I'm coming back for more
I'M COMING BACK FOR MORE
The sky is crying, streets are full of tears
Rain, come down and wash away my fears
And all this writing on the wall
Oh, I can read between the lines.
Questa storia inizia così, con un elenco puntato di Cose
Essenziali Da Fare Nella Vita scritto a sedici anni su un blocco per
appunti:
. Suonare
. Lasciare questo posto di merda!
. Essere felice
Mi
piacerebbe sorridere, a questo punto, aprire un cassetto della
scrivania vittoriana che non ho ed estrarre il vecchio foglietto
ingiallito. Ci passerei sopra un pollice inelegante, annuirei, magari,
prima di riporlo, e concederei un’occhiata pregna di significato
allo studio dove conservo i cimeli.
La
verità è che ho perso la lista qualche ora dopo averla
sbozzata. Potrei averci risolto sopra degli esercizi di scuola, averci
scribacchiato delle tablature, mio padre potrebbe averne usato il retro
per segnarsi i numeri di telefono di gente che disprezza in segreto. Il
fatto che sinceramente mi stupisce è il ricordarla ancora, nonostante tutti gli anni trascorsi a separarmi dal
borioso ragazzino che impiegava tutte quelle lettere maiuscole, ma che
forse aveva visto giusto. Nel lasciare il Lussemburgo al suo destino
per cercarsi il proprio, nell’invitare a un proprio concerto un
ragazzo svedese molto carino, nel rincorrere sogni che a
quell’età non possono che essere confusi. Oscillavo fra
una carriera teatrale che avrebbe soddisfatto il mio narcisismo
intellettuale, un bisogno di vedere, suonare e toccare le chitarre in
vendita nei negozi di musica e fiumi di droga per alleviare quel mal di
vivere che Baudelaire svendeva a buon mercato.
Londra mi
ha accolto con il grigiore di chi va di fretta, è stata il
teatro dei miei primi passi dovunque essi fossero diretti. Se avessi
conservato un po’ di quel romanticismo adolescenziale mi
accorgerei che il suo ruolo non è stato troppo diverso da quello
di mia madre, dal suo allevarmi lasciandomi sbandare tutte le volte che
reputava necessarie, e gli altalenanti periodi di odio e amore non
fanno che confermare questo. È una città bastarda, di
quelle di cui credi sempre di poter fare a meno finché ti rendi
conto di quanto in realtà le tue strutture mentali siano
misurate su di essa. È stata l’Occidente per me che venivo
dal microcosmo autoreferenziale della piazza di una cittadina anonima,
è una donna a cui so di poter tornare senza che mi ferisca
consapevolmente. E anche se non sentirò mai il bisogno di
chiamarla casa, è stata indubbiamente la prima città in
cui ho inciso il mio storto, malfermo, ingenuo graffio.
Incontrare
Stefan ha avuto un peso significativo nel capire cosa volevo fare della
mia vita. Al tempo suonavo più o meno intensamente in scantinati
più o meno malfamati di Camden Town in compagnia di conoscenze
più o meno occasionali, alternando live e visite a etichette
discografiche che storcevano il naso davanti al mio metro e sessanta
turbolento negli anni Novanta delle boyband e dei fisici scolpiti.
Evidentemente la mia caparbietà presso i loro uffici, la cultura
letteraria e musicale che non esitavo a esibire e il vedermi girare
con quello che tutti prendevano per la mia babysitter le hanno convinte
che non era mia intenzione fare la fine di Cobain senza nemmeno essermi
preso la briga di diventare un mito generazionale, e fu così che
hanno scucito il benedetto contratto. O forse non hanno
pensato a nessuna di queste cose, forse ci hanno scritturato
perché, da bravi economisti della musica, hanno visto i milioni
colare dall’eye-liner degli alternativi che, con loro grande
cruccio, andranno sempre di gran moda.
Resto
comunque molto legato a quei primi mesi di attività musicale
finalmente formalizzata, vedevamo un punto di arrivo in quella che era
solo una colossale partenza e ci convincevamo giorno dopo giorno di
poter davvero vivere del tempo che spendevamo a suonare nelle bettole e
a registrare. E con il cuore in mano posso dire aver avuto poche volte
una paura paragonabile a quella che ho provato vedendo Nancy boy
al quarto posto delle classifiche britanniche. È stato un fiotto
subitaneo, breve, seguito da una sberla di adrenalina che leggevo nei
miei occhi allo specchio e in quelli di Stef, perché è
immensamente grandioso mettere le mani sui tuoi sogni e farli diventare
la tua realtà, ma richiede l’onestà di ammettere a
te stesso che hai trovato quello che cercavi e che ti stai scegliendo
con le tue mani ogni singolo momento che vivrai da lì in avanti.
Ci guardavamo in faccia, io e Stef, e ci chiedevamo se fossimo pronti
ad abbandonare la rassicurante codardia di chi è in lotta con il
mondo. Me l’ha detto, un giorno, “Io dovevo andare al
college, Brian! Dovevo studiare letteratura e laurearmi e lamentarmi di
come fosse pallosa la mia vita convincendomi che se avessi fatto il
musicista sarebbe stato tutto diverso! …Adesso che cazzo
faccio?”. Eravamo fuori da un qualche pub, piangeva e rideva e
capiva che abbiamo scelto una strada che non si può abbandonare,
se non fallendo.
