Titolo:
La goccia
nella tempesta
Fandom:
I
Fantastici Quattro
Personaggi:
Reed
Richards (Mr.
Fantastic),
Susan Storm (La
Donna Invisbile),
Johnny Storm (La
Torcia Umana),
Ben Grimm (La
Cosa)
Generi:
Introspettivo,
sentimentale
Avvertimenti:
Nessuno
Note:
Questa storia si è classificata prima al Contest indetto
da signorino_,
Marvel
Contest, Prima Edizione: L'Introspezione.
*
Ti
prego, Reed.
Trova
una soluzione.
L'autista
del taxi sul quale stava viaggiando era di origini libanesi.
Susan
non aveva dovuto spendere troppe energie per sfamare quell'improvvisa
curiosità: non era una donna abituata a perdersi in inutili
congetture – non quando poteva semplicemente chiedere.
Glielo aveva domandato con la gentilezza di una bambina cresciuta a
chilometri di distanza dalla riottosa città di New York e
lui
l'aveva scrutata dallo specchietto retrovisore e aveva accennato il
sorriso nostalgico di un ragazzino che aveva dimenticato la strada
per tornare a casa.
Forse
non ci voleva nemmeno tornare, forse nessuno dei due voleva farlo.
Eppure lei era lì, elegante e composta sul sedile posteriore
del
taxi che stava avanzando a singhiozzi nel traffico di Manhattan, e a
casa, in effetti, ci stava davvero tornando.
La
pioggia picchiettava incessante sul tettuccio dell'automobile, il
sibilo delle ruote che affondavano nelle pozzanghere e le decine di
clacson impazziti sembravano rimbombare attraverso i finestrini
chiusi. L'acqua scivolava sul vetro, si portava via i contorni delle
insegne a neon e creava una torbido accozzamento di colori, ma Susan
continuava a fissare la pancia di quel gigante che era New York senza
vedere niente. Non c'era rumore, non c'era confusione, non c'era
niente che potesse trovare spazio nella sua testa.
I
visi di Franklin e Valeria si affacciavano a ogni finestra della sua
mente in continuazione. Erano lì quando Capitan America
aveva
accettato lei e Johnny nei Vendicatori Segreti; erano lì
quando
aveva implorato Namor di appoggiare la loro causa; erano lì
quando
avevano fatto irruzione su Rykers Island; erano lì quando
aveva
dovuto reggere lo sguardo carico di accusa di Reed; erano lì
mentre
veniva travolta dal caos della battaglia, mentre cercava di
controllare che Johnny non si facesse male, mentre sperava di non
dover affrontare il proprio marito in battaglia, mentre tutto attorno
lei a sembrava scoppiare e non aveva altro che il sorriso inaspettato
di Ben a spronarla ad andare avanti.
Ma
quando Reed si era frapposto fra lei e Taskmaster, Franklin e Valeria
se ne erano andati per un istante. Da lì in poi non c'era
stata che
l'immagine di suo marito esanime sull'asfalto distrutto, e Susan era
crollata in ginocchio ancor prima di aver assaporato per l'ennesima
volta il terrore di poterlo perdere per sempre.
Quando
aveva deciso di andarsene, il candore della voce di Valeria l'aveva
inchiodata davanti alla porta con più forza di quanto lei
non avesse
mai dimostrato nei panni della Donna Invisibile.
“ Mamma?”
l'aveva colpita a tradimento. “Mamma, dove vai?”.
Mentirle
aveva fatto più male di quanto non avesse previsto
– si era
perfino chiesta se Reed avesse sepolto tutto quel dolore dietro a
ognuna delle menzogne che aveva raccontato a lei. E Valeria le
martellava di nuovo nelle testa, nel centro di quell'universo di
supereroi che si stava frantumando, e continuava a implorarla di non
andare, di restare, di portarle a casa il suo papà... e
Susan era
sempre lì, accanto a Reed, e d'un tratto non aveva capito
più
niente di quello che stava facendo e di qualunque cosa avesse fatto.
