Avvertimenti: questa schifezzuola
è stata scritta in un momento di delirio febbrile, ci tengo a precisarlo.
Inizialmente
volevo scrivere una drabble come quella che ho
dedicato a Chad per il suo compleanno, ma poi la situazione mi è leggermente sfuggita di mano e… ed è
nata ‘sta cosa, ecco.
La drabble s’intitolava First
time I saw you, direttamente
da Tearjerker, quindi ecco il perché della prima
frase e dell’inizio simile di ogni paragrafo. Ho deciso d’intitolare anche
questo poema così.
Ho reso John
terribilmente OOC, specialmente negli ultimi paragrafi, e me ne scuso
immensamente.
So di aver usato
un macello di ripetizioni, ma ero partita con l’idea di ricreare la struttura
di una canzone, riprendendo un refrain… cosa che poi non ho saputo realizzare
decentemente: abbiate pietà di me.
A fine pagina ci
sono le mie infinite ndA, in cui spiego tutti i
passaggi della fic: se avete pazienza vi consiglio di
darci un’occhiata, altrimenti fate come cazzo vi pare… Io ormai ho fatto la
cazzata di pubblicare ‘sta storia, non ho più nulla da perdere. :D
Tanti auguri,
Anthony: grazie per essere stato il mio primo amore infantile, quando avevi i
capelli biondo platino e la mia me di sette anni voleva soltanto poter entrare
nel videoclip di Californication
per abbracciarti.
Grazie, davvero.
First time I saw you
La prima volta che ti vidi avevo sedici anni, tu
ventiquattro: correvi su e giù per il palco, dicendo parole senza senso e
scuotendo la tua lunga chioma a ritmo di funk.
Ti adorai all’istante.
La quarta volta che ti vidi avevo diciassette anni, tu quasi
venticinque: stavo con un amico nel parcheggio del Perkins
Palace, pronto per entrare a godermi lo spettacolo, quando ti notai. Avevi lo
sguardo furtivo e affamato che imparai bene a conoscere qualche anno dopo, ma
sopportasti comunque le mie lodi balbettate con emozione.
Te ne fui infinitamente grato.
La sedicesima volta che ti vidi avevo diciotto anni, tu all’incirca
ventisei: mi accompagnasti in macchina a fare l’audizione per i Thelonious Monster. Ti osservai prendere posto tra gli
amplificatori del garage di Bob Forrest e rimanere lì ad ascoltarmi.
Quella volta diedi il meglio di me, perché sapevo che quel
provino valeva il doppio della posta già in gioco.
La settantatreesima volta che ti vidi avevo diciannove anni,
tu ventisette: le ginocchia mi tremavano e mi sforzai per non darlo a vedere,
ma le mie paure non sfuggirono al tuo sguardo attento. Comparisti
all’improvviso davanti a me, sistemandomi la bombetta che avevo indossato per
l’occasione e dandomi un buffetto sul mento. Mi sorridesti, io feci altrettanto
e salii trionfo sul palco, pronto ad essere al tuo fianco.
Non avevo più paura.
La centoquattresima volta che ti vidi avevo quasi ventun
anni, tu ventotto e qualche mese: mi telefonasti disperato e io m’incazzai per
come quella donna avesse osato trattarti. Accettasti il mio consiglio di
scriverci su qualche verso e a mezzanotte in punto ti presentasti a casa mia
per farmeli leggere.
Mi feci spazio violentemente tra quelle parole, misi anima e
corpo in quella che ritenevo essere una delle tue migliori composizioni e finimmo
di registrarla alle cinque.
Ti accompagnai da lei, imbucasti il nastro nella cassetta della
posta e ce ne andammo in silenzio, le gocce di pioggia che si mescolavano alla
tua, alla mia malinconia.
La centoventisettesima volta che ti vidi avevo ventun anni,
tu non ancora ventinove: ero in sala prove a farmi di cannoni in compagnia del
buon vecchio Flea e, ad essere sinceri, quando
facesti capolino dalla porta non ti vidi perfettamente… Anche se lì per lì feci
spallucce, il tuo sguardo deluso mi rimase impresso nella mente: fu anche per
quello che m’impegnai per dare al tuo sfogo una dignità e una tonalità tutte sue.
Mi augurai con tutto me stesso che quello potesse essere
abbastanza per il tuo perdono e tu esaudisti la mia preghiera.
La centosettantacinquesima volta
che ti vidi avevo ventidue anni, tu poco più che ventinove: entrasti nella mia
stanza come una furia, seguito da Flea e Lindy, e io mi sentii braccato come una povera bestia nel
bel mezzo di una battuta di caccia. Non ti diedi neppure il tempo di aprir
bocca, impegnato com’ero nel riversarti addosso tutta la sofferenza che mi
aveva schiacciato durante quegli ultimi mesi. Ti vidi sospirare sollevato, come
se un enorme macigno ti fosse stato appena tolto dal cuore, e insieme
concordammo che quella sera sarei salito sul palco ancora per una volta.
Al concerto fui freddo e distaccato, ma sentii lo stesso su
di me il tuo sguardo talvolta rancoroso, talvolta disgustato, talvolta perso.
Credetti seriamente che quella sarebbe stata l’ultima volta
in cui ti avrei visto.
