Scritta
per il concorso AU indetto da Lisachan sul forum, e arrivata terza
con un inaspettato e graditissimo 8 tondo! Gioia e tripudi! Grazie a
Lisachan per darmi sempre nuovi motivi per buttarmi a capofitto in
generi a me ignoti (e sfracellarmici contro in allegria), ad Anachan
co-giudicessa, e non da ultimo a Harriet, Melantò e
RedEagle86
gloriose compagne di ventura!
Riguardo alla fanfic in sé, il
prompt era appunto "Alternate Universe", mentre la mia idea
portante era "mondo reale, ma non scolastico per pietà
basta".
Mi è sembrato che questa particolare ambientazione
riprendesse
decentemente legami, origini e obiettivi degli originali, seppur in
chiave molto più leggera. E poi è il mio
mondo *indica foto nel profilo*, una volta al mese o giù di
lì, e
mi sono divertita a scriverlo. :) Un saluto ai due adorabili
sirenetti, se mai leggeranno queste righe, sapete chi siete!
Specifico che è un... AU dell'AU, visto che in questo 'mondo
reale' non esiste Final Fantasy. Squaresoft è... boh,
è fallita nel
1986 ed Enix regna incontrastata nel campo dei JRPG. So there. Amano
resta un famosissimo illustratore, Sakaguchi ha fondato Mistwalker
una decina di anni prima, Uematsu produce cd kitsch in proprio, Naora
vende tulipani in Olanda, Ito fa Prezzemolo a Gardaland (lunga
storia...), Nomura disegna gente tamarra per Capcom, Kawazu produce
cortometraggi postmoderni in CG, Watanabe compone haiku, e via
dicendo. E, con quest'ultima uscita completamente random, vi lascio
al racconto.
Lyrics: FFX OST - Otherworld. Il copyright è degli
aventi diritto.
Cronache
dell’altro mondo
Go
now, if you want it
An
otherworld awaits you
Don't
you give up on it
You
bite the hand that feeds you
Impossibile
sbagliare: era finito in un altro mondo.
Il
ragazzo si stropicciò gli occhi, sperando che quando li
avesse
riaperti la folla colorata e aliena se ne sarebbe andata. Li
riaprì.
Niente da fare. Era in un altro mondo. E aveva anche pagato 5€
per
entrarci.
Sconsolato,
si dedicò ad osservare gli altri visitatori. Quando aveva
accettato
di andare a Cartoomics nessuno gli aveva accennato a…
quello. Notò
con sollievo tracce di civiltà – una maglietta dei
Blind o due in
giro per l’atrio, un paio di graziose impiegate di
FieraMilanoCity
– ma il resto della gente… tutte le
tonalità dell’arcobaleno e
qualcuna in più. E non un viso noto. Erano già le
undici passate.
Non avevano nessun diritto di rovinargli una sana reputazione da star
e ritardatario cronico…
“Secondo
te è lui?”, sentì dire alle sue spalle.
“Capelli
neri sciolti, fascia rossa, maglia e jeans tre taglie sopra…
se ben
ricordo il topic la descrizione sembra calzare. Mi avvicino io,
Lord…”
Lord?
Ma questi sono tutti sciroccati…
“Meglio
di no o lo spaventi. Vado io… mi tieni gli accessori,
sì?”
“Jecht?
Sei tu Jecht?”, chiese poco dopo la prima voce. Ci mise un
po’ a
ricordarsi che, sì, Jecht era lui, e che probabilmente anche
fra gli
extraterrestri era d’uso voltarsi e presentarsi, e
così fece.
Si
trovò davanti un giovane, all’incirca suo
coetaneo, che gli stava
tendendo la mano col sorriso più sincero e inutile che
ricordasse di
aver mai visto. Cercò di associare un nome al volto, ma non
aveva
mai prestato attenzione a quel genere di cose e né le lunghe
ciocche
di capelli castani, né la bizzarra accoppiata di sciarpa di
lana blu
e maglione rosso cupo in quel marzo dal caldo infernale, né
un
portamento che avrebbe definito d’altri tempi gli suggerirono
nulla. Errore che non avrebbe più commesso,
perché pur nelle sue
stranezze (“Lord”? Suvvia…), o anche a
causa di esse, il tipo
aveva carisma, una forza gentile che irradiava dal sorriso.
Dietro
di lui, un ragazzo imbronciato pochi anni più giovane di
loro, sulla
ventina scarsa ipotizzò Jecht, reggeva con
sacralità due sacchi
neri della spazzatura e un terzo saccone di carta del tipo che danno
nei negozi di vestiti.
Preferì
non porsi domande.
“Sì,
sono io”, rispose infine tornando a squadrare il primo, che
stava
ancora sorridendo senza che l’atto sembrasse minimamente
forzato.
“Siete di TLW.it?”
“Così
è. Io sono Lord Braska, abbrevia pure in Braska. Lui
è Auron. Ma,
perdona la curiosità, non hai seguito il topic della
fiera?”
“Er,
no.” Gli mancava solo quello, si disse. Già gli
allenamenti gli
toglievano ogni forza per connettersi, una volta a casa, e comunque
di quel covo di sciroccati seguiva solo i topic di sport, musica e
sciocchezzuole da Youtube. O quelli che gli suggeriva Tidus. A
proposito del quale…
“…gli
altri?”, chiese, con un’espressione genuinamente
allucinata.
“Tidus… Wakka… Yuna…
Belgemine…”, continuò con lo stesso
tono vacuo, indicando il vuoto come se si aspettasse che gli utenti
che aveva nominato comparissero dal nulla a suo comando.
“Sciopero
delle FS… ma, perdiana, davvero non avevi sentito nulla? Non
ti sei
proprio informato prima di venire, suppongo… mi
spiace”, lo
compatì Braska con un tono che fece scattare il panico in
Auron. Non
quella Cartoomics, non con un estraneo che si era iscritto al
‘loro’
forum solo perché ci era stato trascinato da un altro
cretino
esaltato che si dava il caso unisse interessi sportivi a quello
–
dubbio – per i videogiochi… Tutto
questo non sta succedendo,
si ripeté come un mantra, tutto
questo non sta succedendo.