«Signorina,
non posso avvicinarmi più di così».
Susan
distolse lo sguardo dal finestrino e allungò il collo per
scrutare
il tremendo blocco del traffico che ancora la separava dal Baxter
Building. Avrebbe dovuto immagine che i mezzi di soccorso e di
sicurezza sarebbero stati allertati nel più breve tempo
possibile;
non le era affatto difficile immaginare Tony tutto preso nel suo
tentativo di sotterrare ogni prova di quell'ennesimo massacro che la
loro diversità aveva generato.
«Potrebbe
gentilmente aprirmi il bagagliaio?».
Il
taxista sollevò appena la visiera del cappellino e si
grattò
pensieroso il testone pelato. Aprì di nuovo la bocca, ma
Susan era
già scesa dalla vettura e lo aspettava paziente sul ciglio
del
marciapiede. L'uomo inghiottì una bestemmia, alzò
il colletto del
giubbotto e s'affrettò ad aprire il baule.
«Senta,
signorina, io non posso mica portare tutta queste valigie fino
al--».
«Non
si disturbi» lo interruppe con un sorriso premuroso.
«Quanto le
devo?».
«Fanno
undici dollari e trentacinque centesimi».
La
osservò meglio. Era una gran bella donna, come una di quelle
che si
era abituato a vedere affisse ai grattacieli sulla Trentacinquesima a
fare da testimonial per i prodotti di Dior, ma il suo viso portava
tutte le ombre che un bravo grafico avrebbe cancellato dalle
fotografie di ognuna di quelle modelle. Non indossava altro che una
semplice giacca scura su una camicia celeste e un paio di jeans, e
guardandola di sottecchi mentre apriva il baule, il taxista si
accorse che era perfettamente asciutta. Sebbene l'acqua gli avesse
già inzuppato il cappello, la chioma bionda della donna non
sembrava
risentire nemmeno del vento.
Quando
vide le valigie all'interno del portabagagli levitare da sole,
all'uomo venne quasi un colpo. Fece un balzo indietro e le
fissò
galleggiare verso la giovane come se un paio di mani invisibili le
avessero sollevate da terra. Ma non c'era proprio niente: c'era solo
lui con il suo berretto fradicio e lei con i capelli ordinati e le
scarpe immacolate. Capì in un istante.
«L-lei
è... lei è la Donna Invisibile?»
s'informò con voce
incerta, passandosi una mano sul volto e guardandola con gli occhi
sgranati. «Porca miseria, ma è davvero
lei?».
La
donna scostò una ciocca bionda dal volto e
accennò un sorriso privo
di allegria.
«No.
Sono Susan Richards».
Il
taxista la fissò dirigersi a capo chino in direzione del
Baxter
Building. Quando la gente notava le valigie che seguivano da sole la
sua scia, si allontanava d'istinto, scontrava i propri ombrelli con
quelli degli altri passanti e la guardava con la stessa espressione
di confusa paura che avrebbe riservato ad un'invasione aliena. Rimase
fermo accanto al taxi fin quando non l'ebbe perduta definitivamente
di vista.
In
Libano non c'erano mai stati extraterrestri come quelli.
So
che dovrei essere felice.
Ma
non lo sono.
Sfrecciavano
fra le strade di New York già da diversi minuti e Johnny non
aveva
ancora aperto bocca. Susan iniziava a credere che il mondo si fosse
ribaltato una volta per tutte. Johnny che taceva, Ben che la guardava
attraversare l'ingresso di casa senza muovere un dito per fermarla e
Reed che era stato lobotomizzato, che non era più l'uomo che
aveva
sposato, che era pronto ad appoggiare tutto quel feroce teatrino
organizzato da Tony in nome di qualcosa che lei non riusciva a capire
– in nome di qualcosa che lui non aveva nemmeno voluto
spiegarle.
“ Mamma,
dove vai?”.
«È
la cosa giusta».
Susan
voltò appena la testa verso il fratello. Teneva le mani
saldamente
ferme sul volante e gli occhi puntati sulla strada. Per qualche
momento il solo rumore fu quello dei tergicristalli che spazzavano
via l'acqua dal vetro.