La centosettantaseiesima volta che
ti vidi avevo venticinque anni, tu andavi per i trentatré: i tuoi soliti
capelli lunghi incorniciavano un volto scarno e degli occhi grandi come
capocchie di spillo, che riconoscevo essere i segnali di uno status che ti eri
ripromesso di non attraversare mai più. Rispondevi a monosillabi alle domande che
la giornalista ti rivolgeva a proposito di un nuovo album…
Deglutii profondamente spaesato, specialmente quando notai
la figura che se ne stava al tuo fianco, lo sguardo furbo e un sorrisetto
malizioso dipinto sulle labbra. Mi sorbii l’intera intervista e resistetti
perfino al videoclip, fino a quando lui ti ficcò la lingua in gola. Fu in quel
momento che mi mossi automaticamente: cacciare la testa nel water e vomitare
anche l’anima furono i pochi anestetici di cui potevo disporre in quel momento,
assieme alla siringa che mi affrettai a cercare poco dopo.
Ringraziai il cielo per non averti lì, in quella stessa
stanza: non avrei saputo sopportare il tuo sguardo pietoso o, peggio ancora, complice su di me.
La centottantunesima volta che ti
vidi avevo ventisette anni, tu quasi trentacinque: me ne stavo alla Zero
Gallery, intento ad appendere i miei quadri, quando ti sentii, sentii la tua presenza. Mi voltai e ti sorrisi, come se
fosse la cosa più naturale del mondo dopo sei anni passati ad ignorarci a
vicenda, e ti vidi ricambiare il gesto un po’ imbarazzato. L’impaccio scemò
quasi subito, lasciando spazio alle tue osservazioni sulle mie tele e i miei
ringraziamenti sinceri. Ed è vero, probabilmente desideravamo detestarci e
mandarci a fanculo più di quanto fossimo capaci di farlo sul serio, ma io ho
sempre creduto che in cuor nostro non lo volevamo davvero.
I nostri sorrisi ne erano la prova.
La centottantaduesima volta che ti
vidi avevo ancora ventisette anni, tu trentacinque appena compiuti: venisti a
trovarmi e portasti con te il sandwich con la senape che ti avevo chiesto. Poi,
con uno zelo e un calore che non vedevo da moltissimo tempo, mi convincesti a
lavarmi le braccia, aiutandomi nel farlo.
E nel momento in cui il sapone e l’acqua scivolarono placidi
sulla mia pelle martoriata capii quanto mi fossi mancato, quanto mi fosse
mancato quel tuo essere semplicemente te stesso, pregi e difetti compresi.
La centottantottesima volta che ti
vidi andavo per i ventott’anni, tu ne avevi trentacinque e passa: stavo a Los Encinos, avevo lasciato l’eroina e il crack e stavo per
farcela anche con l’alcool, e tu venisti a farmi visita, come ultimamente ti
ritrovavi spesso a fare. Forse stavamo parlando di Burroughs, o forse di
un’opera di Leonardo, quand’ecco che sentii l’impellente bisogno di esibirmi in
una delle mie spaccate dei tempi d’oro. Poi, come se nulla fosse, mi risollevai
e mi risedetti sul letto.
Stetti in silenzio in attesa della tua reazione, e tu
scoppiasti a ridere: ti imitai quasi subito, sentendomi una leggerezza
nell’animo che non provavo da tanto, troppo tempo.
La centonovantunesima volta che ti
vidi stavo per compiere ventott’anni, tu forse eri vicino al compierne trentasei,
ma è molto probabile che ricordi male: io e Flea ci
eravamo già riconciliati, e tu pensasti bene di organizzare un incontro
chiarificatore. Tra un taco e l’altro giungemmo
finalmente alla conclusione che non avevamo più alcun risentimento nei confronti
dell’altro e che era ora di ricominciare daccapo.
All’età in cui molti uomini hanno già una famiglia bella che
formata, io e te maturammo nel sole di quel pomeriggio di fine primavera.
La centonovantaduesima volta che
ti vidi erano trascorsi pochi giorni dal nostro ultimo incontro: venisti a
prendermi in macchina e mi portasti al Guitar Center,
per regalarmi una Stratocaster datata 1962. Sorrisi
tra me e me, perché forse quell’anno voleva essere un monito a ricordarmi di
tutto quello che stavi facendo per il sottoscritto: me la porgesti e le tue
dita sfiorarono le corde involontariamente, nello stesso istante in cui io le
stavo accarezzando distratto.
Ci guardammo e ci sorridemmo, senza aprir bocca. Andava bene
così.
La duecentesima volta che ti vidi avevo ventotto anni, tu ancora
trentacinque: ci ritrovammo tutti e quattro nel garage di Flea,
come ai vecchi tempi. Attaccai il jack alla Stratocaster
e mollai la prima pennata, accennando un motivo di Mother’s Milk che dapprima uscì incerto, per poi diventare sempre più definito
e corposo. Fu un attimo e tu, Flea e Chad vi uniste a
me, nel mio strano concerto, fino a che diventammo un’unica entità.
Sentii di essere rinato e voi, tu, lo eravate con me.
La duecentonovesima volta che ti
vidi stavo sempre fermo ai miei ventott’anni, mentre i tuoi trentasei
avanzavano: eravamo dietro le quinte del 9:30 Club, pronti a tenere un concerto
insieme dopo tanto tempo. Rividi il me stesso di dieci anni prima, faccia tosta
e cappello ben calcato sulla testa, ma la paura vivida nel mio sguardo
spavaldo. Rividi te, il leader che non doveva mai chiedere nulla, avvicinarsi e
darmi un buffetto affettuoso.