“E
neanche Rikku è potuta venire, nonostante abbia la macchina,
perché
si fida abbastanza della sua abilità al volante per
affrontare un
tratto autostradale così lungo…”,
continuava serafico Braska
sotto lo sguardo stralunato di Jecht.
“C’è solo YuYevon91, è di
Milano anche lui, ma…
“…quel
niubbo pazzesco si attacca come una cozza…”
“…ed
è meglio se non ci facciamo neanche riconoscere.”
Degni
di Qui Quo e Qua. Bene, concluse Jecht. Sarebbero dovuti essere in
quindici, aveva aspettato mesi il giorno in cui avrebbe potuto
incontrare di persona Tidus e Wakka e parlare dal vivo
dell’Eurolega
e tutto, aveva accettato perfino di partecipare a
quell’assurda
manifestazione, e si trovava solo con due perfetti sconosciuti. Ma
almeno su una cosa andavano d’accordo.
Guardati
in faccia prima di dare del niubbo pazzesco a qualcun altro,
lo silurò uno sguardo di Auron.
O
quasi.
“Bene,
visto e considerato che in tre si è in compagnia e che non
abbiamo
modo o desiderio di allargare la nostra cerchia, noi inizieremmo il
giro di fiera. Che dici, Jecht, sei dei nostri? Se non vuoi fa nulla,
ma stai in guardia, il posto tende a essere dispersivo alla prima
visita.”
“Suona
interessante. Dov’è la fregatura?”
“Ha…
così facile da intuire?”, sorrise di nuovo Braska,
tentando di
suonare minaccioso, ma l’espressione serena del suo viso era
talmente radicata che finì solo per essere estremamente
buffo. “Avrò
bisogno di una mano… o tre, un aiuto fidato che mi sostenga
in
quest’avventura. Una sorta di guardiano, mettiamola
così.”
“Avventura…?
Di che diamine stai parlando, amico? Siamo in una dannatissima fiera
mercato, no?”
“Pensavo
tu l’avessi capito dalla quantità di roba che,
ehm, il mio
attaccapanni personale sta gentilmente reggendo. Sono un
cosplayer.”
“L’attaccapanni
personale avrebbe una rimostranza, Lord Braska…”,
s’intromise
Auron da sotto il peso degli accessori, “Questo im-inesperto…
come spalla? Non posso permetterlo.”
“Ti
preoccupi troppo. Il tuo torneo è più importante
del mio contest,
me la caverò comunque. Che ne dici, Jecht?”
Domanda
retorica. Aveva altre scelte? “Ci sto! Una sola
domanda…”
“Sì?”
“Cos’è
un cash-player, ad ogni modo?”
“Un
po’ di rispetto”, sibilò Auron,
“o almeno di cultura
generale…”
“Ehi
cocco, non c’è motivo di prendersela
così, manco l’avessi detto
a te poi!”, scattò Jecht sulla difensiva. Stava
esagerando con le
insinuazioni. Ripensandoci, forse era con lui che aveva avuto quello
spassoso flame l’anno prima, ma tenergli ancora il broncio
per una
cosa del genere sarebbe stato incredibimente infantile... Non ebbe
però la prontezza di esternare quelle considerazioni prima
di un
perentorio intervento di Braska.
“Basta,
entrambi. O vi banno dalla fiera… a calci.
Cos’è un cosplayer,
chiedevi?”, riprese. “”Niente di strano
nel non saperlo,
suvvia, anche se credevo che col recente interesse mediatico il
fenomeno fosse più noto. Facile a spiegarsi, comunque, data
la
situazione. Vedi quello laggiù?”, disse, puntando
il dito in
direzione di un ragazzo in braghe di tela con un’enorme spada
in
cartoncino che oscillava in modo abbastanza precario.
“Objection…”,
sussurrò Auron sconcertato.
“Uh,
accolta, Worthy, accolta… Ma chi altro potrei…
oh! Sia
ringraziato il santo protettore del prop making, ecco Refia che
arriva in tutto il suo splendore, nondimeno! Dicevo, vedi
quella?”
Corresse
il tiro indicando un’aliena più aliena degli
altri, una ragazza
che sembrava scomparire sotto un’armatura scintillante, vesti
degne
del miglior principe azzurro e una folta chioma argentea intrecciata.
Il suo portamento era fiero, e brandiva la spada come una vera
guerriera sotto i flash di un capannello di fotografi.
“Quella”,
ripeté con una punta di orgoglio, “quella
è una
cosplayer.”
Jecht
ci mise qualche istante a processare.
“Figuranti
in costume. Cos – play. Ce l’ho. Sei assoldato
dall’ente fiera
per ravvivare la manifestazione. Figo!” Accompagnò
il commento con
un pollice alzato. Al contrario del compagno, con le sue scope
infilate dove non batte il sole dal vivo più ancora che
online,
aveva deciso che Braska gli piaceva. Assodata l’impressione
iniziale, era paziente, socievole e non se la tirava troppo, non era
difficile immaginarlo a capitanare qualche squadra, e si ripromise di
chiedergli se avesse mai provato a giocare a
pallanuoto.
“…sogno.”
Non
aveva sentito una parola. Jecht non era abituato all’idea che
il
resto del mondo avesse qualcosa di interessante da dire, abituato
com’era ad essere al centro dell’attenzione della
sua vasta
cerchia di amici, on- e offline. Così, quando seguiva i suoi
pensieri più che il discorso non se ne curava troppo, e
lasciava
perdere il tutto con un fugace cenno di approvazione. Ma quella
pareva essere un’informazione portante, il cardine della
cultura
aliena per così dire, e dubitava che in quel frangente se la
sarebbe
cavata con un ‘Pace e
prosperità’…
“Eh…
Scusa amico, non ho sentito bene – potresti mica
ripetere?”,
chiese dunque.
“Me
lo sogno, dicevo, niente più niente meno. È una
passione personale,
non siamo affiliati in nessun modo alle fiere… è
tutto a carico
nostro.” Di nuovo con quel sorriso standard. E di nuovo
riusciva a
non sembrare ridicolo, era parte di lui. Non era abbastanza forte,
però, per far passare inosservato il contenuto della frase,
non
quella volta.
COSA?
