Isidore viveva per sognare
“Come
ti chiami, giovanotto?”
Isidore,
signora
“Isidore e poi?”
E poi niente,
signora. Solo Isidore.
“Che sciocchezza! Dovrai pur avere un cognome,
no?”
No, signora.
Io non sono mai esistito.
Isidore – solo
Isidore - nasce in un quartiere periferico di Chicago,
vent’anni fa. Non ha né padre né madre;
viene abbandonato sugli scalini dello “Saint Mary’s”,
l’orfanotrofio, che ha ancora tracce di grumi di sangue e
lacrime materne tra i piccoli pugni serrati e gli scuri capelli radi.
Sembra quasi una foglia raggrinzita, vero?
Troppo piccola e troppo diversa se paragonata al freddo marmo candido
su cui giace, piagnucolando sommessamente.
Ed è proprio così che la direttrice
dell’istituto lo trova: sporco, sveglio e affamato, in una
sera di giugno particolarmente quieta.
Nessuno rimane fuori l’orfanotrofio –
è una delle regole principali che vengono rispettate
– perciò Susan Hole lo prende delicatamente tra le
braccia e lo porta al riparo. Lo affida alle cure di una delle ragazze
nuove che lo lava, l’avvolge in una calda coperta e gli canta
una ninna nanna dolce e malinconica, sperando che il piccino si
addormenti presto, che il sonno piombi sul suo sguardo ancora vago. Non
hanno nessuna balia, nessun nutrimento per un neonato – lo
andranno a comprare l’indomani – Se si addormenta,
la fame potrebbe passare.
Ha solo poche ore,
dice la direttrice posando sulla scrivania lucida gli occhiali da
vista. La vecchia donna sembra stanca e vorrebbe andare a dormire.
“C’era un biglietto, Mrs Hole” riferisce
la giovane educatrice; è riuscita a far addormentare il
neonato.
“Di che genere?”
“Credo sia il nome che la madre ha scelto per suo figlio.
Isidore. Ma non c’è
nient’altro”
“Un’altra cagna. Non meriterebbe nemmeno di
vivere” e la ragazza trasale appena innanzi a quel linguaggio
e, prima di parlare di nuovo con voce sottile e timorosa, lascia che i
rintocchi dell’orologio a pendolo scandiscano il suo respiro
e i sospiri della direttrice.
“Posso fare altro?”
“No, cara, vai pure”
Isidore cresce in quell’orfanotrofio spoglio, con grandi
sale, enormi finestre e immensi vuoti. Non è
l’unico bambino, ma non può fare amicizia con
nessuno. Nessun bambino lo invita a giocare con lui; nessun sorriso,
solo sguardi curiosi.
Perché Isidore non esiste.
Perché Isidore non parla.
"Ma come?"
"Jane mi ha detto che sua madre gli ha tagliato la lingua
quand’è nato"
Bleaaah!
Isidore ha controllato più e più volte, chiuso
nella sua stanzetta, con uno piccolo specchio tra le manine delicate;
la lingua ce l’ha ancora. Non sembra tagliata, anzi,
è tutta intera.
Ma non riesce a parlare. Eppure
pensa. Ma non parla.
Non è un bambino felice, Isidore.
Vede giovani coppie venire e andare dall’orfanotrofio con
sorrisi, con piccoli regali e, qualche volta, insieme a loro si
allontana anche un bambino o una bambina. Loro hanno trovato una
famiglia. Hanno trovato il colore.
"Ehi, piccolo.
Perché tutto solo?"
"Oh, signore, lui non parla. E’ stupido"
Isidore non uscì mai dall’inferriata del Saint Mary’s.
Ha imparato a scrivere e a leggere grazie a Miss Claud e alle sue
lezioni. Ma quando inizia la parte dello studio e della verifica,
Isidore ne rimane escluso. Non può parlare e nessuno,
d’altro canto, ha voglia di rimanere ad ascoltare i suoi
mormorii aspirati e senza senso. C’era il programma da
concludere. Tu puoi
andare nella tua stanza, dicono.
Eppure Isidore ha così tanto da dire, da urlare.
Inizia a piangere la notte, seppellito nel letto, il cuscino premuto
sul volto per non far scappare nessun singhiozzo o singulto che sia.
Ha un grande nodo alla gola e la testa è vuota. Troppo
vuota. Vuole imparare anche lui qualcosa. Vuole essere come tutti gli
altri bambini.
"Che
cos’hai fatto, Isidore?"
"Cos’è successo? Oh, per
l’amor del cielo!"
"Ha rovinato la parete con un gessetto. Dove l’ha
trovato quel gessetto?"
"E ora? Andranno via tutti questi segni?"
Ma non sono segni quelli sulla parete della stanza di Isidore. E
nessuno lo capisce, lui vorrebbe dirglielo che ehi, guardate che vi state
sbagliando ma non esce nulla dalla sua gola arida.
Non sono segni, sono
delle figure che lo vengono a prendere. Non vedete?
Una delle figure è più alta, l’altra un
po’ più bassa. Tra le due c’è
un bambino – eh sì, è proprio lui,
Isidore! – che sembra sorridere.
Nessuno capisce.
Ma lui ha capito una cosa: ha gridato un po’ del suo
desiderio con quei segni. Un po’. Ma l’ha fatto.
Sono le parole nella sua testolina a dirgli cosa disegnare. Gli
piacciono quelle voci.
