Titolo: Coma
Fandom: Originale
Personaggi: Steve, Carla
Genere: Sentimentale, Triste
Avvertimenti: Nessuno
Rating: 14+
Conteggio parole: 1542
Introduzione: Erano passati quattro mesi dall'incidente d'auto.
Le prime settimane aveva chiesto dei permessi da lavoro in modo da
poter passare al suo fianco ogni secondo, ogni momento, perdendo il
sonno, smettendo anche di mangiare. Poi le visite degli amici della sua
ragazza erano iniziate ad essere più sporadiche, nessuno aveva più
mandato fiori.
Steve continua ad aspettare al suo fianco che Carla si svegli, vivendo
ormai solo per il momento in cui potrà parlarle ancora.
Coma
Gli
ospedali hanno un odore inconfondibile, un misto di disinfettanti e
puzza che a molte persone le prende dritte allo stomaco e gli fa venire
la nausea.
Steve alla fine ci si era abituato a quell'odore, ritornando lì giorno
dopo giorno si era abituato a tante cose: agli sguardi di chi andava a
visitare gli altri pazienti, al pessimo caffè che veniva giù dalle
macchinette automatiche, ai discorsi sempre uguali di chi cerca
d'ignorare quel che lo circonda,
all'ansia, all'attesa, a quel rumore costante proveniente dai
macchinari che lo informava che Carla era ancora viva.
Addormentata, in coma, ma fondamentalmente viva.
Erano passati quattro mesi dall'incidente d'auto.
Le prime settimane aveva chiesto dei permessi da lavoro in modo da
poter passare al suo fianco ogni secondo, ogni momento, perdendo il
sonno, smettendo anche di mangiare. Poi le visite degli amici della sua
ragazza erano iniziate ad essere più sporadiche, nessuno aveva più
mandato fiori. Sua madre alla fine aveva insistito perché andasse a
casa a riposarsi decentemente invece di accontentarsi dei pisolini su
quella sedia o su
una brandina offerta da un infermiere.
Era crollato a letto, salvo svegliarsi sull'orlo delle lacrime dopo un
incubo in cui era lui quello in macchina e non Carla, dove era lui ad
essere tamponato ed essere spinto contro il guard rail e finire poi
fuori strada.
Era arrivato poi il giorno in cui anche i dottori gli avevano detto che
era inutile continuare a stare lì, che sarebbe dipeso comunque solo
da lei.
"Un giorno o un mese, non possiamo esserne certi."
Quella sera, rientrando nel proprio appartamento, quello che aveva
condiviso con lei nell'ultimo anno, si era ritrovato a piangere sul
bicchiere di latte che doveva essere parte della sua cena. Erano
settimane che non viveva veramente più in quella casa, che nelle notti
che passava lì si svegliava in preda al terrore nel non sentire l'ormai
familiare suono del battito cardiaco di Carla.
Era dovuto tornare a lavoro, alla routine, ad una vita che gli pareva
vuota e inutile lontano dalla figura sdraiata tra lenzuola asettiche e
dure.
Quand'era stata l'ultima volta che aveva cenato decentemente?
L'ultima volta che aveva dormito almeno sette ore su un letto degno di
questo nome?
Ma ogni volta che si fermava a casa a dormire e poi la mattina faceva
colazione in quella cucina sempre piena delle voci della televisione
-lei diceva che le teneva compagnia-, ora silenziosa, si sentiva
stringere il cuore, mancare il fiato.
Ogni volta ripensava a quel giorno, a come lei si era fermata a
guardarlo, con le chiavi in mano e le labbra socchiuse. Quasi gli
volesse dire qualcosa.
Ed in quel momento lui stesso era stato tentato di parlarle, di tirar
fuori quella scatoletta e chiederle di sposarlo, senza aspettare che
tornassero a casa dopo il lavoro.
Ma Carla era quasi in ritardo ed entrambi avevano deciso di rimandare i
loro discorsi a quel pomeriggio, sostituendo le parole con un paio di
sorrisi e un saluto frettoloso, un bacio veloce a fior di labbra.
Poi, nemmeno quindici minuti dopo, l'incidente.
I mesi erano passati lentamente tra le sue lezioni a scuola, le
chiamate dell'agente che gli chiedeva se si era dimenticato della data
di consegna del romanzo su cui stava lavorando, le notti insonni, le
difficoltà nel parlare con i colleghi, con quegli amici che non
capivano come si sentiva e che gli davano consigli inutili, consigli
più appropriati a chi avesse portato il cane dal veterinario che non a
chi passasse le giornate ad aspettare che la donna con cui voleva
passare il resto della vita si risvegliasse.
Le leggeva libri, le metteva gli auricolari per farle ascoltare la sua
musica preferita, provava ad immaginare come sarebbe stato quando si
fosse risvegliata. Probabilmente si sarebbe arrabbiata per l'aver perso
tutto quel tempo a letto senza allenarsi per la maratona che correva
tutti gli anni.
Ma per quanto potesse osservarla, per quanto le accarezzasse la mano,
lei non apriva gli occhi e tra i due quello che ne soffriva di più era
probabilmente l'uomo che diveniva ogni giorno più sottile, seduto
affianco al letto.