«Ne
sei sicuro?».
Johnny
arricciò le labbra in un sorriso scanzonato.
«Non
posso darti sicurezza, Sue. Quello è il tuo ruolo».
«Non
cercavo sicurezza» rispose piano, appoggiando il gomito al
finestrino e affondando il volto stanco nel palmo della mano.
«Volevo
solo sapere se c'era qualcuno in questa macchina in grado di dirmi
cosa stiamo facendo».
Lui
picchiettò con l'indice lo schermo della radio spenta.
«Accendi
e chiedi a Bruce Spingsteen».
Susan
camuffò una risatina isterica in un lungo soffio. Avere un
fratello
idiota era talmente sfibrante da rendere il desiderio di strozzarlo
con le proprie mani talvolta irresistibile, ma Johnny era il suo
personale Peter Pan e per quanto Peter Pan fosse un piccolo demonio,
nessuno avrebbe mai sognato di strangolarlo. Era la magia di Johnny,
quella, la stessa magia di Peter Pan: il ragazzo che non voleva
crescere e che nessuno aveva mai avuto il coraggio di sculacciare.
«È
la cosa giusta, Sue» ribadì d'un tratto Johnny,
con lo sguardo
serio e concentrato. «Fidati di me. È la cosa
giusta».
L'unica
certezza che Susan avrebbe potuto vantare era che non sarebbe stata
certa di ciò che stava facendo fin tanto che la voce di
Valeria
avesse continuato a martellarle nella testa. Risuonava nella
macchina, risuonava nella voce gracchiante nella radio, risuonava
perfino nell'eco dei clacson di New York.
“ Mamma,
dove vai?”.
«Ho
mentito a mia figlia, Johnny» confessò in un
mormorio rauco. Chiuse
gli occhi e appoggiò la nuca al lussuoso sedile
dell'automobile. Non
si era mai sentita tanto provata e inutile.
«Io
ho mentito a un amico. Gli ho detto che avevo una voglia matta di
hamburger».
Susan
sorrise con affetto al pensiero di Ben. Non credeva che lo avrebbe
trovato sveglio a quella tarda ora della notte, né aveva
immaginato
che avesse intuito ciò che lei e Johnny avevano intenzione
di fare.
Eppure era lì, in piedi accanto alla finestra a fissare la
fiammante
automobile ferma davanti all'ingresso del grattacielo. Quando si era
voltato per guardarla, sul suo viso di pietra non c'era una sola
traccia del rimprovero che Susan aveva temuto di vedere. Le aveva
sorriso e le aveva mostrato i palmi con aria rassegnata.
«Io
resto, Suzie. Non posso mica lasciare Mr. Chewingum a tirare avanti
la baracca da solo. Si dimenticherebbe di mangiare».
Susan
aveva appoggiato le valigie sul pavimento, si era avvicinata
all'amico e aveva fatto un profondo respiro. Poi aveva scosso debole
il capo, aveva intrecciato le braccia e aveva lanciato un'occhiata
distratta verso la strada, dove Johnny la stava aspettando
già da
diversi minuti.
«Ben,
io...».
«Ehi,
è tutto okay» cercò di rassicurarla
lui, sfiorandole appena la
spalla con una delle gigantesche mani. «Ci penso io a
ricordargli di
non fare scemenze. Non ti assicuro niente, eh?» aggiunse con
una
smorfia sarcastica. «Ti sei sposata proprio un bel
cretino».
Lei
sbuffò divertita. Rimasero in silenzio qualche secondo, poi
la donna
fece un passo in avanti e appoggiò la fronte contro il petto
duro e
massiccio dell'amico. Per un momento, Ben parve non essere in grado
di reagire, ma poi la sua manona si alzò di nuovo,
avvolgendo il
corpo di Susan in un abbraccio di pietra.
«È
la scelta più difficile che abbia mai dovuto
fare...».
«Lo
so».