Alzai lo sguardo e cercai il tuo, dall’altro lato del backstage,
e lo trovai: mi sorridesti come dieci anni prima e io feci altrettanto, sapendo
che anche stavolta nulla mi avrebbe più fatto paura.
La duecentosedicesima volta che ti
vidi erano passati pochi giorni dal mio ritorno in scena: mi precipitai come
una furia in sala prove, gridando entusiasta che ce l’avevo fatta, avevo
finalmente trovato la tua canzone. Imbracciai
la White Falcon e suonai quel motivetto che col tempo
sarebbe riuscito ad entrare nelle menti e nei cuori di migliaia di altre
persone.
Quando ebbi finito incrociai il tuo sguardo colmo di
approvazione e di sollievo e sorrisi tra me e me: ce l’avevo fatta, ero
riuscito a catturare quella dannatissima melodia, e l’avevo fatto per noi, l’avevo
fatto per te.
La duecentoquarantasettesima volta
che ti vidi di anni ne avevo ancora ventotto, tu veleggiavi verso i trentasei:
ce ne stavamo nel mio appartamento, io a strimpellare la chitarra e tu a buttar
giù versi a tempo perso, quando notai che appoggiasti la penna sul foglio.
Prendesti un grosso respiro e mi chiamasti, ottenendo la mia attenzione:
dopodiché, mi chiedesti scusa per come mi avevi trattato durante i primi anni
insieme, comportandoti con superficialità e poco tatto.
Appoggiai la chitarra e ti abbracciai: non erano necessarie
altre parole, la mia insicurezza di un tempo era appena svanita come una bolla nel
vento.
La duecentosessantatreesima volta
che ti vidi avevo quasi ventott’anni e mezzo, tu eri sempre più vicino ai
trentasei: bussammo alla porta, tu ci apristi con lo sguardo basso e tanto
disprezzo per te stesso. Dicesti che ti dispiaceva esserci ricascato e ci
domandasti scusa per la cazzata che avevi fatto, e mentre lo dicevi ci credevi
per davvero. Flea ti disse di non preoccuparti,
bastava tornare a casa e non pensarci più. Dal canto mio, non potei far altro
che dirti di essere dispiaciuto per tutto l’orrore che avevi dovuto
attraversare, ma quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avresti provato un
tale dolore.
Ci pigiammo nella carretta che Flea
pareva aver rubato ad Arlecchino e andammo a mangiare messicano tutti insieme,
finendo con il tirarci il cibo addosso e ridere come dei ragazzetti che
sembravano non aver alcun tipo di preoccupazione…
E noi forse non lo eravamo?
La duecentonovantacinquesima volta
che ti vidi avevo ventinove anni, tu trentasei e poco più: dopo otto anni eravamo
tornati nel deserto, e una Pontiac Catalina del ’67 stava solo aspettando che
io facessi ronzare il suo motore.
Presi posto sul sedile del guidatore e iniziai a calcarmi
meglio lo strano cappello che avevo in testa o sistemarmi le maniche della
camicia, tutti tic nervosi che non riuscivo ad evitare. Ti vidi accomodarti nel
posto di fianco al mio e scompigliarti i capelli biondo platino, Dio solo sa se
per smaltire la tensione o se per renderti innegabilmente affascinante di
fronte alla cinepresa di Stéphane. Ti accorgesti del
mio stato d’animo e ti affrettasti ad offrirmi una sigaretta, dicendomi di
prendere esempio da Flea, che se ne stava stravaccato
sui sedili posteriori, intento a salutarmi muovendo un anfibio.
Risi e girai le chiavi, facendo avviare subito il motore: eravamo
stati schiacciati, strappati e quasi distrutti, ma questo non c’aveva impedito
di ritornare come un tempo, se non addirittura in una forma migliore.
La trecentotrentaquattresima volta
che ti vidi avevo ventinove anni e passa, tu quasi trentasette: eravamo tutti e
quattro in cerchio, mano nella mano e con gli occhi chiusi. Fuori c’era un
forte temporale e potevamo chiaramente sentirne l’energia. Flea
disse la sua preghiera, tu sparasti una delle tue rime strambe e Chad raccontò
una barzelletta del suo solito repertorio: quando fu il mio turno, non seppi
bene che dire. Mi limitai a ringraziare tutto l’universo per averci fatti
incontrare e avermi concesso una seconda chance. Non mi preoccupai di suonare
troppo sdolcinato o sentimentalista, perché era quello che provavo veramente, e
sapevo che voi non mi avreste giudicato.
Chad aumentò la stretta e in breve ci ritrovammo uniti in un
abbraccio che trascendeva tutte le barriere di questo e di altri mondi.
La quattrocentocinquantunesima
volta che ti vidi avevo trent’anni e un paio di mesi, tu trentasette abbondanti:
mi dicesti che non era necessario farlo, che se non me la sentivo potevo
benissimo farne a meno. Ti sorrisi e ti dissi di non preoccuparti: mi sfilai la
maglia e lasciai che Jonathan, Valerie e tutta la troupe mi guardassero, le guardassero.