Ma siete PAZZI!,
avrebbe voluto gridare, ma rischiava di venir assimilato o
chissà
cosa. O, più realisticamente, Auron l’avrebbe
azzannato alla gola.
Pur conscio che aprendo il suo vocabolario interno alla voce
‘Diplomazia’ avrebbe trovato una pagina intonsa,
non poteva
lasciar cadere il discorso, ne era affascinato in un qualche modo
perverso. Come un incidente autostradale.
“E
così qualche decina…”
“Qualche
centinaio, in tutta Italia un migliaio abbondante…”
Ugh.
“Centinaio di ragazzi decide per i fatti suoi di comprare un
vestito…”
“Farselo,
non comprarlo. È l’intero senso della faccenda,
vedi.”
Ugh!
“…farselo, va bene, ho capito. Di farsi un vestito
e peregrinare
in giro per l’Italia per… andare a
morire?”
“Prego?”
“Di
caldo.” Indicò Refia, palesemente in
difficoltà ma stoica sotto
gli scatti incessanti.
“Sì,
suppongo che la si possa vedere da questo punto di vista.”
Inscalfibile. Jecht si chiese se insultare lui e la sua famiglia fino
alla settima generazione gli avrebbe fatto almeno inarcare un
sopracciglio. “Ma, vedi, è tutto per una passione.
Non pretendo
che tu mi capisca, libero di ritenermi pazzo o quello che preferisci,
solo, se mi darai una mano, te ne sarà grato… E
ora, se bene
interpreto le occhiate gelide di Auron, è ora che ci
muoviamo.”
“Lord
Braska, non intendevo, non è questo
che…!”, sentì lesta e
affannata la risposta di Auron. E non mentiva, non ci voleva uno
psicologo per vedere quanto ci tenesse. Emergeva un lato diverso del
ragazzo in quelle parole, premuroso e indubbiamente intimorito da
qualcosa. Paura di rovinare qualcosa, forse. Jecht non sapeva cosa
né
aveva particolare interesse a saperlo, ma il secondo compagno di
sventura si era improvvisamente reso di una frazione più
umano.
E
aveva ben ragione a temere, dove passa il Grande Jecht nulla resta
come prima, sogghignò compiaciuto fra sé e
sé.
“E
però non stiamo muti come dannatissimi pesci,
ragazzi!”, esclamò
dopo trenta abbondanti secondi di silenzio mentre stavano
attraversando il corridoio di connessione col corpo centrale ella
fiera. “I vostri nick, per esempio? Né
‘Auron’ né ‘Braska’
si vedono molto in giro…”, propose. Un argomento
di conversazione
come un altro.
“Da
che pulpito – Jecht.
Inizi tu?”, lo rimbeccò Braska con garbo.
“Ho
chiesto prima io, iniziate voi!”
“Inizio
io prima che torniamo all’asilo nido”, li
interruppe Auron. “Sai
cos’è God of War?”
“No.”
“Attento
Jecht, gli hai appena fatto scendere di una frazione la fiducia nel
genere umano…”, ridacchiò Braska.
“È…
un… videogioco.”
“E
cosa vuoi che ne sappia io dei vostri videogiochi? Se io ti chiedo
cos’è un centroboa tu lo sai?”
“Ma
tu hai una PS2.”
”E
con ciò?”
“Non
puoi avere una PS2 e non sapere neanche cos’è il
miglior action
game mai creato sulla faccia di questa terra!”,
sbottò
Auron.
“Signore,
rimetti ai giocatori EA Sports i loro peccati, e conducili sulla via
dei titoli decenti… amen…”,
gli fece eco l’amico mentre affrettava il passo in vista dei
primi
stand.
“…comunque”,
riprese Auron. “Il mio primo personaggio di un live
– un gioco di
ruolo dal vivo – era ispirato al protagonista di God of War,
Kratos. Ma non volevo copiare così anche il nome, mi sarei
coperto
di ridicolo, e, girando online in cerca d’ispirazione,
scoprii che
c’è un altro Kratos, che viene da Ta…un
altro videogioco,
che di cognome fa Aurion. Tolta la I, sempre per evitare il plagio,
rimane Auron, ed essendomici affezionato l’ho poi promosso a
nick
principale. Tu, dunque?”, chiese con aria si sfida. In un
gara
all’etimologia più geek sarebbe stato certo di
prendere il primo
posto con lode.
Jecht,
dal canto suo, sapeva cogliere un’aria di sfida. Sapeva
raccogliere
una sfida. E soprattutto sapeva spiazzare un attaccante. “Mi
piace
il suono. ‘Jecht’. È potente,
energico.”
“Tutto
qui?”
“Dici
poco.” ‘la faccia sua. Uno a zero, e
l’arbitro era troppo
lontano per dargli un rigore. “E Braska? Che mi dici del
suo?”
“Che
è una lunga storia e te la dovrebbe raccontare
lui”, sospirò. “E
non credo voglia farlo. Andiamo a raggiungerlo?”
“Hm.
Felice che tu l’abbia chiesto. Ma dove si è
ficcato?”, chiese,
seguendo l’inaspettata guida. Non poté fare a meno
di guardarsi
attorno meravigliato quando, dall’insignificante corridoio
iniziale, giunsero infine nel padiglione centrale della
manifestazione. Lo sciopero non sembrava essere stato sufficiente a
fermare del tutto il popolo fumettaro, e visitatori, organizzatori e
madri spaesate affollavano rumorosi gli spazi fra gli stand. Un
numero sorprendente di ragazzi agghindati in costumi di ogni foggia,
colore e fattura affollavano l’atrio, intenti a godersi un
giorno
prezioso di normale anormalità.
Auron
e Jecht si guardarono persi. Non era facile trovare una singola
persona lì dentro, anche per uno sguardo allenato come
quello di
Auron, che pur provando a limitare la sua visione al solo colore
dominante rosso non ne cavò altro che una collezione di Ed,
Dante,
Cou, Mario.
“Non
lo vedo…”
“Hey,
sei tu che lo conosci, ragazzo mio. Dove può essersi
cacciato?”,
chiese Jecht.