«Dimmi
che sto facendo la cosa giusta».
Ben
sospirò affranto.
«Questo
non lo so, Suzie... questo non lo sa proprio nessuno».
Seduta
sul sedile anteriore accanto a Johnny, Susan continuava a
domandarselo. L'abbraccio fraterno di Ben non le era stato di alcun
aiuto; fare l'amore con Reed per l'ultima volta lo era stato ancora
di meno; rimboccare le coperte ai suoi figli, chiudere la porta della
loro cameretta e resistere alla tentazione di tornare indietro
l'aveva sfinita del tutto. Perfino in quel momento, mentre tutto
ciò
che aveva di più caro al mondo dormiva al trentesimo piano
di un
grattacielo di New York, non riusciva a comprendere per quale motivo
se ne stesse davvero andando. Era forse la sua
guerra, quella?
Si era detta di no, si era detta che lei non era mai stata Susan
Storm e la Donna Invisibile: lei era solo Susan
Storm, la
Donna Invisibile che non aveva la più pallida idea di cosa
fare.
L'indomani
Reed si sarebbe alzato di buon'ora e avrebbe trovato un letto vuoto e
un biglietto d'addio. Franklin sarebbe corso in cucina alla ricerca
dei suoi cereali preferiti e forse non sarebbe riuscito a capire
immediatamente per quale motivo zio Ben fosse impalato davanti alla
finestra, in attesa di un'automobile rossa che forse non sarebbe
più
tornata. E Valeria... Valeria aveva il cuore riempito dalle menzogne
che continuavano a mordere lo stomaco di sua madre.
“ Mamma,
dove vai?”.
“ Devo
andare in un posto con zio Johnny”.
“ Ma
poi torni?”.
“ Tornerò
presto”.
Non
era difficile immaginare Valeria fare di quella frase il proprio
personale mantra. Susan le aveva giurato che sarebbe tornata presto
–
e ignorando se sarebbe tornata, come aveva potuto
dirle che
sarebbe stato presto?
Forse
aveva torto. Forse non era mai stato Reed a relegare i loro figli al
secondo posto rispetto ad ogni altra cosa, forse non era lui quello
che non aveva mai dedicato loro abbastanza tempo.
Dopotutto
era sempre stata lei, quella invisibile.
Per
questo abbiamo fatto l'amore
un'ultima
volta.
Era
trascorsa quasi mezz'ora da quando si era richiusa la porta del bagno
alle spalle e si era aggrappata al bordo di ceramica del lavandino.
Reed non aveva sollevato lo sguardo da quei dannati fogli che aveva
studiato per tutta la serata – quelli di cui non doveva
parlarle,
quelli che lei non doveva conoscere – nemmeno per accertarsi
che
sua moglie stesse bene. Susan era convinta che il pensiero non lo
avesse minimamente sfiorato. C'era già troppa roba
importante a
colmare il geniale cervello di suo marito, troppi affari segreti,
troppe cose nelle quali lei non doveva rientrare.
Guardò
il proprio riflesso allo specchio e inspirò profondamente.
Aveva
deciso. Lui l'aveva costretta a decidere. Non
passava un
attimo senza che Susan si ripetesse che non era colpa sua, che non
poteva più scegliere nessun'altra strada, che non c'era
davvero
rimasto più nulla nel suo matrimonio per il quale valesse la
pena di
combattere. Tornava sempre a scuotere il capo e ad accusarsi di
essere una bugiarda e una vigliacca. Da qualche parte del mondo c'era
ancora gente pronta a proclamare il nome della Donna Invisibile con
la stessa passionale gratitudine con cui avrebbero seguito un idolo
d'oro, come se lei non fosse strana, come se fosse soltanto speciale,
ma Susan conosceva bene il suono della menzogna.
Nessuno
di loro era un eroe.
Non
lo era lei, davanti al riflesso di una donna con gli occhi stanchi
che tentava di convincerla ad abbandonare i propri figli e il proprio
marito; non lo era Reed, perso nell'inseguimento di quel progetto che
stava distruggendo loro la vita; non lo era Ben, senza la forza di
opporsi al proprio migliore amico; e non lo era nemmeno Johnny,
troppo desideroso di seguirla in quell'avventura per interrogarsi su
cosa davvero ritenesse giusto.