-Non c’è alcun problema- ti appoggiai una mano sulla spalla –Sono
solo pezzi di carne, non m’importa dei segni.-
Tu facesti un sorriso tirato: si vedeva che non credevi
totalmente a quello che t’avevo appena detto, ma apprezzai il tuo tentativo di
comprendermi. Mi abbracciasti e insieme raggiungemmo Chad e Flea,
già pronti alle loro postazioni.
Erano solo segni, eppure avevano contribuito a farci
riavvicinare: con che coraggio avrei potuto rinnegarli?
La settecentotrentottesima volta
che ti vidi avevo da poco compiuto trentun anni, tu ne avevi trentotto da
qualche mese: aprii la porta di casa mia e ti ritrovai con gli occhi rossi. Capii
immediatamente quello che era successo e ti strinsi a me: dovevi molto a quella
donna, ma avevi fatto del tuo meglio per sdebitarti come potevi. Ti lasciai
piangere per un po’, dopodiché entrammo.
Quel pomeriggio passò relativamente lento: fumammo insieme
qualche sigaretta, ti feci un tè e ce ne restammo seduti in silenzio, certi che
lei fosse da qualche parte, magari proprio lì con noi.
La millecentoduesima volta che ti
vidi avevo trentatré anni e passa, tu andavi per i quarantuno: la musica
diminuì e anche il frastuono del pubblico, quasi fosse consapevole del fatto che
avresti sussurrato quegli ultimi versi. Mi avvicinai a te e poggiai la testa
sulla tua schiena, quasi fossimo un cucciolo stremato dalla fatica dei suoi giochi
e la madre pronta a farlo riposare e ad accudirlo.
Ti sentii sorridere e feci altrettanto, sentendo tutta la
stanchezza svanire via come una vecchia moda.
La duemilatrecentoventiseiesima
volta che ti vidi avevo poco più di trentasei anni, a te mancava un bel po’ per
compierne quarantaquattro: io e gli altri cambiavamo i costumi in
continuazione, ridendo come dei deficienti e dandoci amichevoli pacche sul
sedere. Ti vidi in un angolo, intento a provare le tue mosse alla Presley, e ti
sorrisi quando ti accorgesti di essere osservato: tu facesti altrettanto,
sfilandomi accanto e trascinandomi con te verso il delirio che stava per
iniziare, canticchiando allegro Jailhouse Rock.
Il contratto prevedeva che avrei dovuto portare zatteroni,
parrucche e rossetti, ma giuro che in quel momento non avrei voluto essere da
nessun’altra parte.
La tremilacinquecentosettantatreesima
volta che ti vidi di anni ne avevo poco più che trentotto, tu invece andavi per
i quarantasei: me ne stavo seduto sul divano in compagnia di Flea e Chad, quando facesti irruzione in sala prove con un’espressione
che definire “entusiasta” sarebbe alquanto limitativo.
-Date il benvenuto al Vegetariano
più sexy dell’anno!- esultasti, al che io e gli altri ti guardammo
parecchio perplessi, gesto che però non scalfì affatto la tua gioia.
Ci sventolasti sotto il naso il comunicato stampa della PETA
e ti bloccasti, attendendo fremente i nostri complimenti: dopo qualche minuto
ti squadrammo in silenzio e scoppiammo a ridere, scatenando il tuo malumore.
-Non ci parlo più con voi, razza di stronzi!- borbottasti,
sottraendoti agli abbracci che volevamo dispensarti –Siete degli insensibili,
ho battuto persino Paul McCartney!-
Riuscimmo finalmente a placcarti e ad immobilizzarti in una
stretta delle nostre, continuando a ridere incuranti del tuo ego, mentre tu non
riuscisti proprio a nascondere il sorrisino che ti era appena nato sulle
labbra.
La quattromilaquattrocentesima
volta che ti vidi ero nell’ultimo anno dei trenta, mentre per te stavano per diventare
quarantasette: nella stanza aleggiava un’aria di abbattimento generale, e io
non lo potevo sopportare. Non era così che volevo andarmene, non con quegli
sguardi tristi e quei –Ok, vai pure per la tua strada, mi sta bene- che in
realtà celavano dei velenosissimi –Non avremmo mai dovuto istituire questa
pausa, se ne sta andando di nuovo, ci sta abbandonando per l’ennesima volta…-
-Ragazzi- esordii, e voi tutti alzaste le vostre teste chine
–volevo solo dirvi che non è colpa di nessuno se sto prendendo questa
decisione: voglio provare a vedere se è veramente vero quel che si dice
riguardo al fatto che la vita inizi a quarant’anni…-
-Vedi di non fare la stessa fine dell’ultimo che ha detto
quella frase, eh!- abbozzasti un sorriso e te ne fui infinitamente grato.
Vi abbracciai e scesi in strada quasi correndo, temendo che
le lacrime sgorgassero dai miei occhi prima di essere sufficientemente lontano
da voi, da te.
Ero libero, libero come non lo ero mai stato fino ad allora…
ma allora perché avevo soltanto una gran voglia di piangere?
La quattromilanovecentocinquantesima
volta che ti vidi avevo quarantadue anni e un mese, tu eri ancora nell’ultimo
anno dei quaranta: avevo ceduto alla tentazione e me ne stavo seduto davanti al
televisore, intento a vedere quello che sarebbe dovuto essere uno dei più
grandi eventi della mia vita. Dovevo essere uno dei protagonisti e invece, per
una scelta che alcuni avevano reputato egoista, ero soltanto uno delle centinaia
di migliaia di telespettatori che lo seguivano dalle case o dai locali.
