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“Meglio essere protagonisti della propria
tragedia,
che spettatori della propria
vita.”
(Wilde)
“Destino: l'autorità di un tiranno per un
crimine e
la scusa di uno sciocco per un fallimento.”
(Bierce)
Camminava a
piccoli passi, tutti della stessa lunghezza, la sua andatura non sembrava né
frettolosa né calma, semplicemente pareva errare senza meta, eppure sapeva
benissimo dove si stava dirigendo.
Calzava un
paio di mocassini fuori moda in finto camoscio, indossava dei pantaloni che a
malapena gli coprivano i calcagni, di un color blu notte, puliti ma dall’aria
dimessa; una camiciola bianca appena stirata avvolgeva totalmente il suo busto,
sopra portava una giacca disadorna leggermente più chiara dei pantaloni e infine
nella mano sinistra teneva una borsa nera logorata dal tempo e dalle molte volte
che era stata usata. Era alto e dinoccolato, dalle spalle ciondolanti e dalle
braccia troppo lunghe e sproporzionate al suo corpo, la sua magrezza rasentava
l’umano possibile, era così scheletrico che faceva quasi paura. Il suo viso,
poi, faceva ancor più spavento.
Appoggiati sul lungo naso adunco, un paio di grosso occhiali dalla montatura
antiquata nascondeva degli occhi di un verde acquoso, sormontati da delle
sopracciglia cespugliose, dello stesso biondo cenere dei capelli. I suoi occhi erano sempre velati da una
certa mestizia, come se la sua anima trascinasse sempre con sé stancamente un
enorme e insostenibile peso, forse quello di sentire che la sua vita non gli
apparteneva totalmente. Chiunque a guardare quest’uomo si sarebbe sentito
pervaso da una tristezza profonda, una vampata di malinconia, non per quanto
fossero trasandati e logori i suoi vestiti, non solo per i suoi occhi appannati
dall’infelicità, ma soprattutto la sua andatura e gestualità sofferta rendevano
la sua visione così patetica.
Si
chiamava Luca Ricci e aveva 46 anni, sebbene ne dimostrasse molti di più.
Lavorava presso un’azienda che produceva materiale da ferramenta, insomma, era
semplicemente un impiegatuccio che ogni giorno si destreggiava tra ordini di
martelli, chiodi e chiavi inglesi. Viveva in un monolocale in un condominio di
modeste dimensioni nella periferia della città, teoricamente abitava lì da solo,
ma in pratica sua madre, ormai vedova da parecchi anni, risiedeva in un altro
appartamento nello stesso pianerottolo, ed era quindi una presenza costante,
quasi soffocante, nella vita del figlio. Luca non si era mai sposato, forse
aveva amato una volta, ma ormai i ricordi della sua giovinezza andavano sempre
più scemando, e l’unico sentimento che riusciva a provare era
l’autocommiserazione.
Anche quel
mattino in cui per la prima volta incontrammo Luca, mentre arrancava lungo il
marciapiede, stava pensando a sé stesso. Non riusciva a comprendere perché mai
la sua vita non avesse mai preso la piega che lui desiderava. Un tempo era pieno
di sogni, desiderava ardentemente diventare ingegnere, aveva frequentato una
modesta università, ma aveva dimostrato capacità fuori dell’ordinario, aveva
tutte le carte in regola per essere chiunque volesse. Ma ciò che più avrebbe
voluto, ciò per cui avrebbe perfino mandato a monte la sua carriera, era una
famiglia. Ambiva ad avere una moglie che lo amasse per ciò che era, e dei figli,
meglio se erano un maschio e una femmina, che lo chiamassero “papà”. Una
famiglia felice, insomma, una con cui stare insieme il giorno di Natale, una con
cui passare le vacanze estive al mare, una con cui festeggiare i compleanni e le
occasioni importanti, una per cui valeva la pena vivere, perché essere sicuri di
essere amati è ciò che ognuno di noi infondo desidera di più. Luca sapeva che
quello a cui aspirava era estremamente idilliaco, ma non gli importava, sognare
gli era permesso. Già, sognare era tutto quello che gli era stato concesso dalla
vita. Si chiedeva tutti i giorni, perché mai il Destino non gli avesse dato la
possibilità di realizzare i suoi desideri, non tutti, ma almeno qualcuno.
