The
meaning
– Il senso
Capitolo
unico
Eccomi.
Sono davanti a un foglio
vuoto, che tento di scrivere la mia vita senza sapere da dove
cominciare. Forse
dovrei partire dal principio, ma sento che non mi sarebbe
d’aiuto e quindi
lascio perdere. No. Inizio dalle lacrime che bagnano questo insulso
pezzo di
carta, cancellando le parole che sto scrivendo a fatica. Inizio dalla
mia mente
turbata, e confusa; dalle mani che mi tremano, dall’angoscia
che sento dentro.
Perché, nonostante non sia più sicura di chi sono
io e di cosa ci faccio qui,
c’è una cosa su cui non ho nessun dubbio, che
è il dolore che mi porto dentro
da tanto, troppo tempo.
Il
mio nome è Elisa, ma questo
non significa proprio niente. Shakespeare diceva che il nome in
sé non conta
niente, poiché non contribuisce a ciò che
è il nostro essere. Io sono
pienamente d’accordo. Potrei chiamarmi Maria, Giovanna o
Gertrude, e la mia
storia non cambierebbe. Io non cambierei. In fondo chi lo sa, se Elisa
è il mio
vero nome. Potrei aver detto una bugia, e non chiamarmi affatto
così, ma
arrovellarvi nel dubbio non servirà e dunque lasciate
perdere questa futile
questione.
Si
avvicina sempre di più il
punto in cui dovrò mettere a nudo la mia anima e i miei
sentimenti, e lo
ammetto, sto cercando di far passare più parole possibili
prima di arrivarci.
Ne sono terrorizzata. Intanto però vi informo che grazie a
questo sciocco
foglio di carta ho smesso di piangere, il che è positivo ed
un gran
miglioramento visto che non rischio di buttare alla fine un testo
più simile ad
un kleenex che al surrogato della mia vita.
Spogliarsi,
metaforicamente
parlando, non è affatto semplice. Non so se scrivere di
ciò che mi è successo,
di chi sono – o di chi ero o credevo di essere; non so cosa
scrivere e basta.
Già
credo di vedere i pochi che
leggeranno questo sfogo a immaginarsi i drammi d’amore che la
povera scrittrice
ha dovuto affrontare con coraggio indomito, come l’eroina di
un film senza
lieto fine. Ebbene, cancellate questi pensieri dalla vostra mente,
perché se
volete passione e sentimenti struggenti dovete proprio cambiare
lettura. Se mai
nominerò l’amore, in questa simil-biografia,
sarà solo argomento marginale e
mai protagonista della scena.
I
miei attori sono la paura e
l’insicurezza, e una maschera di fredda indifferenza e
allegria contagiosa.
Recitano bene, loro, sono in perfetta armonia. Io, che dirigo la scena,
sono
diventata ormai brava nel mio compito e tutto fila liscio in perfetta
armonia.
Chi
mi conosce sa che sono una
persona forte, che non mi abbatto mai e che lotto con tutta me stessa
per
raggiungere i miei obiettivi, perché sono ambiziosa. Chi mi
conosce sa che mi
piace sorridere e giocare a fare la bambina, che amo la vita prima di
tutto e
che vedo il mondo in positivo, a colori. Sa che su di me si
può contare, perché
so tacere e ascoltare quando serve e, senza modestia, a volte risolvo
anche
qualche problema. Sa che mi piace dormire e usare poveri malcapitati
come
cuscino, che comandare mi piace e che prendo le decisioni in fretta, di
solito,
nella mia avventatezza. Sa anche che posso essere estremamente acida e
cattiva,
soprattutto sotto pressione, da essere imperfetto quale sono, e che,
fin troppo
razionale e sovraccarica di pensieri, mi lascio spesso prendere dal
nervosismo
e dall’isterismo. Però sa che non mi arrabbio
facilmente… o forse sì. Dipende
dalla situazione, diciamo.
Ma
allora perché piango e non c’è
nessuno qui accanto a me a dirmi che posso farlo quanto voglio?
