusciva a
capacitarsi che una cosa così bella fosse sua,
l’avesse fatta lui, con uno sputo della sua materia. Si
domandava come fosse possibile che gli atomi della sua essenza e di
quella di Dora si fossero combinati a creare quello spicchio di
perfezione, accucciato tra soffici pieghe azzurre. Lo guardava,
stupefatto, occupare uno spazio così esiguo nella curva del
gomito. Così leggero, dello stesso peso dell'aria. E
incommensurabilmente più prezioso.
Si
ritrova a scrutare gli occhi pensosi di sua moglie e vi ritrova memorie
rigeneranti che lo shock gli ha temporaneamente rubato. Si ricorda di
tutte le volte in cui ha accarezzato suo figlio, in cui le sue dita lo
hanno stretto. Nel modo giusto. Non come un attimo prima.
Tutte
le volte in cui si è chinato sulla sua culla a vegliarne il
respiro. Con commozione, stupore, adorazione. Nel modo giusto. Non come
poco fa. Quello... era sbagliato. Tremendamente sbagliato.
Cosa
diresti, Dora, se lo sapessi? Se sapessi che ho appena provato il
desiderio di uccidere, sbranare, divorare nostro figlio?
Cosa
diresti se ti dicessi che il suo odore mi fa piangere di rabbia, di
disperazione, di desiderio represso?
Scapperei
all’altro capo del mondo, per non doverlo più
sentire, per poter smettere di lottare con me stesso. È come
avere costantemente un cilicio conficcato nella carne. Uno stillicidio
continuo di sangue e sofferenza. Tutte le notti.
Cosa
diresti, Dora? Mi cacceresti? Dovresti. Sì, sul serio: per
il bene di Teddy dovresti farlo.
Non
gli è mai successo prima. Non ha mai provato una fame
così feroce, nemmeno quando si è trovato nel
pieno della trasformazione.
Cosa
c’è di diverso? Perchè gli succede
questo? È per via di Teddy? E' perché si tratta
della sua stessa carne?
Vorrebbe
che glielo spiegassi, Dora. Ma Dora non può, nessuno
può. Nessuno sa. Deve tenersi il suo tormento, la sua
vergogna e il suo desiderio di sangue. Nessuno deve sapere. Mai.
Nemmeno lei.
«Sto
bene. Non è niente.»
La
sua voce suona piana, tranquilla, liscia come una china asfaltata che
scivola verso il mare.
Quasi
quasi ci crede lui stesso. Cosa darebbe per lasciarsi cullare da
un’illusione di normalità. Addirittura le sue
labbra si tendono, offrendo a Dora un campione di sorriso sereno e
senza nuvole che lei ricambia col suo, ancora un po’
titubante.
Cosa
darebbe per rimanere appigliato a lei, nello stagno melmoso in cui
ancora sciaguatta la sua coscienza confusa, presa al laccio tra sensi
di colpa e colpevoli pulsioni.
Che
fare? Mentire? Dire la verità?
«Teddy
si è svegliato anche stanotte?»
«Sì,
anche stanotte.»
Lei
annuisce, abbassa lo sguardo sul bambino. Lui osserva le sue palpebre
piegarsi mollemente, la frangia curva di ciglia che proietta ombra
sugli zigomi. La sua faccia è tonda e pura alla luce della
luna. La perfezione della sua fronte appena interrotta da una ruga tra
le sopracciglia.
«Torna
a letto, Dora. E’ tutto a posto.»
«Tu
non vieni?»
«Ti
raggiungo subito, amore.»
Si
sente un ladro mentre pronuncia l'ultima parola. Ladro del suo affetto,
che sarebbe meglio riposto in un altro,chiunque altro,
purchè non lui.
Le
sfiora appena la tempia con le labbra, ma basta perché
quella ruga sottile sparisca, la pelle si distenda di nuovo. I suoi
occhi, ora completamente rischiarati, sono innocenti e fiduciosi come
quelli di una bambina. Si alza in punta di piedi per baciarlo
un’ultima volta, poi sgattaiola fuori dalla stanza. Il calore
della sua mano scivola via insieme con lei, con la sua morbidezza e il
suo profumo caldo e semplice.
Ecco,
ora è di nuovo solo. Guarda la stanza. Nulla sembra essere
cambiato. O forse è lui ad essere impercettibilmente mutato.
Cosa
diresti, Dora, se ti raccontassi che ho visto un lupo, poco fa, vicino
la culla? Che mi sono visto riflesso nei suoi occhi? Che ho lottato con
la bestia che ho dentro, ho respirato la mia paura, la sua violenza?
Ma
ora è passato. Il lupo è scomparso, portandosi
via la sua risata micidiale e il suo ringhio raggelante. Il suo puzzo
di sangue, le sue zanne luride.
Lasciando
qui l’Uomo. Un po’ più forte, forse, di
quanto era prima. Un po’ più controllato. Un
po’ più padrone di sè. Così
gli sembra.
Più
consapevole del pericolo, più in guardia, più
preparato ad affrontarlo. Non si lascerà cogliere con la
guardia abbassata un’altra volta. Questo promette a se stesso.
La
prossima volta, il lupo dovrà essere molto più
scaltro per superare le sue difese. Almeno così spera. E lui
lotterà con determinazione ancora maggiore; non gliela
darà vinta. Mai. A costo della vita. Non lascerà
mai suo figlio. Lo giura.
Non
torna a letto da Dora. Sa che lei capirà. Questo lei
può capirlo. Non si farà troppe domande. In
fondo, è abituata alle sue stranezze.
Veglia
tutta la notte su Teddy. Lo protegge. Lo protegge da se stesso e dalla
ferocia latente del lupo addomesticato, ma sempre pericoloso.
Solo
quando la faccia bianca della luna tramonta e una lama rossa incendia
l’orizzonte a est, fugando ombre e paure, si permette di
allentare la guardia. Rilassa i muscoli, torna a respirare
profondamente. Solo allora si stropiccia gli occhi insonni, fa una
carezza a Teddy — senza timore, adesso — e in punta
di piedi torna a letto.
Anche
stavolta c’è riuscito. Ha protetto suo figlio
dalla bestia. È stato più difficile,
più duro di quanto gli sia mai capitato finora, ma ce
l’ha fatta.
Sulla
soglia, si volta un’ultima volta. I suoi occhi scivolano
guardinghi sul pavimento; un sospiro di sollievo gli gonfia il petto:
nessuna ombra famelica si allunga sul pavimento a lato della culla.
Tende
le orecchie, ma quelle gli rimandano solo il tintinnio antiquato e un
pò ebete dello scacciapensieri appeso alla finestra.
Per
Merlino, potrebbe persino cominciare a ritenerlo di una certa
utilità. D’altronde, gli ha veramente portato
fortuna, quella notte. Ha scacciato i brutti pensieri. Guardandolo
oscillare debolmente, roteando su se stesso, si sente improvvisamente
stanco. Tutto il sonno perduto gli piomba addosso di colpo, come se
qualcuno gli avesse rovesciato un sacco di massi sulle spalle.
Ora,
finalmente, può andarsene a letto. Ha fatto il suo dovere.
Nessun
lupo cattivo potrà fare del male a Teddy finchè
c’è suo padre a vegliare su di lui.
Fine
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