Quando vi vidi salire sul palco e tenere i vostri discorsi
uno dietro l’altro non potei non provare un po’ di rimpianto: declinare l’invito
di prendere parte alla cerimonia era stata veramente la scelta giusta? Come ci
saremmo comportati se ci fossimo trovati faccia a faccia dopo tre anni di quasi
totale silenzio? Sarebbe andato tutto per il verso giusto o ci sarebbero stati
antichi screzi a rovinare tutto quanto? E a cerimonia finita avrei avuto il
coraggio di lasciarvi andare di nuovo o sarei tornato sui miei passi,
costringendovi a sconvolgere tutto quanto per l’ennesima volta?
Quelli e molti altri interrogativi mi frullarono nella
testa, ma fu nell’esatto momento in cui notai Josh
arrossire e nascondersi nell’ombra che capii di aver fatto la cosa più giusta
per me, ma anche per voi.
Non c’era alcun bisogno di provare rimpianto: avevamo dato
il meglio di noi, avevamo convissuto per anni, condividendo interessi ed
opinioni e migliorandoci a vicenda, e questa era la cosa più importante.
L’aver avuto l’opportunità di far parte di quella
meravigliosa creatura, nata ormai la bellezza di quasi trent’anni fa, mi
bastava. Eccome se mi bastava.
La cinquemillesima volta che ti ho visto avevo quarantadue
anni abbondanti, tu ne compivi cinquanta: è successo cinque minuti fa, quando
ho aperto il giornale sulla pagina dedicata alla rubrica musicale e la tua
faccia è apparsa gigantesca, occupando l’intera facciata.
Non ho storto il naso, né ti ho chiamato per farti gli
auguri: mi sono limitato a sorridere, a sorriderti, anche se tu non puoi
vedermi.
Magari in questo momento sei impegnato, magari stai
permettendo ad Everly di spegnere un po’ delle tue candeline
oppure sei semplicemente ancora a letto, stanco per l’esibizione di ieri sera.
Ti sveglierai tutto d’un tratto e, facendo finta di niente,
ti dirigerai verso lo specchio per controllare se le rughe sono aumentate o se
hai una bella cera, nonostante il mezzo secolo che ti porti sulla groppa.
Ecco, magari in quel momento sarai troppo concentrato su di
te per fartelo venire in mente, ma forse mi stupirai: forse mi penserai, forse
ti chiederai dove sono ora e cosa sto facendo, e perché non sono nella lista
degli invitati al party esclusivo che darai stasera, o forse non lo farai
affatto.
Ma, comunque vadano le cose, voglio solo farti sapere che ti
penso, ti penso nonostante tutti i giorni passati dall’ultima volta che abbiamo
scambiato due parole, nonostante tutto quello che abbiamo dovuto attraversare e
che ancora stiamo vivendo.
Ti penso ancora, e credo che questo sia il miglior regalo di
compleanno che possa farti.
John
-Perché ora so che questa cinquemillesima volta non
sarà l’ultima.
Dovevo concludere la storia con la frase che ho usato come
titolo delle ndA, ma alla fine ho cambiato idea: il
finale che ho scelto mi sembra più “alla John”, non so.
Ok, passo subito a spiegarvi i vari paragrafi.
Volta #1: “La prima volta che ti vidi avevo sedici
anni, tu ventiquattro”: [1986] non
è ben chiaro se John avesse iniziato a vedere i RHCP in concerto a quindici o a
sedici anni… ho scelto questa seconda opzione. Ed è vero, lui adorava Hillel, ma qui ho voluto sottolineare un’ipotetica
adorazione per il Kiedis.
Volta #4: “La quarta volta che ti vidi avevo
diciassette anni, tu quasi venticinque”: [1987] “In realtà, avevo conosciuto John prima di Flea. Più o meno quando era uscito “Uplift”,
avevamo suonato a Pasadena, al Perkins Palace. Stavo ancora
lottando con la mia dipendenza e avevo dovuto farmi un po’ di eroina prima
dello spettacolo per essere a posto. Ero andato in macchina al concerto, avevo
parcheggiato ad alcuni isolati di distanza e, attraverso il parcheggio adiacente
al locale, mi ero cercato un posto dove farmi la pera. In quel momento, due
ragazzi dalla faccia fresca mi erano venuti incontro pieni di entusiasmo. «Oh,
mio Dio, Anthony. Volevamo solo farti un saluto. Siamo superfan
della tua band.» Avevo chiacchierato con loro per un po’, poi ero andato a
sedermi su un gradino e mi ero preparato un po’ di droga.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
Volta #16: “La sedicesima volta che ti vidi avevo
diciotto anni, tu all’incirca ventisei”: [1988] “Dopo che Flea era rimasto così
profondamente impressionato da John, cominciai a uscire con lui. Allo stesso
tempo, Bob Forrest lo colmava di attenzioni perché suonasse nel suo gruppo, i Thelonious Monster. John mi disse che andava a fare
un'audizione al garage di Bob e così ce lo accompagnai in macchina. Nella mia
mente stava provando per i Red Hot Chili Peppers. Una sola canzone della sua esibizione e io seppi
che era il nostro uomo.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
Volta #73: “La settantatreesima volta che ti vidi avevo
diciannove anni, tu ventisette”: [1989]
ho voluto descrivere un ipotetico pre-primo live
di John con i RHCP, e sottolineare la differenza dal suo atteggiamento
sbruffone e ciò che in realtà provava. Almeno, io me lo immagino così.