Quando, ormai ultratrentenne, si era reso conto di come stava andando la sua
vita, come avesse sprecato gli anni migliori, pensò all’unica soluzione che
potesse alleviare la sua frustrazione: il suicido. Meditò a lungo su come far
avvenire il “fatto”, pianificò tutto nei minimi dettagli, aveva acquistato già
il veleno che gli era necessario (valutò che il veleno fosse il modo migliore e
indolore per andarsene), ma quando stava per assumere le pillole e si trovò
davanti ad una possibile morte, cambiò subito idea: non aveva fatto i conti con
la paura. Lasciò perdere altre possibili soluzioni e continuò ad andare avanti
come se nulla fosse accaduto.
Luca non
viveva davvero, semplicemente esisteva, come esiste una roccia, un albero, una
carota o una casa. Lui, come la maggior parte della gente avrebbe fatto, non
aveva mai ammesso a se stesso la condizione in cui si trovava; sapete, è una
verità troppo amara da poter essere accettata da chiunque.
Perché il
destino si era così accanito contro di lui?
Perché non
gli aveva mai dato la possibilità di vivere? Non se lo meritava, forse, più di
molti altri?
Luca
guardò l’orologio, mancavano esattamente dieci minuti alle otto, doveva
accelerare il passo se non voleva arrivare in ritardo al lavoro. Stava passando
davanti ad una pasticceria, che emanava un invitante profumo di croissant misto
a caffè, quando lo vide per la prima volta. Inizialmente non vi fece caso, non
lo distinse più di altri uomini d’affari che giravano freneticamente, ma quando
gli fu vicino a pochi metri, se ne rese conto. Sgranò gli occhi verde acqua e lo
fissò a lungo, mentre l’altro uomo chiacchierava al telefono. Nel momento in cui
l’uomo terminò la telefonata e guardò davanti a sé, per Luca non vi furono più
dubbi. L’uomo che gli stava camminando davanti era un suo doppio, un suo sosia,
cioè era proprio lui; stessa fisionomia, stessi capelli, ma c’era qualcosa di
estremamente diverso, i suoi occhi non erano velati di malinconia, la sua
visione non era patetica, i suoi vestiti non erano trasandati come quelli di
Luca. Ma, allora, chi era costui? Che avesse un gemello era impossibile e
improbabile, lo avrebbe già senz’altro saputo. In gioventù, Luca era stato un
buon lettore, si era dedicato alla grande letteratura, e rammentava di un libro
di Dostoesvkij intitolato “Il sosia”, che narrava le vicende di un uomo pazzo
che aveva iniziato a vedere dei suoi sosia dappertutto (ora, quel che ricordava
era solo questo). Ma Luca sapeva di non essere pazzo, la sua esistenza non era
un granché, ma essere matto era fuori discussione. Davvero, chi era
quest’uomo?
Ormai i
due erano così vicini da potersi parlare, anche il Doppio si era accorto di
Luca, e lo fissava sorridendo, non pareva affatto spaventato. Luca non sapeva
come comportarsi, forse poteva passargli accanto facendo finta di niente, poteva
farlo, no? Eppure quel uomo lo incuriosiva enormemente, doveva assolutamente
sapere chi fosse. Quando furono l’uno davanti all’altro piombò un silenzio
imbarazzante, Luca continuava a guardare esterrefatto l’uomo davanti a sé, gli
sembrava di vedere il proprio riflesso in uno specchio, era davvero inquietante
in un certo senso, ma arrivato a quel punto una conversazione era
d’obbligo.