I
Fantastici Quattro non le erano mai parsi meno fantastici –
non le
erano mai parsi più falsi.
Quando
fu tornata in camera, Reed era ancora seduto dalla sua parte del
materasso con quei fogli di cui lei continuava a ignorare il
contenuto fra le mani.
A
chiunque il suo sguardo sarebbe sembrato brillare della stessa vivace
curiosità intellettiva con cui si era sempre lanciato nei
più
intrigati progetti scientifici. Era sempre stato così, Reed:
incapace di darsi pace quando le sue equazioni rimanevano insolute. E
ci si buttava dentro a capofitto ogni volta, e ogni volta lei era
pronta a sopportare di perdere suo marito negli anfratti più
complessi della scienza. Era sempre stato
così, ma era anche
sempre tornato da lei.
Susan
aveva ormai capito che quella volta, quella dannata e particolare
volta, Reed non sarebbe tornato da nessuna parte. E se anche fosse
tornato, non sarebbe mai tornato del tutto. Nulla di lui sarebbe
tornato indietro, non dopo essersi reso complice della morte di Bill
Foster e dopo averne declinato ogni responsabilità in favore
di un
bene più grande che lei continuava a non vedere.
Si
infilò sotto le coperte e rimase per un attimo a contemplare
l'espressione di totale concentrazione sul volto di Reed. I suoi
occhi erano circondati da pesanti occhiaie, la fronte aggrottata, le
labbra strette in una linea rigida e tirata.
«Reed?»
lo chiamò lei in un sussurro.
L'uomo
non diede segno di averla udita.
«Reed,
guardami» ripeté con più forza,
affondando le unghie nel cuscino.
Parve
trasalire come se non si fosse accorto dell'arrivo della moglie.
Sembrava non averla sentita scivolare al suo fianco, sembrava non
aver notato la sua assenza nell'ultima mezz'ora, sembrava non averla
vista in quel momento così come non l'aveva vista nelle
ultime
settimane.
«Voglio
terminare il controllo di questi dati prima di--».
Susan
era scattata a sedere e gli aveva serrato duramente il polso
sinistro. I capelli biondi le coprivano l'espressione tesa, ma il suo
petto si alzava ritmicamente e ogni centimetro del suo corpo sembrava
tremare.
«Io
rivoglio mio marito. E lo rivoglio adesso».
Reed
scosse la testa e fece un sospiro spossato, ma decise di riporre
l'enorme plico di fogli sul comodino. Appoggiò la nuca alla
testiera
del letto e gli rivolse un'occhiata interrogativa.
«Per
l'amor del cielo, Susan, non--».
«Perché
non hai ancora lasciato perdere questa storia?».
«Perché
stiamo lavorando a qualcosa di giusto. Qualcosa di grande»
replicò con durezza lui, liberandosi dalla sua stretta con
un gesto
secco. Il suono secco con cui aveva enfatizzato la parola
“grande”
la fece rabbrividire. «È un
sacrificio doveroso che porterà
a ottimi risultati».
«La
morte di Bill Foster rientra nell'elenco dei sacrifici doverosi o in
quello degli ottimi risultati?».
Reed
non riuscì a nascondere l'espressione di attonita delusione
sul
proprio viso. La scrutava in silenzio, con la bocca appena dischiusa
e una luce di profonda accusa negli occhi sgranati.
Fu
in quel momento che Susan si rese conto di quanto fosse infinito lo
spazio che li divideva nel letto.
I
suoi polpastrelli sfiorarono appena la liscia stoffa della manica del
suo pigiama, risalirono incerti lungo il suo braccio, carezzarono
appena la linea rigida della mandibola. Lui la evitò come se
il
tocco delle sue mani potesse bruciarlo. Susan serrò gli
occhi e si
ripeté che non aveva altra scelta. Eppure restava
lì, cocciutamente
in bilico sull'orlo del burrone a dondolarsi avanti e indietro, senza
rinunciare alla speranza che qualcuno potesse aiutarla a gettarsi nel
vuoto.