“Non
ne ho idea… o meglio ne ho fin troppe. Ha così
tanti interessi…
senza contare che potrebbe aver incontrato qualche conoscente. Ma non
è da lui, comunque non è da
lui…”
“Eh,
è un essere umano come tutti. Su con la vita, su!”
Dall’aggressivo
al depresso, dal depresso all’aggressivo, Auron non sembrava
conoscere vie di mezzo. E, per quanto fosse un bastardo – per
quanto tutti e due fossero dei bastardi, si corresse includendosi nel
conto – vederlo così gli dispiaceva. Almeno un
poco. Era come
vedere un cucciolo preso a calci, anche se il cucciolo era di
dobermann e mordeva come un disperato.
“Ma
ma ma ma quello è Jiraya!”, esclamò
subito dopo, con
caratteristico ricambio totale di tono, occupazione e registro di
pensieri. Si trovava a pochi passi dal suo ultimo idolo dei cartoni,
un po’ troppo magro ma chioma e portamento compensavano
più che
degnamente, e… e! Il rotolo! Il sorriso! Perfino un rospo di
peluche!
Sentì
a malapena la voce perplessa di Auron chiedergli “Segui
Naruto?”
che era già scattato in avanti per chiedere al malcapitato
se fra i
suoi ultimi scritti c’era qualche consiglio adatto alla sua
situazione amorosa.
Pensavo
fossi fermo a Mazinga… forse c’è
speranza per te, in fondo,
terminò Auron fra sé e sé. Con un
sospiro rimandò l’esame di
coscienza a più tardi, in fondo alla sua testa sapeva bene
che quel
ragazzone rumoroso e spaesato non aveva colpa se non quella di essere
arrivato nel posto e nel momento peggiori che avesse mai potuto
scegliere. Appoggiò i bagagli, si torturò una
ciocca dei lunghi
capelli e tornò a cercare Braska, tentando una selezione
visiva per
stand di possibile interesse dell’amico.
Lo
trovò poco dopo, impegnato nella nobile devoluzione di
40€ per la
salvaguardia di un indifeso artbook di Yoshitaka Amano.
“L’hai
fatto apposta”, lo apostrofò, senza particolare
risentimento o
accusa. Voleva solo sapere se la sua ipotesi era corretta.
“Oh,
eccoti. Cosa avrei fatto apposta, amico mio?”
“Sparire.
Lasciarci soli.”
“Ah,
dovrei essere più subdolo… sì,
è così. Ma se vedo solo te devo
dedurne che ho fallito e vi siete effettivamente scannati?”
“No,
ha solo l’attention span di un puntaspilli. Ha vito un Jiraya
ed è
scappato via.”
“Jiraya…
segue Naruto? Pensavo fosse fermo a Daitarn, forse
c’è speranza
per lui… Oh, non dirmi! Non so come ma sono riuscito a
strapparti
un sorriso, pare. Non contavo di esserne in grado
oggi…”
“È
che…”, si difese Auron lasciando che la tristezza
tornasse a
dominarlo, “è che ho pensato l’identica
cosa qualche minuto
fa.”
“Fake!”,
esclamò garrulo Braska, riprendendo una loro vecchia battuta.
“Sì,
il fake incattivito che scalpita e flamma in tua difesa, come
sempre…
ma tornando a prima… perché l’hai
fatto? Perché siamo in tre,
oggi? Non doveva andare così…”
“Suppongo
di doverti delle scuse. So che è l’ultima
e… sai che addolora
anche me.” Braska finì di sistemare portafoglio e
acquisto nello
zaino e si allontanò dallo stand per dedicarsi completamente
a
quella conversazione. Sapeva che sarebbe arrivata, sarebbe stato
sciocco a dubitarne, ma in qualche modo aveva sempre sperato di
poterla evitare. Non tanto per se stesso, avendo avuto mesi e mesi
per prepararsi all’idea, ma perché sapeva che il
suo più caro
amico, che lo stava guardando già in quel momento con aria
persa, si
sarebbe sentito solo e tradito.
“Lo
so”, rispose Auron. “Penso di saperlo. E so che
è contorto, ma
mi addolora sapere che ti addolori, quando l’egoismo si
quieta
preferirei sapere che partirai felice.”
“E
come faccio a partire felice? Lascio una vita qui… da
novembre
tutto questo per me non esisterà più.”
“Ma
hai fatto la tua scelta”, rimarcò Auron, in
evidente difficoltà a
sopprimere l’egoismo da lui stesso citato.
“Certo
che l’ho fatta, e non torno indietro…
un’offerta di lavoro del
genere appena dopo la laurea è imperdibile, oggi come oggi.
E poi lì
sarò più vicino a Ester, il Missouri non
è proprio il Nebraska ma
almeno potrà tornare ad essere una relazione a distanza, e
non un
sogno lontano… cerca di capirmi.”
“Ci
provo.”
“E
te ne sono grato.”
“Mmmmh.”
Auron si sarebbe morso la lingua, aveva così tante cose da
dire e
nessuna parola adatta a farlo. “Sai che puoi contare su di
me.”
“Lo
so.” Tornò ad accennare un sorriso, il momento di
tempesta
sembrava finito. Era la loro ultima fiera insieme, era sacra e per
niente al mondo si sarebbe permesso di rovinarla così.
“Ma
tutto questo non spiega Jecht”, incalzò Auron, in
un certo senso
felice che il nome dell’altro si prestasse così
bene ad una
pronuncia sprezzante.
“Io
penso che lo spieghi eccome.”
“E
allora illuminami con la tua saggezza, o mio comprensivo signore,
perché io proprio non ci arrivo”, rispose sfinito
il ragazzo.
Tornare a pensare alla separazione che sarebbe avvenuta entro pochi
mesi gli aveva nuovamente stretto il cuore, anche se riconosceva
–
almeno a livello intellettuale, se quello emotivo proprio non
collaborava – che per l’amico trasferirsi in
America fosse la
migliore delle soluzioni possibili. Ma non gli perdonava
l’aver
fatto sì che un gallinaccio spennacchiato
s’intromettesse nella
giornata.
“Hai
mai soppesato l’ipotesi che potesse essere per noi?”