Perché
anche chi mi conosce, chi
mi apprezza veramente, chi si farebbe in quattro per me, in
realtà non mi
conosce affatto. Perché io sono insicura, timida,
nostalgica, triste e debole.
E ho voglia di urlare, a volte, ma non posso farlo, e non posso
piangere quando
voglio, o ricordare il passato quando voglio, o scappare da tutto e da
tutti quando
voglio. Perché ho paura, e sono come bloccata in questo
limbo in cui si sta
trasformando la mia vita.
Ho
paura, capite? Paura del
mondo, di me stessa, della vita che non ho e di quella che vorrei
avere. Ho
paura degli altri e di ciò che mi lega a loro. Ho paura di
essere me stessa,
perché non c’è spazio per me nel mio
mondo. Ho paura dell’ombra della
solitudine più di ogni altra cosa, perché odio
essere sola e più lo odio, e lo
temo, e più non riesco a reagire. Ho paura delle mie mani,
che scrivono ciò che
mi detta la mente, e non si preoccupano di nascondere ciò
che ho dentro, e ciò
che nemmeno sapevo di avere dentro.
Sì,
ho paura. Una paura folle e
cieca, e tuttavia non riesco a superarla. Eccole di nuovo, le mie
amiche
lacrime, che tornano a farmi compagnia e a idratarmi la pelle. Mi piace
la
parola lacrima, ha un bel suono. Quando la sento penso a una goccia
solitaria,
sospesa a mezz’aria senza poter cadere. Ed è
strano, ma non so perché. Forse ci
rivedo la mia vita in questa libera interpretazione, in perenne bilico,
o forse
è solo il frutto di una mente annegata
nell’amarezza e nella nostalgia.
Scrivere
mi viene facile ora.
Sento che non devo andare con ordine, che non devo essere precisa.
Queste
parole servono più a me che a voi, ed ora sono quasi
convinta del tutto che non
le leggerà nessuno, perché in realtà
non voglio che vengano lette.
Eccola,
la mia debolezza. Vedete
come ritorna? E’ sempre lei, che anzi non se ne va mai, che
resta in agguato
dietro gli angoli nascosti della mia mente, in attesa che si presenti
un
momento adatto per farmi sentire ancora peggio di come già
non stia. Perché
scrivo se nessuno lo leggerà mai? Mi rendo conto che in
fondo non è importante,
che scrivo perché ho voglia di farlo, perché dopo
tanto tempo sto per scoppiare.
E
c’è sicuramente chi sta peggio
di me, ma sono egoista e non voglio pensarci. Se io mi sento uno schifo
così,
figuriamoci quegli altri poveracci. No, molto meglio cercare di capire
cosa mi
affligge; cos’è quella morsa allo stomaco che non
se ne va, e perché gli occhi
ce li ho rossi di pianto? La verità è che non lo
so nemmeno io perché sto male.
Io non mi conosco affatto e questo mi spiazza, perché avevo
sempre creduto di
poter contare almeno su me stessa, perché la mia adorata
mente non mi avrebbe
mai tradito e perché credevo di conoscere ogni sfaccettatura
di me stessa. E
invece non è così. Non è
più così.
Non
avevo mai scritto nulla che
riguardasse me in prima persona. Mi piace scrivere perché
libera la mente e
aiuta a chiarirsi le idee quando si è in confusione. Lo
faccio da sempre,
dacché ho memoria di me stessa. I diari no, quelli non sono
mai riuscita a
tenerli. Ci avevo riprovato, qualche giorno fa, ma ho smesso subito.
Non fa per
me. Però datemi una penna e un foglio, e in poco tempo tiro
fuori la nuova
favoletta della buona-notte per qualche bambino poco assonnato. Loro
sì che mi
piacciono. I bambini, intendo. Sono imprevedibili, così
pieni di vita e di
tenerissima ingenuità.