«La
morte di Foster è stata un incidente».
Non
aveva altra scelta – o forse l'aveva, ma non sarebbe stata
quella
giusta.
Posò
un bacio tremante sulle sue labbra. Si stringeva spasmodica al suo
colletto, temendo che i buchi neri che da sempre assorbivano
l'attenzione del marito potessero tornare a reclamare anche il suo
corpo.
«Hai
ragione» mormorò.
Pregò
che la propria menzogna fosse credibile almeno la metà di
quanto lo
erano state le sue. Reed sollevò un braccio, le
sfiorò la clavicola
e giocherellò con espressione distante con la spallina del
suo
reggiseno.
«Ho
bisogno della tua comprensione» la implorò
lamentoso. «Ho bisogno
di mia moglie, Sue».
«Sono
qui».
Si
sentiva un'adultera. Mai come in quel momento, con le labbra di Reed
sul collo, i suoi capelli fra le dita e le gambe attorcigliate con le
proprie, la sensazione di essere sporca e perduta era stata tanto
soffocante. Era l'addio più infido sul quale avrebbe mai
potuto
ripiegare. Avvertiva gli occhi di suo marito cercare il suo sguardo
nella penombra della camera da letto.
Mai
come in quel momento aveva desiderato essere invisibile.
Mi
vergogno di te, adesso.
E
mi vergogno di me stessa.
Avrebbe
potuto allungare le gambe per evitare di fracassarsi sull'asfalto
davanti al Baxter Building o rendere una delle sue braccia talmente
lunga da permettergli di aggrapparsi a un lampione. Mentre
precipitavano nell'inferno esplosivo in cui New York si era appena
trasformata, Reed non aveva bisogno dell'aiuto di sua moglie. Era
Mister Fantastic, lui, l'uomo di gomma
più intelligente del
mondo, eppure l'istinto e l'abitudine di Susan erano stati
più
forti: il suo sottile campo di forza si era avvolto come una sfera
attorno al marito, ne aveva rallentato la caduta e l'aveva depositato
con incredibile grazia accanto a una vecchia Ford blu.
Sulle
labbra di Reed si aprì un momentaneo sorriso nostalgico.
Quando si
voltò, Susan era già alle sue spalle. La sua
espressione seria e
tirata era terribilmente in contrasto con i suoi occhi brillanti.
«I
bambini sono in casa?» s'informò urgentemente.
Susan
sperava che la sua voce suonasse ben più rigida e forte di
quanto
non fosse in realtà il suo cuore. Se solo avesse potuto,
avrebbe
acciuffato suo marito e suo fratello e si sarebbe lasciata alle
spalle l'inconcepibile massacro che stava distruggendo i palazzi di
Manhattan, ma qualcosa in lei continuava stoica a ricordarle quanto
fosse giusto, quanto fosse doveroso.
«No,
sono al sicuro».
Le
aveva mentito per settimane, le aveva mentito al punto tale da non
aver più necessità di nascondere ognuna delle sue
menzogne, ma
Susan sapeva che mai avrebbe mentito sui loro
figli. E
nonostante tutte le bugie uscite dalle sue labbra, Susan continuava a
fidarsi di lui. Era una sciocca? Forse, ma nel fragore della
battaglia civile che li circondava, per un attimo non ci furono che
loro due, ed erano più vicini di quanto non lo fossero mai
stati
negli ultimi tempi.
«Non
combatterò contro di te, Sue».
«Ti
credo» rispose sinceramente. «Ma ti scongiuro di
non costringere me
a farlo».
«Lo
faresti?».
Non
c'era alcun tono di sfida. La sua voce sembrava pulsare di timida
rassegnazione, di timore, forse perfino di
rimpianto.