“In
tutta onestà, non vedo i vantaggi…”
“No,
immaginavo non li avresti visti. Ma io credo, credo davvero, che oggi
noi due soli ci saremmo depressi peggio che Shinji in giornata
storta. Tutto qui.” Il tono era conclusivo, e Auron ne prese
atto.
Iniziò anche a prendere atto, lentamente, del fatto che la
teoria
sopra esposta potesse non essere una completa boiata, anche se ci
sarebbe voluto del tempo prima che ammettesse che la ragione stava
dalla parte dell’altro. Come sempre.
Camminarono
per qualche minuto in silenzio, indirettamente avvalorando quella
tesi, senza troppo allontanarsi dall’area in cui Jecht si era
separato da loro, nella speranza che anche lui l’avesse
inteso come
punto di ritrovo.
La
fortuna era evidentemente dalla loro e Jecht tornò,
trafelato e con
lo sguardo caratteristico di una tredicenne invasata.
“Ehilà,
bentornato fra noi! Sei stato posseduto dallo spirito di una fangirl
yaoi?”, domandò Braska tra il curioso e il faceto.
“Che
figata, che figata!! C’erano due Naruto e si sono messi a
fare il
Rasengan e poi un Rock Lee u-g-u-a-l-e! E stavano provando un
combattimento contro Gaara che…”
“Calma,
calma. Sono lieto che ti abbiano entusiasmato, ma avrai ogni modo di
rivederli sul palco. Ora, vogliamo proseguire o vuoi guardare questi
quattro banchetti per l’eternità?”
Proseguirono
dunque per un paio d’ore, cercando di mediare
l’attenzione quasi
maniacale di Auron per i set completi di card, l’interesse di
Braska per colonne sonore e gashapon e la curiosità generica
di
Jecht che, pur capendo una parola su cinque delle spiegazioni, aveva
deciso che interessarsi all’argomento era più
costruttivo che
stare col naso per aria a sentenziare l’assurdità
di tali
mercanzie.
Erano
quasi le due quando arrivarono in uno spiazzo meno frequentato degli
altri, con gente tranquillamente accampata a scambiarsi
Pokémon o a
confrontare gli acquisti. Una decina di postazioni di gioco
presentava ai visitatori tutte le novità – e
qualche vecchia
gloria – per console portatili e casalinghe e, complice
l’ora di
pranzo, erano quasi deserte.
“Guardate,
c’è Soul Calibur III!”
“Grow,
grass, grow…”
“La
sapete una cosa? Vi odio quando parlate per
citazioni…”
“Veramente
è solo lui che cita appena apre bocca, sembra un sacerdote
che
celebra messa dall’impegno che ci
mette…”, ammise Auron con
ammirazione. La sua conoscenza delle opere a loro care era
più
pratica, più personale, Braska al contrario non avrebbe
ricordato la
posizione della bussola in un dungeon se ne fosse andato della sua
vita, ma i dialoghi, i nomi, non gliene sfuggiva uno.
“Siete
voi che non sapete apprezzare un quote colto quando ne vedete uno,
è
tutta invidia…”
“Sì,
lo è”, rispose Auron, idealmente già
con le mani sul pad, “ma
non è questo il punto… partita?”,
chiese, rivolto a Jecht.
“A
cosa?”
“A
Soul Calibur III!”
“Ah,
quel gioco lì… ma è quello col tipo
con l’ascia, ce l’ha un
mio amico!”, rispose Jecht dopo un’occhiata
scettica alla rosa
dei personaggi selezionabili.
“Quindi
sai giocare?”
“Diciamo
che… me la cavo”, sogghignò.
“Vedremo…
vedremo.”
“Signori
miei egregi”, interruppe Braska, “mi unirei
volentieri a fare da
cuscinetto in un piccolo torneo, ma è ora che vada a
cambiarmi, il
contest si avvicina. Passami pure le ali… ecco,
così, e grazie per
avermele portate fin qui! Ci vediamo fra poco in area palco, Jecht,
per favore? Avrò bisogno di aiuto, come ti
accennavo…
“A
dopo, Lord… Waka!”, salutò Auron.
“Wakka?”,
chiese sconcertato.
“Waka.
È di un vid… ma cosa parlo a fare. Scegli
un’arena e iniziamo!”
Bambini,
sorrise Braska fra sé e sé avvicinandosi col suo
fardello ai
camerini maschili, sono due grandi e grossi bambini. Almeno
sfogheranno lì la loro rivalità, suppongo sia un
bene…
E
ora a noi due, costume! Parte prima, l’hakama…
“E
tu? Non vai a cambiarti?”
“No,
non finchè posso devasta… Ring out! Parla meno e
combatti meglio!”
“No,
seriamente. Braska sembrava in ritardo… Anch’io
voglio
saccagnarti di botte, cosa credi, ma possiamo farlo dopo…
Hey,
volevo cambiare personaggio, torna indietro!”
“Lord
Braska è in ritardo. Io ho
ancora dieci minuti, il mio
torneo è di Magic. Non mi piace vestirmi in cosplay, non
direttamente almeno”, rispose Auron attardandosi, come
richiesto,
nei menu di selezione e giocherellando con la selezione dei costumi
del suo Mitsurugi.
“Che
vuoi dire?”, chiese Jecht incerto fra i due guerrieri che
più gli
sembrava gli somigliassero.
“Che
mi piace farli, non indossarli. Lavoro il legno e ho qualche nozione
di vetroresina, così aiuto Lord Braska. Poi serve qualcuno
che
faccia da supporto e fotografo in fiera… Per me
‘cosplay’ è
vedere come sarebbe nella realtà un personaggio immaginario,
quindi
che alla fine dentro ci sia io o qualcun altro cambia poco…
La
parte sull’immedesimazione non fa per me.”
“Quale
parte?”
”Un’altra volta. Ora, vuoi deciderti a selezionare
Yun-Seong o no?”
“Va
bene, ma se tu mi dici di prendere Yun-Seong io prendo Kilik.”
“Fai
come ti pare.”