“Chi sei?”
domandò Luca all’uomo, guardandolo con aria diffidente. L’altro parve aspettarsi
una domanda del genere, anche se sentirsela chiedere doveva avergli fatto un
certo effetto.
“Io chi
sono? – rispose il Doppio – Io, Luca, sono ciò che tu avresti voluto
essere.”
“Come
scusa?” chiese Luca, guardandolo con gli occhi sbarrati. L’altro sorrise
apertamente, la qual cosa rendeva la situazione ancora più angosciante, come
biasimare una reazione del genere?
“Luca, io
sono te. Non lo vedi? Siamo uguali, certo c’è qualche differenza, ma
fondamentalmente siamo identici.”
“Ma… Ma… –
Luca boccheggiò – come è possibile? Non può essere la realtà… Come mai sei
qui?”
“Diciamo
che in un certo senso questa è la realtà. Sono stato mandato per farti
comprendere…”
“Comprendere
cosa? Mandato da chi?” lo interruppe bruscamente il Doppio.
“Non credo
sia il momento migliore per discutere dell’esistenza divina. – replicò pacato il
Doppio – ti basti sapere che non ti farò alcun male fisico. Ti parlerò e ti
mostrerò delle cose. Se vuoi, ovviamente…”
Luca, che
mentre stava parlando il Doppio lo aveva guardato fisso negli occhi, sperando di
carpire il suo segreto, sembrava indeciso sul da farsi. Aveva paura, e quando
non ne aveva avuta? Eppure era attirato da ciò che l’altro doveva dirgli. Ma non
poteva arrivare in ritardo al lavoro… ma, al diavolo il lavoro! Probabilmente
ciò di cui voleva discutere l’altro, di qualunque cosa si trattasse, era molto
più importante e interessante dell’ordine di chiodi che avrebbe dovuto fare
quella mattina.
“Ti
ascolto, ma non dovrò mica incontrare i fantasmi del Natale presente, passato e
futuro,
vero.” affermò Luca asciutto, guardando il Doppio sempre un po’ diffidente.
L’altro
ridacchiò un poco e poi invitò Luca ad entrare nella pasticceria davanti alla
quale si era incontrati: si sarebbe discusso meglio davanti ad una bella tazza
di caffè bollente. Luca non era mai entrato in quella pasticceria, anzi, a dirla
tutta non sembrava mai averla notata, sebbene ci passasse davanti ogni santo
giorno. L’intera pasticceria era composta essenzialmente da una sola stanza
dalle dimensioni piuttosto notevoli, finemente arredata e dai colori pastello.
Davanti alla porta d’entrata a dare il benvenuto ai clienti si ergeva un omino
di marzapane, e subito dopo si estendeva fino all’altro capo della stanza, un
enorme espositore che metteva in bella mostra una quantità infinita di dolciumi
di ogni sorta: cioccolatini dai gusti più disparati, biscotti dalle forme
bizzarre, torte a più piani che sembravano più che altro monumenti, insomma, il
paradiso per ogni goloso. Il resto della stanza era occupato dai tavolini di
varie forme e colori, e sopra ognuno era appeso un lampadario dalle fogge
stravaganti. Nel complesso dava l’impressione di un luogo accogliente e
piacevole, e non a caso vi era una grande quantità di gente di ogni specie.
C’era una coppietta di anziani intenti a mangiare una gigantesca fetta di torta
al cioccolato, un uomo d’affari era alquanto indaffarato a gustarsi una brioche
e a leggere un quotidiano, qualche tavolino più in là c’era una mamma con due
figli, una bambina e bimbo deliziosi, impegnati a fare colazione con tè e
biscotti.
Luca e il
Doppio si sedettero nel più remoto tavolino della pasticceria e dopo aver
ordinato un caffè e qualche dolcetto, si accinsero ad affrontare il famoso
discorso.
“Luca,
come descriveresti la tua vita usando un solo aggettivo?” iniziò il Doppio,
guardando serio Luca al di sopra degli occhiali. Luca sospirò, come poteva
definirsi con una sola parola?