Volta #104: “La centoquattresima volta che ti vidi avevo
quasi ventun anni, tu ventotto e qualche mese”: [1991] “Mi crollò il mondo addosso. Era passata, dalla sera alla
mattina, dal ‘non vedo l’ora di rivederti’ al ‘non chiamare e non passare’. Non
sapevo a chi rivolgermi, così chiamai John. Andò su tutte le furie per il modo
in cui Sinéad [O’ Connor] mi
aveva trattato e mi suggerì di scrivere qualcosa su quanto avvenuto. […] Andai
da John intorno a mezzanotte: si comportava come uno scienziato pazzo; si
immedesimava in me, era come posseduto dall’idea di finire la canzone. […] Alle
cinque del mattino, finalmente, la canzone era finita: cassetta alla mano, ci
precipitammo sotto quell’acquazzone degli acquazzoni a casa di Sinéad. Sarebbe stata la sua ultima notte a Los Angeles:
non bussai, impacchettai il nastro e lo infilai nella sua cassetta delle
lettere.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue, riguardo la nascita di I Could Have Lied)
Volta #127: “La centoventisettesima volta che ti vidi
avevo ventun anni, tu non ancora ventinove”: [1991] “Un giorno, in sala prove, trovai che Flea
e John stavano dandoci dentro con l’erba ed erano in uno stato mentale da ‘freghiamocene
di Anthony’; mi resi conto che John non faceva più parte del mio mondo e provai
un malinconico senso di abbandono. […] Ero un solitario nel mio gruppo, ma
intorno a me avvertivo la presenza del luogo in cui vivevo. Cominciai a mettere
insieme le parole per una poesia e a cantarle in una melodia mentre percorrevo
la superstrada. […] «Perché non mostri a John e Chad quella cosa che ho visto a
casa tua l’altra sera?» suggerì Rick. «No, no, non c’è nemmeno Flea» dissi. Ma John e Chad avevano sentito. Si sedettero e
dissero: «Dai, facci vedere». […] Il giorno seguente John venne da me per
rifinirla. Portò un piccolo ampli Fender, lo attaccò e disse: «Okay, prova a
cantarla di nuovo. Come vuoi che suoni? Cosa vuoi che sembri? Dove vuoi che
vada?»” (Anthony Kiedis – Scar Tissue, riguardo la nascita di Under The Bridge)
p.s. Nel libro viene raccontata
prima la creazione di Under The Bridge
e poi quella di I Could
Have Lied: ho voluto invertire l’ordine
cronologico per far percepire il crescere della crisi tra John e Anthony,
quella loro complicità che stava iniziando a venire meno.
Volta #175: “La centosettantacinquesima
volta che ti vidi avevo ventidue anni, tu poco più che ventinove”: [marzo 1992] “Andammo a cercarlo nella
stanza in cui si era rintanato. «Devo lasciare il gruppo, devo andarmene. Devo tornare
a casa subito, non posso più andare avanti così» mi disse. «Morirò se non
uscirò da questa band, adesso.» Lo guardai negli occhi, e capii che non c’era
scelta. […] Fui sopraffatto da una grande sensazione di sollievo. […] Alla fine
John accettò di suonare ancora una sera, prima di salire su un aereo e tornare
a casa. […] Continuavo a guardare John e vedevo una gelida maschera di
disprezzo. […] Quella sera John scomparve dal mondo in subbuglio dei Red Hot Chili Peppers.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
Volta #176: “La centosettantaseiesima
volta che ti vidi avevo venticinque anni, tu andavi per i trentatré”: [agosto 1995] “Even
though John’s a huge Jane’s Addiction
fan, he refused to listen
to anything off One Hot
Minute. He said it was like
somebody else is fucking your girlfriend.” (Chad Smith in An Oral/Visual History by The Red Hot Chili Peppers) Dopo aver letto questa frase, ho sempre
provato ad immaginarmi la reazione di John quando è venuto a sapere che la sua
ex band stava per incidere un nuovo album senza di lui. Questo paragrafo è
ambientato durante un’ipotetica intervista in occasione dell’uscita del singolo
Warped, il
cui video è sempre stato abbastanza, ehm, sconvolgente per me. Il tizio di
fianco ad Anthony è, ovviamente, Dave Navarro, e Tony
aveva ripreso con la sua dipendenza dalle droghe, abisso in cui era precipitato
anche John qualche anno prima.
Volta #181: “La centottantunesima
volta che ti vidi avevo ventisette anni, tu quasi trentacinque”: [1997] “Quando sentii che avrebbe fatto
una mostra alla Zero Gallery su Melrose decisi di
farci un salto il giorno prima dell’inaugurazione e dare un’occhiata ai quadri.