Che fossimo
in tre, sopra quei palchi, è un mero dato numerico. Io Stefan e
Robert. Io Stefan e Steve. Io Stefan e il nuovo Steve. Mi rendo conto,
oggi più che in passato, che quel terzo posto è una
costante sfuggente del nostro gruppo, un collettore di quello che io e
Stef non siamo, un accredito riservato a chiunque sia abbastanza
coraggioso da sfidarci, bravo da convincerci di poter migliorare la
nostra musica e interessante da stuzzicare la nostra vanità.
Steve Hewitt è stato a conti fatti la scelta più
naturale, per quanto mi infastidisca ammetterlo i Placebo sono
un’esperienza nata e cresciuta con lui. Sono stati anni in cui il
tre sembrava davvero un numero senza crepe, nonostante a posteriori la
realtà sia diversa. Non ho rimpianti se non quello di non averne
saputo fare a meno dall’inizio. Sostituirlo con un ventenne
esuberante è stata la più pratica delle soluzioni che ci
si prospettavano. Prendo il meno e lo trasformo in un più.
Bianco per nero. Luce per buio. Avevamo poco tempo, poca voglia di
sperimentare e molta di dimostrare che la ragione era dalla nostra:
rovesciare le nostre basi era la via d’uscita più
accessibile e meno impegnativa. Diventare l’opposto di ciò
che si è non richiede un grande sforzo, ed è molto
più banale di quanto io stesso immaginassi. Non è un
equilibrio. È una polarità che annulla la polarità
precedente, e crea quel terreno neutro in cui ora ci troviamo, noi e la
nostra difficile lettura di ciò che vogliamo fare. Che un giorno
dopo l’altro è sempre più difficile fare. Se Steve
ne fa parte nell’immediato, non so che cosa accadrà più avanti; mi auguro che possa continuare con noi, anche se sono
abbastanza disilluso da non preoccuparmene.
Per cui,
sì, quegli scarni propositi di tanti anni fa, insigniti di una
lucidità lungimirante che non avevano, possono valere anche
oggi. Continuerò a suonare finché sarà la cosa che
saprò fare meglio. Ho abbastanza soldi e voglia di vedere il
mondo per fuggire da tutto questo ogniqualvolta me ne venga il
capriccio, ho una barca sulla Senna per convincermi di poterlo fare
davvero. Mi interesso di meditazione nella speranza di scoprire parti
di me che ancora non conosco e che non mi annoino come le altre, credo
nell’influsso degli allineamenti astrali sulla vita
dell’uomo perché è un modo come un altro per
ammettere l’esistenza di Dio. Ho un concetto di felicità
non molto diverso da quello della maggior parte delle persone che
conosco: se piove m’incazzo, se c’è il sole sono
felice; se mentre suono mi si spezza una corda m’incazzo, se
trovo un film coinvolgente mi distraggo e sono felice; se mi tradiscono
non sono felice; se faccio sold out sono felice; se mio figlio fa
qualcosa di particolarmente stupido sono felice; se sono innamorato
sono felice; se mangio bene al ristorante sono felice. La
felicità è un meccanismo talmente banale
da risultare intollerabile a chiunque sia abbastanza vanitoso da
credersi diverso dagli altri, e rivestiamo il dolore di
un’importanza smisurata per crederci unici almeno nella
sofferenza. Sarà l’età e la stanchezza che si porta
appresso, ma mi risulta sempre più faticoso riservarmi questi
piccoli inganni narcisistici. La felicità per me è una
serie di volti che affiorano nella mia vita in momenti differenti. Un
bambino di sette anni che non mi assomiglia. L’attimo in cui ho
creduto che con Helena sarebbe stato per sempre. Stefan. La foto in cui
abbraccio David Bowie. La musica che entra nello stomaco. Il giorno in
cui ho incontrato Bill. Alex. I Sonic Youth e i Pixies. Le mie
chitarre. La mia libreria. I miei vinili. Le persone che mi insegnano
qualcosa di nuovo. Lo sguardo ottimista che mi concedo quando penso al
futuro.
Rain, come down, forgive this dirty town
Rain, come down and give this dirty town
A drink of water, a drink of wine.
Dire Straits, Hand in hand
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Mi sono
resa conto di non aver pubblicato in questa sezione dal 2009, anche se
di fatto sono stata sempre qui e sono sempre più qui. Mi sarebbe
piaciuto tornare in un altro modo, con i tre capitoli (ADESSO LO DICO,
COSÌ LO FARÒ!) su Brian e Helena che ho in progetto da un
po’ di mesi e che credevo di scrivere quando mi sono messa al
computer. Fa niente. È uscita questa cosa qua e – oh, ho
riscritto questa frase tre volte e fa sempre schifo, la taglio
così impara.
Ce l'ho la cosa importante da dire: il titolo è in inglese e
ha vinto lui, ma solo perché tradurre le canzoni è
impossibile e sbagliato, ecco.
A presto :)
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