“Principe Komali, davvero non vedo di che possiate
lamentarvi. La
vostra stanza ha una vista splendida. Stringete tra le braccia il
nostro più grande tesoro, come fosse un balocco…
perché restate sempre
tanto cupo, e infelice…?”
Komali di rado ascoltava. Facendo una
lieve pressione con le mani sul cornicione della finestra, riusciva a
issarsi in modo da poter contemplare il mare. Lasciava correre lo
sguardo tra i flutti, osservava le loro forme, cangianti, e il loro
colore… lo stesso, sfumato, del cielo.
Le sue badanti lo avrebbero
voluto allegro e spensierato, ma, in realtà, i bambini non
lo sono
affatto. Avvertono il peso di ciò che non conoscono; e
Komali era
infelice, perché i suoi pensieri non conoscevano sentieri
lieti,
all’infuori di quello tracciato dal sorriso di Medli, e
quello che
seguiva il suo sguardo oltre quella finestrella.
Se giocava con le
sue bambole, tra le sue mani non riusciva a vedere altro che bambole.
Al di là di quella finestra, vedeva velieri, pirati,
tempeste, antichi
mostri, giovani eroi, principesse addormentate…. la sua
eccitazione
diventava tale da spingerlo ad aggrapparsi al cornicione con le sole
mani, e sollevarsi un momento da terra.
“Principe Komali, cosa desiderate…?”
Desidero volare.
Ma, quando la presa gli scivolava e la gravità, implacabile,
lo trascinava a terra, cominciava a tremare.
Si sentiva piccolo, debole e già gli sembrava
d’agonizzare.
Grande abbastanza…? Mai.
Singhiozzava.
Fuori, il vento soffiava, blando.
Un rintocco dopo l’altro, la sera si approssimava.
“Siamo di nuovo in attesa,” mormorò
Tetra, le dita ferme sul vetro appannato del boccale.
Canterellò ancora una volta quella nenia senza senso.
“Silenzio infinito, che passa e va
Resta un momento, quando arriverà
Rimani a ballare, rimani al banchetto
Rimani a vedere se muta d’aspetto”.
Non ricordava dove l’avesse appresa. In qualche porto,
probabilmente. Sapeva di sciocchezza da marinaio ubriaco.
E lei, giovane capitano, sedeva da sola, nel cuore della notte,
vegliava durante il sonno dei suoi marinai.
Sentiva freddo.
E
aveva sonno. Per quanto sciocca le potesse sembrar quella filastrocca,
cantare le avrebbe impedito di dormire; continuò a cantare.
Rimani… rimani… rimani.
Sentì chiamare il suo nome, ma non rispose.
Dovrei andar via…?
Il vento era forte. La scuoteva.
Lasciami.
“Capitano!”
Gonzo era sveglio, e in piedi di fronte a lei. Grondava acqua. Le
chiese frettolosamente se stesse bene.
“Certo, sciocco,” fu l’ovvia risposta.
“Mi sembrava… mi è sembrato che
steste… tremando”.
Tetra lo fissò.
“Gonzo, tu sei mai stato bambino?” chiese infine.
Questi sembrò incerto sulla risposta da darsi.
“Te lo dico io, sì. Proprio non li ricordi,
eh?”
“Cosa… Capitano…?”
“Gli
incubi che si fanno da bambini. Quelle inconsce proiezioni lugubri e
insensate che… che…” si
piegò su sé stessa, facendo una smorfia.
“…fanno… male”.
Gonzo preferì non aggiungere altro. Fece un breve inchino,
le voltò le spalle e si allontanò in fretta.
“Gonzo!” si sentì chiamare.
“Capitano…?”
In risposta udì solo un mormorio indistinto, del quale
riuscì a comprendere soltanto: “…se
muta d’aspetto”.
Una brezza fredda lo sferzò mentre rimaneva, senza avanzare,
in piedi sul pontile.
Sto sognando…? si chiese d’un
tratto.
L’Eroe misurava il tempo tramite il suo respiro.
Ma non c’era un Tempo da misurare, là; si era
fermato.
La luce del sole filtrava morbidamente attraverso le vetrate. I
corpuscoli che illuminava restavano sospesi per aria, immobili.
E lì, proprio davanti a lui, poco distante, stava un
piedistallo; e, al di sopra di questo, una statua.
Era difficile capire cosa raffigurasse, da lontano. Solo la sua spada
era visibile, innalzata verso il soffitto.
L’Eroe mosse lentamente un passo. Poi un altro.
I rumori dei suoi passi erano sordi e solitari, in quel pesante
silenzio.
Quando fu vicino abbastanza da poter vedere, alzò lo sguardo.
Era
un ragazzo. Certamente più grande di lui, e di statura
maggiore – ma a
lui simile, incredibilmente simile. Portava una tunica simile alla sua.
Stesso cappuccio. Erano simili persino i capelli. E, quella
spada… la
sua spada, era…
“Sono… sono io,” furono le uniche parole
che riuscì, lentamente, a pronunciare.
Provava un forte senso d’identità con quel
ragazzo. Non era per lui, quella statua… eppure…
Da quanto tempo sono destinato a portare questi abiti?,
pensò.
Cadde in ginocchio.
Il ragazzo che la statua raffigurava era sicuro, glorioso, fermo.
Non sono così, io, si disse. Io
sono… un bambino.
Non soffiò vento, a coprire le sue parole.
@Astrifiammante: E'
comunque sempre interessante leggere i pareri degli 'esterni' al
canone, dà modo di vedere quanta autonomia abbia la storia e
quanto siano stati resi bene i personaggi originali. La seconda parte
è effettivamente la più "oscura", la
più angosciosa e più vicina a un incubo (non
ultimo perché toccata da un incubo) tipicamente infantile.
Molto spesso amo concatenare brevi spezzoni, quasi in una serie di
flashfic, come dici, mentre lo spezzare le ff in diverse parti di varia
lunghezza è una mia onnipresente fisima. In questo caso si
tratta proprio di 'stralci' a sé stanti che acquistano un
significato ben preciso se concatenati, molto azzeccata a tal proposito
l'immagine del bouquet. Gli inframmezzi lirici sono ugualmente una
presenza costante della mia prosa, e qui come altrove sono interamente
di mia invenzione. Nutro, inoltre, una passione sconfinata per le
filastrocche e le rime, che scrivo con la massima gioia. Aggiungo, e ne
parlo perché è argomento della storia, che
rimango sempre ammirata dall'onnipotenza e dalla grandiosità
dell'immaginazione infantile.
Nulla di stupido
nell'esprimere la tua preferenza... io probabilmente a livello
affettivo preferisco la seconda parte, a livello di realizzazione
l'ultima. Last but not least, grazie mille della recensione! ^^
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