The
world's a beast of burden.
[You've
been holding on a long time]*
I
“Le favole
non dicono ai bambini che i draghi esistono.
Perché
essi lo sanno già.
Le favole
dicono che i draghi possono essere sconfitti.”**
Il
corredino seguiva alla perfezione la
scala cromatica del blu; nessuna tonalità di quel colore era
stata
lasciata da parte, e Igraine non poteva esserne più felice.
Lei
amava il blu e, sicuramente, quello non aveva niente a che fare con
il fatto che il suo primo erede dovesse essere per forza di cose un
maschietto, o che il colore degli occhi di suo marito fosse
casualmente il blu, o che, sempre casualmente, quella fosse l'unica
tonalità utilizzata da quella marca di vestiti che
riproduceva fedelmente gli
abiti del medioevo. No, lei amava quel colore e basta.
La carta da
parati era di un azzurro tenue, colore al quale gli scienziati avevano
appioppato una proprietà
calmante ( e Uther pregava ogni divinità da lui conosciuta
che lo
fosse realmente...) e ricopriva quasi tutte le pareti della
cameretta, tranne quel piccolo buco bianco tra l'armadio e la
libreria, dove Igraine aveva strappato via la carta e aveva disegnato
i contorni di un castello, di un drago e di un tenero bambino che,
secondo le sue fantasie da madre primipara, doveva somigliare per
forza di cose a quello che portava in grembo. “Domani
dipingerò,”
aveva promesso a Uther, ma quel domani non era arrivato e quel buco
bianco in mezzo a tutto quell'azzurro e quel blu era rimasto
lì, tra
l'armadio e la libreria. Libreria così
stracolma di libri, che Uther temeva di
vederla cedere da un momento all'altro. Era composta da quattro
ripiani, sui quali poggiavano, più o meno,
venti libri ciascuno ed erano divisi per tematica: il
primo ripiano era destinato ai libri
“tridimensionali” (“Guarda! C'è
della vera lana sul mano della pecorella!”
oppure “Non
trovi
delizioso che la coda di questo cane si possa muovere con le mani?”);
il secondo ai libri sonori (“Questo sì che
è un vero ruggito!”
oppure “Sarà
più semplice per lui imparare a parlare con questo
libro qui!”); il terzo ai libri da colorare
(“Le sue
manine
paffute si riempiranno di tempera, ma almeno così non
dovrà per
forza colorare ogni muro della casa, no?”); il
quarto ai libri delle
favole, quelli grandi, poco colorati, ma fittamente scritti.
(“Sarà
troppo piccolo per questi libri, amore!” “No, nessuno è
troppo piccolo per fiabe simili, per imparare che i draghi esistono,
ma che possono essere sconfitti” E Uther non
poté controbattere, e
impilò i libri uno dopo l'altro, in un ordine prestabilito:
dai
draghi più piccoli - mele avvelenate, amori contrastati, ma
vittoriosi- a quelli più grandi, dove non sempre c'era un
lieto fine). E altri libri si aggiungevano ogni settimana,
riempiendo anche gli angoli più reconditi della stanza, e
Uther a
volte ci scherzava su, dicendo che il bambino avrebbe ascoltato le
favole fino a quando non fosse stato in età da moglie, o
forse anche più in la.
Un libro in particolare
ristagnava sul davanzale interno della finestra, impolverato e
illibato; il libro dei
nomi, perché che senso aveva sfogliare un
libro simile, quando il nome del nascituro era stato scelto molti anni
prima dell'effettivo concepimento?
“Artù,”
aveva esclamato
Igraine poche ore dopo la prima ecografia. “E non
provare a
contraddirmi!”
E Uther non l'aveva fatto; le aveva sorriso, invece, annuendo.
“Passami
l'insalata,” si era limitato a dire, sorridendo nuovamente
all'espressione soddisfatta della moglie. E avrebbe potuto
controbattere, dire qualcosa, opporsi, contrastare la scelta di quel
nome così insolito, che sicuramente avrebbe precluso al
bambino una
vita felice e una carriera di successo (chi mai avrebbe dato lavoro o
credito ad uno chiamato Artù? Sì, insomma, per
chiamarlo così i
genitori dovevano essere per forza due megalomani e, stando alla
teoria del 'tale padre, tale figlio', anche lui avrebbe dovuto
esserlo; e oggigiorno non c'era posto per i megalomani nel tremendo
mondo del lavoro), ma non poteva. Lui l'aveva sempre saputo, fin dal
primo
giorno in cui aveva incontrato Igraine, che avrebbe chiamato
così
suo figlio; era una sorta di sensazione, di sesto senso che,
sicuramente, non aveva nulla a che fare con la tesi della ragazza sul
Ciclo Arturiano attraverso i secoli, o la sua fissa per Camelot, per
le tavole rotonde (ne aveva due: una in cucina ed una in soggiorno,
perché nessuno in quella casa doveva prevaricare
sull'altro) e
per i tornei medievali. No, il suo era un sesto senso! Era sempre
stato un tipo empatico, lui. E, scegliendo di sposarla e
costruire una famiglia con lei, aveva accettato quell'insolito nome,
come una sorta di patto prematrimoniale tacitamente deciso.