Peccato
che probabilmente non
avrò mai figli miei. E qui torniamo alla mia viscerale paura
dei legami con le
persone. Me ne sono resa conto da poco in realtà, ma
è stata una vera botta di
vita, ironicamente parlando. Già ero sconsolata di mio, che
viene a rallegrarmi
questa nuova consapevolezza, questa nuova fobia. Ce l’ho
sempre avuta, in
realtà. La paura di legarmi a qualcuno. Di mostrare il mio
vero io. Sempre che
ci sia, un vero io, ma questo è un altro discorso. Ce li ho
degli amici, non
crediate di no. Anche amici a cui non mentirei mai, amici che mi
vogliono bene
e a cui io donerei volentieri un rene. Però mai oltre a
questo. Ci vuole tanto
per guadagnarsi la mia fiducia. Sono cordiale con più o meno
tutti, ma non
credo proprio che andrei da un compagno di scuola (sì, vado
ancora a scuola) a
raccontargli le mie pare mentali. Forse con qualcuno potrei farlo, ma
conosco
sì e no due o tre persone sulla faccia della terra con cui
sarei sincera fino
alla fine. Una di queste mi ha quasi sicuramente dimenticata, sepolta
nel
passato come una fetta della sua vita, come qualcosa di poco
importante, che non
ha lasciato il segno abbastanza da essere ricordata fino in fondo.
Mai
oltre una semplice amicizia.
No. Non sono capace di uscire con i ragazzi, di dire quel maledetto
sì alla
semplice domanda “Usciamo insieme?”. E’
una sillaba, in fondo. Sì. Cosa c’è di
straordinariamente complicato? Niente. Ma se non mi facevo le pare che
diamine
stavo a fare qui? Una volta un ragazzo mi ha detto di amarmi. Io di
certo non
provavo niente per lui, tanto che era per me un semplice amico e
nemmeno
immaginavo cosa gli frullasse per la mente (questa è una
bugia; lo sapevo ma
speravo che non fosse così). Avrei potuto renderlo felice,
vedere se riusciva a
scongelarmi, e invece no, sono stata sincera. Ma in fondo non ho
rimpianti. So
di aver fatto la cosa giusta quella volta, perché dire
cavolate alle persone a
cui voglio bene, anche se sono diventata brava a farlo, non mi piace.
Mi
rendo conto che sono calma.
Sì, è come se tutto intorno a me tendesse le
orecchie e ascoltasse cose che non
riesco a percepire. C’è un silenzio irreale, che
è quasi fastidioso,
insopportabile. La penna indugia un attimo su queste parole, che fanno
fatica a
uscire. Non è facile, no. Descrivere ciò che
c’è intorno a me quando sono tanto
concentrata su me stessa.
Ho
riempito poche pagine, e già
mi sembra di aver detto tanto. Non ricordo cosa ho scritto, ma non ha
importanza. L’ordine non è tutto. Il senso
c’è, anche se a voi può sfuggire. Io
lo sento. C’è senso. E c’è la
paura. Ma il peso sullo stomaco sembra aver
allentato la presa, almeno per ora. So che presto tornerà, e
allora continuerò
a scrivere, perché mi sono resa conto che mi aiuta davvero a
fare luce sulle
mie ombre.
Una
mia amica, una di quelle
vere, dice che io sono rimasta scottata in passato, e che ho paura di
ferirmi
ancora. E questo è vero. C’è stato
più di un addio nel mio passato, e tanta,
tanta sofferenza. Ma ho sempre avuto la forza di rialzarmi di fronte
agli
altri, anche se dentro di me ho sentito le poche certezze andare in
frantumi e
il mio cuore che piangeva al posto dei miei occhi, che si rifiutavano
di farlo.
Che poi, perché si dice cuore? Il cuore è un
organo, che per quanto vitale
serve solo a pompare sangue. Ma penso che il senso l’abbiate
afferrato
comunque.
Comunque
non credo che sia solo
il mio passato a tormentarmi. Troppo facile. E’ tutta la mia
vita, sono io. Io
che non riesco a farmi battere il cuore di fronte a qualcuno, che non
sento mai
nessuno sfarfallio allo stomaco, che mi sento un mostro…
Non
mi sono mai innamorata. Non
conosco nemmeno una persona che non abbia mai avuto nemmeno una cotta,
me
esclusa. E questa mia diversità mi da in realtà
parecchie grane. Perché mi
sento terribilmente sola, e temo che ci rimarrò per tutta la
vita. Mi spaventa
questa prospettiva. Tanto.