“Bah,
direi, mediocre” rispose mestamente.
“Come
mai?”
“Credo che
ci siano persone alle quali il Destino elargisce doni a piene mani, io purtroppo
non sono mai entrato nelle sue grazie.”
“Quindi
accusi il Destino di ciò che sei divenuto…”
“Sì,
senz’altro. C’è gente che ha tutto, una famiglia, una carriera, sono felici. Io
non ho mai avuto nulla, perché? Non me lo merito come gli altri?”
“Solitamente
si dice che il Destino dà una possibilità a tutti, a te non l’ha data?”
“Sembrava
che me l’avesse data, ma se l’è subito ripresa. Vedi, quand’avevo 25 anni,
fresco di laurea in Ingegneria, mi venne offerto un ottimo posto di lavoro in
un’azienda rinomata, era un’occasione da non farsi sfuggire. Ebbene, la mattina
che avrei dovuto avere il colloquio, ebbi un contrattempo e persi il treno che
avrei dovuto prendere per andare nella città in cui si trovava l’azienda. Lo
interpretai come un segno. Il Destino mi aveva fatto perdere l’occasione che mi
aveva appena dato.”
“Quindi,
mi vorresti dire che non hai atteso il treno dopo per poter raggiungere
l’azienda e fare quel colloquio, anche se un po’ in ritardo?”
“Per quale
motivo avrei dovuto prendere l’altro treno? Avevo perso la mia occasione. Da
quel momento in poi nella mia vita non è mai accaduto alcun fatto di rilevante
importanza. Mediocre, ecco cos’è la mia vita. Sono costretto a fare un lavoro
che odio, sono asfissiato da mia madre, non ho amici, né una moglie, né figli.
Come vedi sono completamente senza una storia, non ho nessuno per cui
vivere.”
Il Doppio
si lasciò scappare uno strano suono, a metà tra una risata e un sospiro: Luca
era un caso disperato.
“Davvero
speri che io abbia pietà di te?” saltò su il Doppio guardando chi gli era seduto
davanti con disprezzo. Infatti, egli aveva cambiato completamente atteggiamento
nei confronti di Luca, sapeva già da tempo com’era lui e quali erano i suoi modi
di fare, però trovatosi di fronte a certi ragionamenti, senza senso secondo il
Doppio, non ce la fece a rimanere calmo.
“Magari la
gente guardandoti potrà anche provare pena per te, ma non ti aspettare lo stesso
da me.” Continuò il Doppio fissando Luca negli occhi.
Luca
rimase impietrito da questa affermazione del Doppio, non si sarebbe mai
aspettato una reazione del genere, l’uomo gli era parso pacato, calmo, gli
sembrava perfino buono; sicuramente uscire con certe frasi, disdegnando ciò che
gli aveva appena raccontato sulla sua infelicità, non era da lui.
“Cosa
intendi dire?” chiese Luca mettendosi sulla difensiva.
Il Doppio
non aveva quasi voglia di rispondergli, perché non se lo meritava; certa gente
bisognerebbe lasciarla a sé stessa, pensava irato, ma infondo era stato mandato
lì proprio per farlo cambiare.