Passai ed eccolo, John era lì ad appendere i quadri in prima persona. […] Era
magro da far spavento, uno scheletro vestito, questo piccolo uomo tutto ossa,
ma dava un’impressione di vigore perché aveva molta energia. […] Invece di
dirci: «Vaffanculo, ti odio, mi fai schifo», eravamo contenti di vederci. I suoi
quadri erano disturbanti ma bellissimi. Era strano, perché penso che
desiderassimo detestarci più di quanto fossimo capaci di fare.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
Volta #182: “La centottantaduesima
volta che ti vidi avevo ancora ventisette anni, tu trentacinque appena compiuti”:
[1997] “I medici erano seriamente
preoccupati che si formasse una cancrena e rischiasse di perdere un arto, a
meno che non si lavasse e cominciasse a prendersi cura delle braccia, cosa che
rifiutava di fare. Lo chiamai e gli chiesi se per lui andava bene che andassi a
trovarlo. Era d’accordo e chiese se potevo portargli un sandwich pastrami con tanta senape. Così feci la mia comparsa,
mangiò il panino e cercai di fargli lavare le braccia. Ancora una volta il
nostro scambio fu cortese, affettuoso, pieno di calore.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
Volta #188: “La centottantottesima
volta che ti vidi andavo per i ventott’anni, tu ne avevi trentacinque e passa”:
[febbraio 1998] “Durante una delle
mie visite, eravamo seduti a fare una di queste conversazioni minimaliste,
quando John balzò dal letto e si esibì in una perfetta spaccata alla James Brown, 1968 circa. Poi si tirò su e si risedette. Non so
perché lo fece, ma sembrava che si sentisse vivace e allegro e volesse mostrare
che aveva ancora il fuoco per fare una spaccata alla James Brown,
se necessario.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
Volta #191: “La centonovantunesima
volta che ti vidi stavo per compiere ventott’anni, tu forse eri vicino al
compierne trentasei, ma è molto probabile che ricordi male”: [aprile 1998] “Poi Flea
fece un viaggio in Cambogia, che diede a me e a John il tempo di chiarire le
cose e di parlare dei problemi che avevamo avuto in passato. […] Fui io a
rompere il ghiaccio: «Hai qualche problema con me riguardo a qualcosa?». «No,
non direi» disse. «E tu? Sei arrabbiato con me per qualche motivo?» «Pensavo di
esserlo, ma non mi sento più così, adesso. Credo che dovremmo superare tutta
questa cosa, ma non sono più infastidito» confessai. «Neanch’io» fu d’accordo
John.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
Volta #192: “La centonovantaduesima
volta che ti vidi erano trascorsi pochi giorni dal nostro ultimo incontro”:
[aprile 1998] “Il problema
principale era che John non aveva neppure una chitarra a suo nome. Così andammo
al Guitar Center e gli comprai una bellissima Stratocaster del 1962.” (Anthony Kiedis
– Scar Tissue)
Volta #200: “La duecentesima volta che ti vidi avevo ventotto
anni, tu ancora trentacinque”: [maggio
1998] “Ci radunammo nel garage di Flea, una
porzione del quale era stata convertita in sala prove. […] John sembrava
incerto, ma attaccò la chitarra e cominciammo a suonare. Ed eravamo di nuovo
noi.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
Volta #209: “La duecentonovesima
volta che ti vidi stavo sempre fermo ai miei ventott’anni, mentre i tuoi
trentasei avanzavano”: [primi di
giugno 1998] “All’inizio di giugno facemmo una pausa nelle prove per il
primo concerto dopo il ritorno di John. […] La sera prima facemmo un concerto a
sorpresa al 9:30 Club, giusto per prendere confidenza.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
Volta #216: “La duecentosedicesima
volta che ti vidi erano passati pochi giorni dal mio ritorno in scena”:
[giugno 1998] “Continuavo a dire a
John che dovevamo finirla. […] All’ultimo momento, John arrivò di corsa in
studio con la sua nuova chitarra White Falcon da trentamila
dollari. Disse: «Ce l’ho! Ho Californication!». Si sedette e suonò questa combinazione di
note molto breve, tuttavia ammaliante. […] Era una tale sensazione di sollievo
e gratificazione sapere che non era finita nel cestino dell’immondizia, insieme
a Quixoticelixer e a un certo numero di altre canzoni
per cui nutrivo grandi speranze.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
p.s. dal libro si evince che
questo fatto successe nel febbraio 1999, ma ho preferito anticiparlo.
Volta #247: “La duecentoquarantasettesima
volta che ti vidi di anni ne avevo ancora ventotto, tu veleggiavi verso i
trentasei”: [luglio 1998] fatto
completamente inventato da me, ispirato da questo passo: “Non avevo ancora
riconosciuto quanto fosse stata malata la mia relazione con lui prima che
abbandonasse il gruppo. Non mi rendevo conto di quanto fosse sensibile e di
quanto io potessi ferirlo. Non sapevo che tutte le battute, le stoccate, le
prese in giro, gli sfottò e il sarcasmo avevano davvero urtato i suoi
sentimenti, lasciando il segno.” (Anthony Kiedis – Scar Tissue)
p.s. il passo del libro risale all’incirca
al 1997, quindi ho posticipato il tutto.