Se
penso al matrimonio mi sento
soffocare. No, non chiedetemi il perché. Io non lo so.
Matrimonio. Io non
voglio sposarmi. Pensare di avere delle catene mi fa sentire in gabbia,
ancor
più stretta di quella che mi sono creata da sola.
Quello
che mi manca è il contatto
umano. Me ne rendo conto, e so che non posso farci nulla, che nessuno
può. Che
nessuno si avvicinerà mai tanto a me da colmare il bisogno
d’affetto che sento,
che va oltre ciò che possono regalarmi i miei pochi cari
amici. A volte credo
di essere sola. Ci penso sul serio, mi dico che nessuno vorrebbe mai
starmi
accanto, perché sono una persona veramente insopportabile.
Ma mi piaccio come
sono, fobie a parte. Se solo non avessi questo rifiuto nei confronti
degli
altri forse potrei anche trovare la forza di sorridere con tutta me
stessa,
perché sì, ridere mi piace veramente tanto. Tutto
sembra più bello quando ridi.
Il mondo pare più luminoso, e se poi stai sorridendo per
qualcuno ti alludi di
poter trasmettere un po’ di buoni sentimenti anche a quella
persona. Io lo so.
Mi fa sentire viva, e per questo lo faccio spesso. E in quei momenti
dimentico
tutti i miei problemi, e torno spensierata per parecchio tempo. Solo
che poi
inevitabilmente ripiombo nello sconforto, e la solitudine mi fa sentire
freddo
d’Agosto, e la paura mi chiude in me stessa, e non esco da
casa mia, e non vedo
nessuno, nemmeno il mio riflesso, perché non lo sopporterei.
Scappare da
qualcosa di astratto è semplicemente assurdo. Ma
così io soffro di meno. E’ l’unica
strada che conosco per vivere, capite?
Tutti
pensano che indossare una
maschera sia duro, e difficile. Io che di maschere ne ho
centocinquanta, posso
con certezza affermare che è in realtà la via
più facile che esista, che è un
riflesso incondizionato, che finisce per essere più vera la
maschera di te
stesso. Non è difficile, è semplicemente una
scelta. Qualcosa come un muro,
progettato e costruito per tenere gli altri fuori, e chiudere te dentro.
Tra
poco deporrò la penna, e le
parole cesseranno, e io andrò a dormire e forse
piangerò ancora tra le coperte.
Deporrò la penna senza avere la certezza che qualcuno
leggerà il mio lavoro, il
mio sfogo, la mia storia, mai narrata e mai udita. Potete immaginarla
però?
Sono stata brava?
Sono
direttore della mia vita, la
gestisco e la distruggo da sola, inerte come una marionetta, eppure
sono io a
decidere. I miei attori sono la nostalgia e l’amarezza, le
lacrime vanno in
scena coi sorrisi, e mille maschere si alternano per confondere un
pubblico che
non capisce quando la finzione tocca la realtà.
Applaudirete
alla fine di questo
spettacolo?
Il senso, alla fine, non è tutto.
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Questa roba l’ho scritta ieri notte.
Anzi, questa mattina dovrei dire,
considerato che la mezzanotte era passata da un pezzo! Il che spiega
anche la
schifezza in questione… Ma che ci posso fare io se mi sono
ritrovata davanti a
un foglio di Word col morale sotto all’Inferno?
Non dovete recensire per forza, ma se arrivate alla
fine, o anche se
non ci arrivate, sarebbe carino lasciarmi un commentino… Mi
serve per
migliorarmi, quindi mi fareste veramente un grande favore. La mia
principale
preoccupazione è che il testo sia troppo pesante, che ci si
annoi mortalmente
prima di raggiungere l’ultima frase. Da scrittrice di questo
surrogato di
storia non posso valutare la cosa oggettivamente, e quindi qualsiasi
recensione, sia negativa sia positiva, sarà ben accetta.
Grazie mille anche solo per essere passati di qui!
Gea
Kristh
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