Si
stava aprendo… lentamente ma si stava aprendo, con il tempo
e
parlando di cose che gli interessavano. Forse anche quel ragazzetto
scontroso e supponente poteva avere dei guizzi di simpatia. E forse
una caterva di botte virtuali poteva aiutarlo ad aprirsi ancora un
poco di più, pensò Jecht, smettendo di fare il
finto tonto e
impostando i comandi come sul pad di casa. Poteva non sapere cosa
fosse quel tal God of War, ma Soul Calibur, oh, quello era pane
quotidiano, lo conosceva da quando c’era Heihachi come
personaggio
bonus.
Quando,
una ventina di minuti dopo, Auron lo ebbe salutato per dirigersi al
suo beneamato torneo, Jecht si affrettò verso
l’area palco, o
piuttosto seguì la mandria di gente in costume sperando che
lo
portasse almeno in zona.
Sul
palco una coppia di presentatori, un ragazzo e una ragazza entrambi
vestiti da avvenenti sirene – con risultati leggiadri o
dissacranti
a seconda del caso – stavano già chiamando i primi
partecipanti.
I
suoi timori sul come trovare il ‘suo’ cosplayer in
mezzo alle
due-tre centinaia di presenti furono presto fugati: Braska lo
attendeva di fronte agli spogliatoi, come una quercia in mezzo alla
tempesta di gente vociante. Non aveva perso la sua compostezza, ma
era palesemente non felice di essere ancora a metà
vestizione a
concorso iniziato. Il costume in sé sembrava completo,
almeno da
quel poco che Jecht poteva ricordare in materia di abiti tipici
giapponesi: larghi pantaloni viola sotto un kimono rosso, sopra il
quale ne portava un altro rosa acceso. Kitsch… due grossi
pon-pon
rossi centrali completavano l’opera. Alla cintura portava una
katana e un flauto di bambù, ma il particolare che spiccava
maggiormente era il modo in cui riusciva a restare in equilibrio su
dei sandali in legno che terminavano in un solo, stretto appoggio
centrale. Il trucco sul viso era però solo accennato, e
reggeva
ancora in mano i due sacchi della spazzatura.
“Oi!”,
salutò Jecht.
“Infine!
Temevo di non vederti più!”, rispose con
più di un accenno di
ansia nella voce. “Presto, aiutami a sistemare il copricapo!
Auron
è già andato? Dannazione, lui saprebbe come
funziona tutta
l’imbragatura…”
“…imbragatura?”
Presto
spiegato. Braska scese dagli improbabili sandali e si fece spazio fra
la folla per tornare, accompagnato dal nuovo aiutante, nei camerini
ormai deserti. Con movimenti frettolosi ma esperti disfò i
sacchi e
trasse un grosso rotolo da uno e un ammasso di piume
dall’altro.
Messo temporaneamente da parte il rotolo, dispiegò
l’ammasso, che
si rivelò essere un elmo in foggia di rapace da cui si
dipartivano
due ali grandi quasi quanto il ragazzo stesso. Si poteva intravedere,
da vicino, la complessa struttura portante in plastica e legno che le
reggeva assieme a due cavi che probabilmente ne avrebbero azionato il
movimento. L’intera costruzione dava allo stesso tempo una
sensazione di fragilità e manifattura sapiente, anche agli
occhi di
un profano.
“Bene,
per prima cosa aiutami ad indossare la parrucca, per
piacere…”
Fu
un’operazione lunga e dolorosa, almeno per Braska che dovette
a più
riprese subire gli effetti dell’inesperienza
dell’altro. La lotta
per arginare la sua lunga chioma nella retina della parrucca era solo
il primo passo, bisognava anche fissarla, fissare ad essa il
pesantissimo elmo e non da ultimo far passare i cavi delle ali dentro
al kimono in modo che restassero invisibili.
Sudarono
freddo quando sentirono il sirenetto chiamare pochi numeri prima del
loro, ma riuscirono a finire in tempo e, con una rifinita al trucco,
erano pronti a fare la loro comparsa.
“Sei
buffo forte così agghindato… Ora ho
finito?”, chiese Jecht quasi
più esausto del cosplayer, mentre questi ritrovava il
precario
equilibrio sui sandali.
“Se
potessi chiederti un ultimo favore…”
“Sarebbe
a dire?”
“Sul
palco… il rotolo è la scenografia. Dovresti
salire un attimo prima
di me e distenderlo, chiedi a uno dei presentatori di tenerne un
estremo e tu tendi l’altro. Se puoi.”
“Non
hai altra scelta, eh?”
“Restare
senza scenografia”, sorrise angelico l’altro,
“ma Auron non ne
sarebbe contento, l’ha dipinta lui…”
“Vale
a dire che se ci tengo alla vita farò meglio ad aiutarti,
razza di
ricattatore sotto mentite spoglie d’agnello”,
rispose con uno
sbuffo scherzoso. Certo a quel punto era curioso di vedere
cos’avrebbe combinato su quel palco, e per lui,
finchè era un modo
per avvicinarsi alla sirena – quella non barbuta –
tutto andava
bene. “Ma di’ al tuo scenografo di allenarsi meglio
a quel Soul
Calibur III… o almeno di imparare a perdere”,
concluse
malignamente.
“Ha,
non ci posso credere! Il suo Mitsu, battuto? Questa è da
raccontare
ai posteri… Non invidio i suoi avversari al torneo, allora!
Vieni,
usciamo…”
Raggiunsero
il palco appena in tempo per il loro turno. Jecht era stranamente
agitato. Per quanto fosse abituato a muoversi di fronte ad un
pubblico, e per quanto il suo compito fosse elementare, era pur
sempre la pria volta che saliva su di un palco. Gli bastò
però
un’occhiata al sofferente Braska, stoico sotto i chili di
copricapo, per ricordarsi che, sì, c’era chi stava
peggio al mondo
e non aveva diritto di lamentarsi dei suoi mali…
Quando
le sensuali creature acquatiche ebbero chiamato “Waka, da
Okami”,
la musica allegra della presentazione si interruppe per lasciare
spazio ad una lenta melodia strumentale che si rifaceva a
sonorità
tipiche giapponesi. Jecht corse sul palco e riuscì in
qualche modo a
reggere, assieme ai presentatori, la scenografia, ritrovandosi
inaspettatamente in una posizione privilegiata per assistere
all’esibizione.