Susan lo avvertì sulla propria pelle. Custodiva davvero la
risposta
a quella tremenda domanda? Avrebbe davvero avuto il coraggio di
attaccarlo?
Le
parole le uscirono strozzate.
«Sì,
Reed».
Faccio
questo per la più importante delle ragioni.
Lo
sbigottimento sul volto di Reed le fece pensare ad un sola cosa. Non
credeva sarebbe tornata. L'aveva pregata senza alcuna speranza, e ora
Susan era nuovamente lì, in piedi davanti alla porta con i
bagagli
che le galleggiavano attorno e un'espressione tetra sul viso.
«Sue,
sei... tornata».
Era
tornata, alla fine, ma ancora non riusciva a capire per quale motivo.
Fece
un respiro profondo, si passò una mano fra i capelli e si
strinse
nelle spalle.
«I
bambini hanno bisogno di me».
Reed
infilò le mani nelle tasche della vestaglia. Era pallido,
fiacco,
sconfitto. Una parte di lei si ritrovò compiaciuta nel
vederlo
finalmente piegato a ciò che quella stupida guerra aveva
portato.
«Anch'io
ho bisogno di te».
«Di
questo non ne sono per niente sicura».
Fece
per avviarsi lungo il corridoio, ma la voce del marito le
arpionò
con ferocia la schiena.
«Sue,
ti prego... senza di te, che altro mi resta?».
«Una
guerra vinta» sputò con durezza. «I miei
complimenti, Reed».
«L'ho
persa nello stesso istante in cui ho accettato di parteciparvi. Avrei
dovuto ascoltarti».
Susan
sapeva che non stava mentendo. Non lì, non in quel momento.
Reed era
sempre stato un pessimo bugiardo. Non che questo gli avesse impedito
di mentirle, ma non era mai stato sufficientemente abile da
incantarla. Nei suoi occhi non c'erano che paura e dolore.
«Avresti
dovuto, sì, ma non l'hai fatto. Direi che questo non gioca a
tuo
favore».
Avrebbe
voluto picchiarlo. Avrebbe voluto scaraventarlo giù dalla
finestra,
vederlo precipitare sull'asfalto di Manhattan. Mr. Fantastic non si
sarebbe procurato nemmeno un graffio, ma l'onore di Reed Richards
–
l'uomo, il marito, l'idiota – quello
sì che avrebbe sanguinato. Avrebbe davvero desiderato
poterlo
odiare, anche solo per un attimo di labile sicurezza. Odiarlo sarebbe
stato facile. Restare immobile nel corridoio sotto lo sguardo ferito
dell'uomo che nonostante tutto continuava ad amare, invece, era
troppo difficile.
«Perché
sei tornata?».
Una
domanda stupida, si disse. Eppure lei non ne possedeva la risposta.
«Non
lo so» gli disse. «Ma tu sei un genio, Reed, forse
puoi aiutarmi a
capirlo. Perché sono tornata?».
Reed
esitò.
«Perché
mi ami» mormorò piano.
«Questo
è solo ciò che vorresti sentirti dire».
«Questo
non significa che non sia vero».
Certo
che era vero. Era innegabile. Quando si era frapposto fra lei e
Taskmaster, ogni più infimo astio nei suoi confronti era
svanito.
Dinanzi al suo corpo esangue, per Susan non era contato più
nulla.
Aveva sentito i mostri della rabbia e della paura scorrerle sotto il
sangue, la tremenda possibilità di non poter più
vedere il suo
viso, il suo sorriso, di dover dimenticare il calore delle sue mani e
il suono della sua voce. La paura di perderlo, semplice e dolorosa,
sbattuta così duramente sull'asfalto, alla fine aveva
prevalso.
E
lei, alla fine, aveva capito.
«Io
non posso perderti, Sue».
“ Neanch'io”
sussurrò
una voce improvvisa
nella sua testa. Eppure rimase in silenzio, con un ciuffo di capelli
biondi a coprire un sorriso appena accennato.
Aveva
sempre avuto la risposta.
Ti
amo, Reed.
Più
di qualunque altra cosa al mondo.
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