“Ricordi
che ti dissi di essere ciò che tu avresti voluto essere? – disse il Doppio, Luca
annuì lievemente – Ecco, ti sto per raccontare la mia di storia. Avevo 25 anni,
appena uscito con ottimi voti dalla facoltà di Ingegneria, mi venne offerto di
fare un colloquio per un ottimo posto in una rinomata azienda. La mattina che
avrei dovuto il colloquio, ebbi un contrattempo e persi il treno che dovevo
prendere. Ero piuttosto disperato: avevo perso l’occasione della mia vita,
diventare ciò che avrei voluto di più al mondo. All’improvviso però mi resi
conto di una cosa, perché mi dovevo piangere addosso? Io ho in mano le sorti
della mia vita, nessun altro può decidere per me. Chiamai al più presto
l’azienda, avvertendoli del mio ritardo, presi il treno un’ora più tardi, feci
il mio colloquio e mi assunsero. Sono più di vent’anni che lavoro lì, amo ciò
che faccio e sono pure diventato vicepresidente, sai? So di essere un uomo
felice, e non solo per la mia professione. Vedi, non ho mai creduto che la
carriera fosse tutto, certo se c’era non l’avrei rifiutata, però io ho sempre
desiderato una famiglia, solo questo mi avrebbe reso, come posso dire… vivo, sì
vivo. Ebbene, mi ero trasferito solo da poche settimane nella nuova città,
quando conobbi la più bella ragazza che avessi mai visto, appena incrociai i
suoi occhi del colore degli smeraldi, m’innamorai di lei. La dovetti corteggiare
a lungo, ma alla fine riuscii a portarla all’altare, sono ormai quindici anni
che siamo sposati. Ma ciò ancor di più reso felice sono i nostri due figli,
Laura e Marco, sono la cosa più bella del mondo, non lo credi anche tu?”
Mentre
raccontava l’ultimo parte della sua storia, al Doppio vennero gli occhi lucidi,
l’ira di prima aveva lasciato spazio ai ricordi e all’amore; l’uomo, inoltre,
continuava a fissare sorridendo la madre e i due bambini che stavo facendo
colazione pochi tavoli lontano da loro. Ad un certo punto la donna si voltò a
guardare il Doppio, abbozzandogli un sorriso e facendogli un lieve cenno di
saluto. All’improvviso Luca capì.
Quella era la famiglia che avrebbe avuto, se… non sapeva bene come dire, se
avesse preso il treno dopo e non si fosse rassegnato. Luca si girò a contemplare
quel quadretto famigliare, che sarebbe potuto essere il suo.
La donna
era davvero di una bellezza molto singolare, lunghi capelli castano scuro le
coprivano dolcemente mezza schiena, un dolce sorriso era dipinto costantemente
sulle sue labbra e i suoi occhi di un verde talmente particolare avrebbero
potuto scintillare anche nella notte più scura. Laura doveva avere all’incirca sei anni,
assomigliava incredibilmente alla madre, indossava un vestitino rosa davvero
grazioso e inoltre la bambina sembrava incredibilmente obbediente e vivace allo
stesso tempo. L’età di Marco doveva aggirarsi tra i quattro e cinque anni, ma
non sembrava un bambino normale, sebbene fosse molto tranquillo.
“Marco ha
qualche problema?” chiese in soffio Luca al Doppio.
“È nato
con una deformazione genetica, – rispose – è un bambino molto speciale, dico sul
serio, è intelligente quasi quanto gli altri, però farà molta fatica ad essere
accettato in futuro, ma credo che se lavorerà a lungo sulla comunicazione,
perché è in questo che è carente, riuscirà ad essere normale.”
“Non è un
peso per voi?”
“Per
nulla, lo amiamo per quello che è, gli altri pensino di lui ciò che vogliono. Tu
come avresti interpretato la sua nascita, eh? Il Destino che ti odia, vero?”
domandò il Doppio con un sorriso amaro, guardandolo negli occhi. Era incredibile
come fosse in grado solo con il tono della voce di far sentire in colpa Luca,
lui che non si era mai incolpato di nulla e aveva scusato tutti i fallimenti
della sua vita, perché era il Destino il mandante della sua condizione, che lo
aveva semplicemente fatto esistere e non vivere.
“Probabilmente,
sì” sospirò Luca, abbassò gli occhi, non riuscendo a sostenere lo sguardo del
Doppio.