Volta #263: “La duecentosessantatreesima
volta che ti vidi avevo quasi ventott’anni e mezzo, tu eri sempre più vicino ai
trentasei”: [agosto 1998] “Finii
addirittura in un albergo di San Diego, di nuovo depresso. Non sapevo cosa fare,
non avevo neppure la forza di andarmene, quando qualcuno bussò alla porta. Chi cazzo
poteva essere? Andai allo spioncino a guardare, e c’erano John, Flea e Chad. […] «Mi dispiace davvero» dissi. «Non stare
nemmeno a preoccuparti» replicò Flea. «Hai fatto
casino. Andiamo a casa e torniamo a lavorare.» Era così concreto e non
giudicava nulla. «Ehi, amico, mi dispiace tanto che tu sia dovuto passare in
questo schifo» disse John. «Deve essere stato orrendo. Ma non puoi più farlo.»
Ci pigiammo nella buffa Mercedes multicolore di Flea.
[…] Ci fermammo a mangiare messicano, e a quel punto stavamo ridendo, ci
tiravamo il cibo e ci divertivamo.” (Anthony
Kiedis – Scar Tissue)
Volta #295: “La duecentonovantacinquesima
volta che ti vidi avevo ventinove anni, tu trentasei e poco più”: [maggio 1999] scena ambientata sul set
del videoclip di Scar Tissue: la
scena iniziale è molto simbolica, il fatto che John sia il primo a guidare l’auto
(nella realtà non possiede alcuna patente), sta a simboleggiare il suo ritorno
nella band, un ritorno deciso ed importante. Le ferite che i musicisti
sfoggiano sono il segno di tutte le difficoltà che hanno dovuto affrontare
durante la loro carriera di Red Hot Chili Peppers. Stéphane è Stéphane Sednaoui, regista di
questo videoclip e di quello di Give It Away.
Volta #334: “La trecentotrentaquattresima
volta che ti vidi avevo ventinove anni e passa, tu quasi trentasette”: [luglio 1999] scena ispirata ad un
video che vidi tempo fa, in cui la band si raccoglieva in meditazione prima di
un concerto. Ho preso ispirazione anche da un passo quasi alla fine del libro
di Kiedis, in cui descrive i rituali che lui e gli
altri erano soliti fare.
Volta #451: “La quattrocentocinquantunesima
volta che ti vidi avevo trent’anni e un paio di mesi, tu trentasette abbondanti”:
[maggio 2000] scena ambientata sul
videoclip di Californication:
Frusciante confessò che quello fu il primo video in cui mostrò le proprie
braccia ricoperte di cicatrici dovute al passato da eroinomane, e io ho provato
ad ispirarmi e a pensare a come si fosse sentito in quell’occasione. Jonathan e Valerie sono Jonathan Dayton e Valerie Faris,
registi dei videoclip di Californication, Road Trippin’, By The
Way, The Zephyr Song e Tell Me Baby.
Volta #738: “La settecentotrentottesima
volta che ti vidi avevo da poco compiuto trentun anni, tu ne avevi trentotto da
qualche mese”: [marzo 2001] passo
ispirato alla morte di Gloria Scott, la terapista che aiutò Kiedis
a disintossicarsi e che fu amica della band. A lei è dedicata Venice Queen.
Volta #1102: “La millecentoduesima
volta che ti vidi avevo trentatré anni e passa, tu andavi per i quarantuno”:
[23 agosto 2003] passo ispirato
dalla scena del Live at
Slane Castle in cui,
alla fine di By The Way, John
appoggia la testa sulla schiena di Anthony. I miei ormoni vanno sempre in
visibilio.
Volta #2326: “La duemilatrecentoventiseiesima
volta che ti vidi avevo poco più di trentasei anni, a te mancava un bel po’ per
compierne quarantaquattro”: [fine
marzo 2006] scena inventata da me, ispirata al backstage del videoclip di Dani California.
Volta #3573: “La tremilacinquecentosettantatreesima
volta che ti vidi di anni ne avevo poco più che trentotto, tu invece andavi per
i quarantasei”: [giugno 2008] nel
giugno del 2008 Anthony Kiedis è stato effettivamente
nominato dalla PETA “Vegetariano più sexy dell’anno” e ha effettivamente
battuto concorrenti del calibro di Chris Martin e del citato Paul McCartney.
Siparietto ovviamente inventato da me.
Volta #4400: “La quattromilaquattrocentesima
volta che ti vidi ero nell’ultimo anno dei trenta, mentre per te stavano per
diventare quarantasette”: [agosto
2009] Nell’An Oral/Visual History by The Red Hot Chili Peppers si dà agosto 2009 come data dell’uscita di John
dal gruppo. Scena ovviamente immaginata dalla mia fervida fantasia.
“La vita comincia a quarant’anni” fu una frase detta da John
Lennon nell’intervista che rilasciò un paio di giorni prima di essere ucciso.
E sì, Frusci è totalmente OOC, assolutamente descritto
inverosimilmente.
Volta #4950: “La quattromilanovecentocinquantesima
volta che ti vidi avevo quarantadue anni e un mese, tu eri ancora nell’ultimo
anno dei quaranta”: [14 aprile
2012] scena immaginata durante l’induzione della band alla Rock n’ Roll Hall of Fame di Cleveland. Perdonami, John, se ti ho
fatto così melenso.
Volta #5000: “La cinquemillesima volta che ti ho visto
avevo quarantadue anni abbondanti, tu ne compivi cinquanta”: [1 novembre 2012] scena ovviamente
inventata. John, riperdonami per averti descritto così.
Grazie a chi ha perso tempo nel leggere tutto quanto, grazie
davvero di cuore.
E ancora tanti auguri, Tone.
Dazed;