Non
durò molto, ma lo colpì più
profondamente di quanto avrebbe
immaginato: con movimenti lenti e aggraziati, anche se da vicino
poteva vedere che stava già tremando per lo sforzo e, forse,
l’emozione, Braska aveva iniziato una danza rituale cui univa
poco
a poco dei fendenti con la spada. Era evidente come ognuno di quei
movimenti fosse studiato e perfezionato tramite infinite prove e,
sì,
l’insieme riusciva in effetti a comunicargli pensieri come
‘nobiltà’ e
‘bellezza’. Chiunque fosse questo Waka avrebbe
fatto meglio ad essere all’altezza di un tributo del genere,
non
aveva mai visto una cosa simile in vita sua e certo non gli sarebbe
dispiaciuto rivederla. Il pubblico, fino ad allora abbastanza freddo,
gli concesse un discreto applauso sul finale, quando aprì di
colpo
le ali prima di fermarsi sulla posa conclusiva, col flauto appoggiato
alle labbra.
Dopo
qualche secondo in posa a beneficio dei fotografi si avviò
giù dal
palco, e la sirena fece cenno a Jecht che era caso che anche lui
riarrotolasse il riarrotolabile e si togliesse dai piedi.
Auron
li stava aspettando a qualche metro di distanza dagli scalini, con un
raro sorriso dipinto in volto.
“Filmata!”,
annunciò fiero. “È venuta
benissimo!”
“Ma…
il tuo open?”, chiese Braska esterrefatto, togliendosi gli
infami
sandali e cercando di alleviare il peso che gli gravava sulla fronte.
Era felice e confuso, in pace con se stesso e col mondo, mesi di
lavoro avevano infine dato il loro dolce frutto. Si era del tutto
dimenticato di ringraziare pubblicamente i suoi due angeli custodi,
quello appena dietro di lui e quello che aveva reso possibile la
parte vistosa di quel costume, ma in fondo non importava,
l’avrebbe
fatto dopo di persona, magari offrendo loro una cena quella sera
stessa.
“Forfaittato
al secondo turno, non avevo possibilità e… non
potevo perdere la
tua scenetta.”
“Sciocco,
non dovevi! E poi l’hai vista milioni di volte mentre
provavo!”
“Sciocchezze,
ci tenevo.”
“Cosa
ti devo dire, sono… felice e grato più di quanto
possa esprimere.
A entrambi, grazie, grazie, grazie… ma ora”,
aggiunse con tono
d’un tratto più pratico che sognante,
“visto che hai gentilmente
bigiato per causa mia, non è che potresti essere ancora
più gentile
e accompagnarmi fuori a scattare due foto finchè
c’è il sole… e
prima che io collassi per il peso?”
Jecht
si guardò intorno, indeciso sul da farsi. “Io
resto qui, penso.
Voglio… voglio vedere il resto della gara”, si
sentì dire, e fu
il primo a stupirsi della scelta.
“Bene,
allora. Ne sono onorato… a nome dell’intera
categoria di gioppini
in costume, suppongo. E ora a noi due, caro il mio fotografo
ufficiale, immortaliamo quest’ultima
impresa…”, disse
rivolgendosi ad Auron, e presto si confusero fra la folla.
La
gara continuava, continuava, continuava. Si avvicendavano sotto i
riflettori guerrieri e maghette, samurai, principesse, cavalieri
Jedi. Jecht osservava ammirato le cose belle e rideva quando riusciva
a capire, finalmente trovando un senso in quello che avveniva sotto i
suoi occhi. Si affezionò a un quintetto di Lupin
particolarmente
somigliante e riprese la mascella da terra quando salì
Optimus Prime
in persona, ferraglia e tutto, apprezzò la coordinazione in
combattimenti di picchiaduro a lui ignoti (belle figliole, ad ogni
modo) e solleticò il suo lato trash spanciandosi di fronte a
battute
da cabaret di serie Z, dove non c’era bisogno di conoscere
gli
originali per capire che non avrebbero fatto ridere un sasso.
Raggiunta
la ragguardevole cifra di 376 i partecipanti finirono, e la giuria si
ritirò per deliberare. Qualunque cosa decidessero,
però, agli occhi
del neofita nulla era stato più meritevole
dell’esibizione del
compagno che per primo gli aveva fatto capire quanto di bello e
appassionato potesse esserci anche in quel remoto estremo dello
spettro dell’assurdo. Rimase così, pensieroso e un
poco perplesso,
sorpreso di guardare indietro e vedere già in quella
giornata il
seme di un bel ricordo. E così lo trovarono Braska e Auron
quando
tornarono, e furono talmente sorpresi da quell’inedita posa
meditativa che restarono per qualche secondo ad osservarlo prima di
rendere nota la loro presenza. Tolte le scomode vesti da spirito
nipponico, Braska era di nuovo avvolto nel suo maglione cremisi, con
ciuffi di capelli sciolti e spettinati che si ribellavano
all’ordine
imposto dalla sciarpa. Aveva ancora una traccia estatica negli occhi
azzurri, eredità dei recenti momenti di gioia ed enfatizzata
dal
viso arrossato per lo sforzo e il caldo. Pur se tornato ‘in
borghese’, come si soleva dire, restava ben separato dai
comuni
mortali.
“Bentrovato,
Jecht. Scusa il ritardo”, lo salutò avvicinandosi.
“E perdonaci
se prima siamo scappati via.”
“Fa
niente, fa niente. Mi sono trovato da fare.”
“Mh,
vedo. Eri così assorto… Posso chiederti un parere
sulla giornata,
o è troppo invadente?”
“Dipende.
Che tipo di parere vuoi?”, lo canzonò.
“Uno
in cui mi tranquillizzi dicendomi di non averti fatto passare una
giornata orrenda in compagnia di due pazzi, per esempio.”
“Se
la metti così… Sui pazzi non posso garantire, mi
spiace, ma, sì,
mi sono divertito. Non pensavo”, ammise. “No, dico
davvero… eri
commovente, amico, sembravi un vero sciamano che danzava per gli
spiriti dei morti, o qualcosa del genere… mai vista una roba
simile. Credevi in quello che stavi facendo e si vedeva.
Bello.”
Non trovava aggettivi migliori, ma ‘bello’ in fondo
poteva
andare. Rendeva il concetto.
