Mi sono dimenticata come si
respira
“Sei sicura di stare bene?”
“Certo, perché?”
Te lo chiedono, te
l’hanno chiesto, in troppi modi diversi, con
espressioni diverse, con toni diversi. Te l’hanno chiesto
così tante volte che non riesci quasi più
a fermare quel disco inceppato che è la tua voce.
“Certo, perché?”
Certo,
rispondi. E cos’altro dovresti dire? Sei viva, giusto?
Respiri e sei viva; non hai nessuna ferita, nessun problema.
Semplicemente non hai nulla e niente di sbagliato. All'esterno.
Perché,
chiedi.
Mai
rispondere ad una domanda con una domanda, non lo sapevi? E blah blah
blah.
Come risposta ottieni solo sguardi indagatori e preoccupati.
Ti senti squadrata, valutata,
giudicata, criticata.
Guardano il tuo corpo come se fosse un oggetto strano, curioso. Una
cosa rotta, danneggiata. Qualcosa senza più nessuna
utilità.
Ed è proprio così che ti senti, non è
vero?
Inutile. E vuota.
Ma non sei vuota: avverti quel tarlo roderti l’anima, lo
spirito, i sogni.
Quel tarlo ha un nome ma non ti va di pronunciarlo. Non vuoi nemmeno pensarlo
perché farebbe troppo male da accettare, ed è la
cruda realtà. Meglio le illusioni, allora.
Stai morendo da dentro.
Parte delle tue cellule ne sono già state intaccate
– dal tarlo, dico – e muoiono lentamente.
Lentamente s’increspano e scricchiolano come foglie
calpestate in un viale autunnale.
Le foglie sono colorate, però. Tu no, il nero è
un non colore
che li riunisce e li annulla tutti quanti. I colori, dico.
“Hai bisogno di qualcosa?”
“No, grazie”
E poi vengono queste voci di falsa pietà; voci ipocrite che
domandano e che prestano favori vacui.
No, scuoti
la testa leggermente facendo ondeggiare i capelli scuri. Di cosa
potresti aver bisogno? Hai già tutto quello di cui hai
bisogno. Respiri,
dopotutto. Non necessiti d’altro: l’acqua e il cibo
passano in secondo piano mentre il semplice fattore di respirare
diventa una necessità, perché non ti ricordi quasi
più come si faccia.
Respiri ed espiri.
Respiri ed espiri.
Espirando singhiozzi.
Non ami farlo davanti a quelle voci ambigue e a quegli sguardi curiosi,
preferisci essere da sola nella tua stanza spoglia. Da sola. Nessuno
deve vederti spaventata perché non riesci più a
respirare.
Le lacrime sgorgano, senza che tu te ne renda conto, dagli occhi chiari
e corrono lungo le guance, il profilo del volto per poi cadere sulle
lenzuola candide e profumate di pulito; e il respiro
s’interrompe per alcuni secondi, poi riprende. S’interrompe di nuovo.
Aspiri troppo ossigeno fino a che la gola non sembra spaccarsi in due
bruciano.
Quando torni a ricordare come respirare tutto diventa quieto e
silenzioso come prima. Il silenzio perfetto per quelle voci.
Le tue guance sono asciutte e gli occhi chiari come poco fa. Ma le
lenzuola sono bagnate dalla tristezza e nasconderle è difficile.
Hai nascosto anche le lenzuola sporche di dolore vermiglio, ricordi?
Ma preferisci non ricordare
altrimenti il tarlo avanza più in fretta.
“Perché non mi racconti cos’è
successo?”
Ecco, appunto.
Perché dovresti parlarne – rivangare –
le cose successe?
Perché girare il coltello nella piaga? Perchè
dare anima - sostentamento - al tarlo?
E allora chiudi gli occhi, perché fuori la luna è
alta e tu sei stanca. Terribilmente
stanca; i tuoi muscoli gridano stanchi di non potersi
stiracchiare e il tuo cervello è costretto a rallentare...
ogni... pensiero...
Buio.
Devi prendere le pastiglie ogni sei ore. Le pastiglie sono tre. Servono
per tenerti calma e rilassata, per
non farti desiderare la morte, dicono. No, non dicono
l’ultima parte, ma la pensano, che è quasi la
medesima cosa.
Le pastiglie contro la
morte.
Sembra una frase da fantascienza, da romanzo.
Sì è così.
Ma quello che ti è successo non è una storia da
leggere prima di andare a letto.
I protagonisti di questa storia sono due.
Uno è buono, l’altro è cattivo.
Riesci a vedere – a sentire - il pavimento sporco e peso
opprimente del corpo. E poi il male.
E il sangue. E i singhiozzi. E ti perdi. E urli. E dimentichi il
respiro.
Forse due delle
tre pastiglie ti sono scivolate a terra prima di prenderle?
Panico.
D'improvviso non vedi altro; annusi la paura stessa ed
è come morire di
nuovo, lacerando la carne.
Ma non vuoi morire.
Hai paura
di morire.
Comunque non ti sono mai piaciuti i lieti fine, giusto? Sapevano troppo
da favole per bambini piccoli; erano troppo zuccherosi e troppo
irreali.
“Hai bisogno di qualcosa?” domanda
l’infermiera porgendoti il bicchiere d’acqua con le
cinque pillole bianche - non erano tre?
“Vorrei il mio visse
per sempre felice e contenta”
Perché
alla fine il mostro – il tarlo – muore. Deve morire.
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