Così, ancor prima della
nascita e ancor prima di sapere il sesso del bambino, fecero
intarsiare sul legno del lettino quel nome insolito e affascinante al
contempo; lettino che era di un marrone che non centrava nulla con il
resto dell'arredamento, ma sarebbe bastata un po' di vernice e
qualche altro intarsio nel legno delle doghe per sistemare il tutto,
o almeno così sosteneva Igraine.
Ai piedi del lettino c'era un
tappeto (posto lì perché se solo il bambino fosse
stato iperattivo
almeno la metà di quanto lo era Igraine, avrebbe sicuramente
scalato
le assi di legno della ringhiera ancor prima di sapersi reggere sulle
gambe e la collusione con il parquet del pavimento sarebbe stato una
conclusione prevedibile - e dolorosa) morbido, peloso e un piccolo
ricettacolo di polvere e acari, o almeno così era
solito battezzarlo
Uther ogni volta che qualcuno dei loro amici piombava nel loro
appartamento con la mera scusa di vedere la cameretta del piccolo
Pendragon. Odiava quel tappeto e non faceva proprio nulla per
nasconderlo, come non aveva fatto nulla per non comprarlo; lo sguardo
estasiato di Igraine, la mano destra che circondava protettiva il suo
grembo e l'indice della mano sinistra che indicava
spasmodicamente quel coso.
“Un drago, è perfetto!” aveva squittito
deliziata, entrando in quel negozio (New Age, New Wave, Indie, Hippie
o qualsiasi cosa fosse). E lui l'aveva seguita, e il suo cuore si era
sciolto alla vista del sorriso di Igraine nel toccarlo e
nell'immaginarlo nella cameretta del piccolo Artù; e il suo
cuore
aveva cominciato a battere all'impazzata - ma forse quella era colpa
dei numerosi zeri segnati sul cartellino del suddetto coso...
E
(tolto il tappeto, quel pezzo di muro
bianco e parzialmente disegnato con la matita, la libreria
pericolante e il lettino del colore sbagliato) era tutto perfetto in
quella stanza; tutto tranne una cosa...
“Uther!” urlò
Igraine dal piano superiore, facendo scattare il marito come uno di
quei giocattoli a molla, che aveva sempre desiderato porre nella camera
del bambino, ma che Igraine trovava disgustosamente spaventosi.
“Arrivo!” urlò quello di rimando,
correndo a perdifiato per le scale.
“Uther!” gracchiò
nuovamente la donna.
“Arrivo cara, però tu respira!”
replicò
lui, aprendo la porta con talmente tanta forza che fu un miracolo che
i cardini non vennero via dal muro.
“Ci siamo dimenticati
qualcosa, Uther!” asserì la donna con tono pacato,
comodamente
seduta sulla sedia a dondolo - azzurra anch'essa-.
“Cosa?”
chiese l'altro, e non seppe neanche lui dove avesse trovato il fiato
per parlare.
“Abbiamo libri e libri di favole, ma neanche un
giocattolo per renderle reali,” rispose Igraine, sorridendo.
“E
te ne ricordi alle dieci della sera, cara?”
Lei annuì
dolcemente. “Tra qualche settimana è Natale, e
Hamleys è
aperto fino a mezzanotte, caro,”
Uther annuì sommessamente, recuperando gran parte delle sue
funzioni vitali.
“Sei ancora
qui?”
E fu così che, tra la libreria pericolante e il lettino
del colore sbagliato, fecero la sua comparsa tre grandi scatoloni di
giocattoli morbidi e a prova d'infante (o almeno così gli
aveva
detto il commesso); Kilgharrah,
invece, venne riposto nel lettino, in
attesa di venir manipolato dalle manine paffute del piccolo
Artù.
Il Natale passò e arrivò Gennaio, che si
portò
dietro il più bel bambino che Uther avesse mai visto (i
capelli così
biondi, le guance così rubiconde e le manine così
piccole da
sembrare una bambola).
“Igraine,” soffiò, permettendo a
sé stesso di piangere, almeno per un po', almeno quel tanto
che gli
bastava per placare quel turbinio di emozioni contrastanti che
infiammavano il suo petto. “Grazie,”
Spin-off di “My sweet
Prince”, nel senso che è ispirata alla strofa “Me
and the dragon can chase the pain away”, ma si è
tramutata in una long,
così long da non poter essere rinchiusa in una raccolta di
One Shot,
ovviamente.
Non aspettatevi
nulla di speciale, è solo
un'accozzaglia di cose che non centrano le une con le altre, che si
ispirano al clichérismo estremo ecc.ecc.
Comunque
passando all'avvertimento principale:
Au+Reincarnation.
Un capitolo
sarà dal punto di vista di Artù ed uno di
Merlino, partendo dalla loro infanzia - e anche prima-.
*“What the
water gave me,” Florence! And the Machine (cliccate
sul titolo, se volete ascoltarla)
**"Enormi schiocchezze, 1909" G.K. Chersterton.
Siate spietate, ne ho bisogno ;)
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