Carla era arrabbiata con se stessa, furiosa per la propria incapacità
di dire al proprio ragazzo che aveva bisogno di una pausa, che
sentiva il bisogno di allontanarsi da lui. Anche quella era in realtà
solo una scappatoia, per non dirgli troppo brutalmente che non lo amava
più, che un giorno si era svegliata e aveva trovato che guardarlo in
viso non la faceva più sorridere come prima, che pensare a lui non la
faceva più sospirare.
Ma ancora una volta non aveva detto niente, era rimasta a guardarlo e
alla fine l'aveva salutato come niente fosse. Era furiosa con se stessa.
Tutto però era scomparso dalla sua mente con quel colpo, col rumore
della carrozzeria che strisciava contro il metallo del guard rail, le
sue stesse urla, il terrore che pompava sangue e adrenalina mentre
usciva fuori strada, mentre nella sua mente si realizzava il pensiero
che sarebbe morta. In quel momento.
Si era svegliata lentamente, con fatica, come se dovesse lottare con le
unghie e i denti per tornare ad essere cosciente, ed il suono del
macchinario affianco al letto le aveva ricordato per un tremendo
istante quello che doveva essere metallo contro metallo. Non aveva
fatto in tempo a guardarsi intorno, a capire dove fosse, cosa stesse
succedendo, la stanchezza che quasi minacciava di farla crollare ancora
mentre il suo sguardo si spostava sulle due persone che erano entrate
di corsa
nella sua stanza.
Non sapeva quanto tempo fosse passato, non era riuscita veramente a far
caso a ciò che diceva l'infermiera, tornando ad addormentarsi sotto lo
sguardo attento di un dottore.
Il suo nome era Carla. Aveva avuto un incidente. O perlomeno questo era
ciò che ricordava e ciò che le era stato detto dopo il suo risveglio.
Il problema era il buco nero che le proibiva di ricordare cosa ci fosse
stato prima dell'incidente, se era lei al volante o qualcun altro, dove
stesse andando.
Aveva guardato l'ennesima persona entrare nella sua stanza in uno stato
di mezza apatia, rimanendo però mediamente sorpresa quando quello le
aveva sorriso felice, chiamandola per nome con l'espressione di chi
fosse vicino alle lacrime.
L'uomo si era seduto sul suo letto, proprio accanto a lei, prendendo
una mano tra le sue e accarezzandola.
"Carla, amore..."
Ma Carla non aveva ricambiato il sorriso, aggrottando appena la fronte,
togliendo la mano dalle sue in un gesto che aveva ghiacciato
l'atmosfera nella stanza.
"Chi sei?"
Steve era rimasto scioccato da quella domanda, guardando la donna che
amava ricambiare il suo sguardo come fosse stato il loro primo
incontro. Aveva
avuto bisogno di tempo per riuscire a parlare, per raccontarle con voce
quasi debole di chi fosse lui, di cosa fossero loro. Di quel che era
successo e di quanto lei fosse importante per lui.
Ma Carla non cambiava espressione, lo sguardo che passava in rassegna
le emozioni che si presentavano sul viso di quel ragazzo.
Era chiaro che lei doveva essergli cara, ma questo non cambiava la
realtà.
"Sinceramente non mi ricordo chi sei." Aveva scosso appena la testa,
stringendo le labbra nel vedere i suoi occhi farsi più grandi, la sua
bocca aprirsi in costernazione. "Mi spiace... puoi smettere di
insistere di essere il mio ragazzo?"
Se si fosse sentita più in forze non l'avrebbe chiesto così, se se la
fosse sentita di più o avesse vissuto in modo meno destabilizzante ogni
volta che lui la chiamava amore o che diceva di essere il suo
ragazzo, probabilmente non gliel'avrebbe nemmeno chiesto, aspettando
qualche giorno per vedere di chiedere a qualcuno di cui si potesse
fidare,
magari sua madre, se ciò che diceva era vero.
Steve non era più riuscito a dire nemmeno una parola, alzandosi dal
lettino e facendo un passo indietro, il cuore che si spezzava ad ogni
secondo di più.
Carla era sveglia, era viva, poteva tornare da lui ed invece eccola a
voltare il viso dall'altra, cercando di sfuggire anche solo alla sua
figura.
Non sapeva più nemmeno chi fosse.
Si era passato le mani sul viso, voltandosi e lasciando per l'ultima
volta l'ospedale, l'odore di quel luogo che stranamente sembrava farsi
più pungente, portandolo quasi a doversi fermare per non lasciarsi
prendere dalla nausea.
Steve aveva aspettato che Carla si ricordasse di lui.
Aveva aspettato che lei ricordasse perché si era innamorata di lui, che
tornasse a casa loro.
Aveva aspettato di avere la possibilità di darle finalmente l'anello
che aveva comprato per lei.
Carla però non l'aveva mai ricordato, o se l'aveva fatto non
gliel'aveva detto, perché la realtà era che era da molto tempo ormai
che lei non ricordava più cosa la legasse a lui.
Le cose di lei erano sparite dalla loro casa, portate via un pomeriggio
dentro scatole di cartone, maneggiate come se a loro non fossero legati
mille ricordi, e forse era così.
La casa era tornata ad essere silenziosa, anche se Steve vi passava
ormai la maggior parte del tempo libero.
Molte cose erano cambiate, forse troppe, e le poche che erano rimaste
uguali non erano purtroppo motivi di felicità, come quel bicchiere di
latte, sul tavolo di cucina la sera tardi, e Steve che vi piangeva
sopra.
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