Auron
si appoggiò al muro e incrociò le braccia,
soffiando via un lungo
ciuffo di capelli che, sfuggito al legaccio, gli era finito sul viso.
Ancora una volta sapeva dove sarebbero andati a finire e ancora una
volta trovava l’idea meno che entusiasmante. Braska poteva
aver
avuto ragione sul niubbastro, che in fondo tanto niubbastro non era,
e meglio di tanti altri… poteva aver avuto ragione su
un’ultima
fiera passata ridendo invece che perdendosi in
autocommiserazione…
ma quello era follia. E, quel che era peggio, lui non sarebbe potuto
essere lì ad aiutarli, e non poteva sopportarlo.
“Bene.
Ne sono felice”, sorrise Braska. “Anche
perché ho una proposta…
oltre a una cena insieme al giapponese. Sentiti libero di rifiutare e
mandarmi a quel paese, non voglio costringere nessuno, ma non posso
non provarci, almeno.”
“Sì
a una pizza insieme, e spara la proposta!”
Auron
guardò dall’altra parte.
“Devi
sapere,”, spiegò l’altro, “che
ogni anno vengono selezionati
due rappresentanti italiani per l’unico evento internazionale
di
cosplay, il World Cosplay Summit… le selezioni italiane si
tengono
a Roma, a metà ottobre, che è sì
lontano ma si può organizzare
una macchina in comune.”
“Vuoi
che accompagni te e Auron a fare questa cosa? Fotografo e
tutto?”
“No…
Auron non può venire fino a Roma. E poi quello perfetto sei
tu.”
“Cioè,
grazie”, mugugnò l’altra parte in causa.
“Auron…
Sai che non intendo in generale, e sai che so che non approvi il
progetto e sai che lo tenterò comunque perché ho
la testa più dura
della tua.”
“Sei
troppo idealista… non funzionerà mai. Il ciclo
continuerà,
continueranno a selezionare idol carine e i tuoi sforzi saranno stati
invano!”
“Ma
c’è sempre una possibilità che stavolta
non accada. Vale la pena
di tentare.”
Riuscivano
a sembrare commoventi, come se ne andasse del destino del mondo e non
del riuscire, per una pura questione di principio e di senso della
giustizia, a far selezionare due costumi invece di
due bei
visini. Jecht era quasi dispiaciuto all’idea di
interromperli.
Quasi.
“E
basta voi due! Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?”
“Che
il progetto di Lord Braska è folle.”
“E
allora non farlo.”
“Oh,
grazie per la preoccupazione, Jecht…”
“Bon,
ho detto la mia, la coscienza è a posto.”
“Ma
io no!”, riprese Auron con foga. “non ha senso
impegnare
un’estate in costumi complessi per un progetto impossibile!
Ripensaci!”
“Se
tu ti opponi con tutta quella forza mi vien da pensare che
può
essere simpatico e divertente, sai? Braska, spiegati meglio.”
“Uhm.
Ci provo, Jecht, ci provo. Auron non ha tutti i torti, è
molto
difficile, ma ci ho pensato a lungo… e ho concluso che Fay e
Kurogane di Tsubasa potrebbero essere i candidati migliori. Non ti
sto a spiegare il ragionamento che c’è dietro, ma,
fidati, ha il
suo senso. Io sono abbastanza simile a Fay, a ben vedere… e
poi sei
arrivato tu. Kurogane fatto e finito. Viso, atteggiamenti, tutto. Ti
posso aiutare col costume, tutto il supporto che vuoi, se ti va di
tentare questa follia.”
“E…
avremo fama… e… tipo, parate e fuochi
d’artificio?”
“Se
riusciremo a passare, qualcosa del genere, sì”,
rispose. Cadde il
silenzio, ma era sereno. Niente sarebbe potuto andare male in quella
giornata benedetta, e aspettò sorridendo tranquillo, come il
cuore
gli suggeriva.
“Ci
sto. Sei un pazzo, Braska, ma di un tipo di pazzia
contagiosa.”
“Non
farlo, Jecht! Se ti tiri indietro… può esserci
ancora modo di
farlo rinsavire!”
“Jecht.”
“Che
c’è ora, non vorrai fermarmi anche tu? Dopo
avermelo chiesto e
tutto?”
“Scusa.
Volevo dire, grazie.” Si poteva vedere la determinazione che
gli si
era dipinta in viso. Incrollabile. Jecht pensò che
l’avrebbe
potuto seguire fino in capo al mondo, e, ne era certo, anche Auron.
“Non
buttarti giù… il tuo Lord ha ancora da
prepararlo, il costume, e
avrà bisogno del tuo aiuto. Non sei tu quello che lavora il
legno?
Faglielo bene, mi raccomando.” Tentò
così di ravvivare un po’
il morale del silente compagno, ma ricevette in risposta solo un
grugnito. “Senti, capisco il tuo punto di vista, e quello che
hai
detto ha senso. Ma troverò un modo per spezzare questo
vostro
ciclo.”
“Hai
un piano?”, controbatté Auron, cercando con ogni
forza di restare
torvo. Aveva anche lui una reputazione da mantenere, in fondo.
“Jecht?”
“Fidatevi…
penserò a qualcosa.”
“Nessuno
crede che ci riusciremo.”
Era
tardi, e la piccola pizzeria quasi deserta. Braska stava finendo la
seconda birra, e gli effetti cominciavano a farsi sentire, ma erano
ben lungi dal riuscire a farlo tacere, anzi la parlantina si faceva
più sciolta e ispirata mentre la sua mente era
già lontana, persa
in cartamodelli e stoffe degne di un re. Jecht lo interruppe per un
ultimo brindisi, a una nuova amicizia, al Cartoomics, agli alieni.
Rispettò qualche secondo di silenzio, poi riprese.
“Facciamo
vedere loro che sbagliano. Un cosplayer tutto sommato inesperto, un
uomo da un altro mondo… e un fedele aiutante destinato
all’oscurità
per colpa di una famiglia autoritaria…”
Un’altra
pausa.
“Che dolce ironia sarebbe…”
Free
now, ride up on it
Up
to the heights, it takes you
Go
now, if you want it
An
otherworld awaits you
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