Cominciano anche i sogni insieme ai disegni. Sono sempre diversi gli
uni dagli altri; Isidore è in una spiaggia azzurra una
notte; in una nave dei pirati; in una mongolfiera; a cavalcioni di una
nuvolo soffice.
Inizia a disegnare quello che vede di notte; i colori non li trova
– ci sono solo gessetti scuri come le nuvole gravide di
pioggia – e quindi li immagina.
Quando la direttrice e le ragazze vedono che scarabocchiare
è l’unica cosa che il bambino ha voglia di fare,
gli procurano dei fogli pressati male e dei vecchi pastelli sbeccati, e
lui disegna. Disegna la mattina, la sera, il pomeriggio, disegna anche
per tutto il giorno se piove o è troppo freddo per uscire
nel piccolo giardinetto disseminato d’erbacce.
Finalmente ha qualcosa da fare quando tutti gli altri studia.
Dipinge i suoi sogni.
A dieci anni inizia a pensare di essere un alieno. Perciò
disegna la sua navicella spaziale e il suo universo e le sue stelle.
A undici anni vede il cielo oscurarsi per qualche minuto. E sporca
diversi fogli riempiendoli di nero. Nemmeno un punto di bianco.
A dodici anni ode il pianto di una bambina tanto carina oltre
l’inferriata. Ha fiori tra i capelli, quella bambina, e occhi
che sorridono.
A tredici anni sente il silenzio della morte della direttrice. Gli
dispiace. Magari se la
disegna, tornerà a sentirsi bene?
A quattordici anni non prova niente. E non ci sono che fogli
spiegazzati.
A quindici anni esce dalla finestra della sua stanza e si arrampica
nella grande quercia del giardino. Dipinge l’alba consumando
tutti i suoi pastelli.
A sedici anni è il suo sangue quello che cola sulla carta
sgualcita. Billie l’ha picchiato. Il perché non lo
vuole ricordare.
A diciassette anni, Isidore, è stanco. La sua stanza
è zeppa di fogli e disegni. Non ha un paio di pantaloni che
non siano strati in un punto dai pastelli.
Decide di essere troppo grande. La
sua voce è troppo grande per quell’edificio.
Il 23 gennaio Isidore scappa dall’orfanotrofio, scavalcando
l’inferriata e correndo lungo i viali d’ombre e di
lampioni.
Non ha nessuna idea di dove andare. Non ha parola, non ha denaro, non ha un nome.
Essenzialmente non esiste ma possiede le sue voce e i suoi pastelli e i
suoi sogni.
Ricorda molto bene, Isidore, la sua prima notte all’aperto.
Aveva le dita troppo fredde per impugnare il carboncino e per disegnare.
Gli operai che la mattina vanno a lavorare alla vecchia fabbrica, non
dicono nulla al ragazzo, si limitano a guardarlo imbrattare le vecchie
mura con quei suoi colori cangianti, con quelle figure. E un po' si
divertono; allegra loro la giornata plumbea.
Joe Mills un giorno lo avvicina, è il proprietario di una
bottega d’antiquariato.
La sua parete avrebbe
bisogno di essere ridipinta, gli offre. E Isidore accetta
all’istante.
E in un battito di ciglia possiede dei veri colori, delle
vere tele e allora non mangia, non dorme più. Deve fare presto.
Deve dipingere i suoi sogni, non può aspettare.
Joe Mills l’ha assunto nel suo negozio più per
pietà che per professionalità: il giovane
è intelligente ma ha la testa tra le nuvole. Sa a mala pena
far di conto e scrive con una calligrafia storta.
“Hai
mai scritto, ragazzo?” sbotta un giorno Joe.
A cosa mi
serve scrivere, se dipingo?, scrive Isidore su un foglio e
glielo mostra.
“Quando non dipingi cosa fai?”
Muoio.
Isidore – solo
Isidore – abbandona i suoi sogni una notte
d'inverno, stroncato dalla sua malattia che l’ha corroso fino
all’ultima pennellata.
“Aveva
solo vent’anni”
“Che peccato. Che tristezza”
“Dì un po’ lo
conoscevi?”
“Come no? Lavorava dal vecchio Mills, era un buon
ragazzo. Ma non sembrava malato”
“Di cos’è morto?”
“Boh.
Una malattia rara, credo”
"Era anche un giovane carino"
"Scherzi? Se non eri una tela neanche ti guardava!"
Quando i medici entrarono nella sua stanza per controllare lo stato e
prelevare il corpo, trovarono una settantina di tele raggruppate in un
angolo e centinaia di schizzi. Il lavoro di una vita troppo corta.
Riverso sul pavimento c’è Isidore, le labbra
socchiuse in un muto singhiozzo, le iridi fredde e le dita sporche di
colore.
“Avete
trovato di cos’è morto?”
“I risultati sono inconcepibili”
“Perché?”
“I suoi timpani sono perforati”
Isidore – solo
Isidore – muore in una notte fredda –
assordato dalle urla nella sua stessa testa. Le sente diventare sempre
più forti, più
acute. E i sogni iniziano a tremare, si crepano a quei
rumori, cadono in schegge conficcate nella sua anima. Non reggono
più l'impatto di quei boati. E nemmeno lui.
Ha liberato quelle voci nelle tele per quanto più tempo
possibile, sentendole disperdersi debolmente tra le setole impastate di
colore e nell’odore forte della trementina.
Ma sono diventate troppe. E lui non aveva così tante forze
per smorzarle. Alla fine.
Isidore - solo
Isidore - muore in una
notte gelida, assassinato dai suoi stessi sogni.
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