“Hai già
capito perché sono qui, vero? – Luca annuì mestamente – Scusami se ora sarò duro
con te, ma mi è impossibile non esserlo. Quando ti ho chiesto di descrivere la
tua vita con un aggettivo, mi hai detto “mediocre”, concordo con te; ma come ti
ho già detto, conoscendoti non riesco a provare pietà per te, né ora né mai. Hai
preferito sederti su una poltrona davanti al palcoscenico della tua vita,
aspettando di goderti lo spettacolo, perché tanto sono gli attori e il regista
che muovono le fila della storia, e sebbene ti fossi accorto che era una
rappresentazione davvero pessima, sei rimasto spettatore. Perché allora non sei
salito su quel palco improvvisandoti attore e sceneggiatore della tua stessa
vita? Era troppo difficile, giusto? Era troppo faticoso, c’erano troppe
responsabilità, faceva troppo male...
Noi siamo
gli architetti del nostro Destino, scegliamo noi come costruire la nostra vita e
con quali materiali, e se crolla, che facciamo? Abbiamo due possibilità:
arrabbiarci col terremoto che l’ha buttata giù o preparare cemento e mattoni e
ricominciare daccapo e dare origine ad una nuova vita. Servono coraggio ed
energia, ma sai che soddisfazione quando ci si rende conto che ciò che si è
creato è stato fatto completamente da noi, e non da altri. Siamo persone, non
siamo esonerati da commettere degli errori, ma non vi è nulla di completamente
irreparabile, se si ha la forza di volontà di riattaccare di nuovo insieme tutti
i pezzi.
C’è stato
dato il libero arbitrio, ognuno può fare quello che desidera, quindi se rompe
qualcosa paga con la propria moneta e non chiedere il risarcimento dei danni a
qualcun altro, perché non ci si vuole dare la colpa. Tu cosa hai fatto, Luca, se
non questo? Vivi nell’autocommiserazione, vivi un’esistenza mediocre, perché
solo di esistenza si può parlare, dando al Destino la colpa di tutto, sperando
che dal cielo ti piova la felicità. Non sei voluto andare alla ricerca di ciò
che ti avrebbe potuto rendere un uomo felice, bene, è una tua scelta. Ma dopo
non puoi lamentarti di non avere ciò che molti altri hanno. Dovevi lottare, ma
hai preferito sederti in panchina, tu l’hai voluto, e quindi non puoi
arrabbiarti con l’allenatore che non ti fa entrare in campo. Non è giusto! Gli
altri non devono farsi carico dei tuoi errori, hanno già i loro di cui
occuparsi. Non puoi andare in giro per la strada urlando il tuo dolore, sperando
che altri abbiano pietà di te e che ti aiutino; o convivi con ciò che ti fa
male, senza lamentarti o lo cacci via. Tutto dipende da te e da ciò che vuoi. Il
Destino è una creazione degli uomini come te, che non vogliono addossarsi le
conseguenze delle proprie scelte e credono più facile dare la colpa a qualcun
altro, perché sembra lenire il dolore delle loro ferite, ma non è così, credimi,
perché ciò che ti ha tormentato tornerà indietro e farà ancor più male.
Non era
mia intenzione farti soffrire, ma ora vedi come brucia la verità che in passato
hai rifiutato?”
“Potrò mai
rimediare?” chiese debolmente Luca, guardando il Doppio da dietro gli occhiali
appannati dalle lacrime. L’altro sorrise, finalmente nei suoi occhi non vi era
più un briciolo di rimprovero. “Cosa ti ho appena detto? Tu puoi fare quello
che vuoi, non è mai tardi per riprendere gli attrezzi e ricominciare a curarsi
del proprio orto. Vai, sei ancora in tempo, esci, pagherò io il conto!” rispose
il Doppio facendogli l’occhiolino.
Luca non se lo fece ripetere, salutò
velocemente il Doppio e la sua famiglia e uscì dalla pasticceria. Appena varcata
la soglia della porta, si svegliò nel suo letto. Si mise gli occhiali,
guardandosi attorno e riconobbe la sua camera. Aveva due opzioni ora: disperarsi
e rimpiangere una vita non vissuta, o alzarsi e andarsi a preparare per salire
sul palcoscenico e diventare il protagonista della sua vita. Scelse la seconda
possibilità.
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