kai
Aloha
Hauʻoli
N.d.A: piccola shot per festeggiare, anche se in ritardo, il Natale. Partecipa alla challenge Dal nome alla storia di Nonna Papera sul forum di Efp. Il nome che ho usato è Kai, che in Hawaiano vuol dire "oceano". E quale migliore destinazione per qualcuno che in un gelido mattino di inverno litiga con i suoi? Baci a tutti e Buone Feste dalla vostra Stellalontana.
«Basta! Me
ne vado!»
Sebastian
mollò un calcio alla porta della sua stanza e corse via,
sbattendosi la porta di casa alle spalle. Uscì fuori, nella
neve di dicembre, il freddo pungente gli entrò subito nelle
ossa e il vento gli tagliò il volto come tanti coltelli
affilati.
Respirò a
fondo l’aria gelida, e quando fu certo che nessuno gli
sarebbe corso dietro s’incamminò verso la
più vicina stazione della metro. Scrutò i
cartelloni appesi che recitavano le fermate in colori accesi.
Appoggiò il borsone a terra, indeciso.
Ora che aveva sbollito
la rabbia, camminando un po’ nel gelo, l’idea di
tornare a casa non era poi così scontata, ma quando
ripensò a suo padre e al modo in cui l’aveva
praticamente sbattuto fuori, l’ira tornò e un
profondo senso di ribellione lo mosse verso la linea che portava
all’aeroporto.
I soldi ce li aveva
– in effetti non erano quelli che mancavano, in casa sua
– e allora perché non sprecarne un po’?
Tanto suo padre di certo non avrebbe obiettato, finché se ne
stava fuori dai piedi.
Si sedette nel vagone,
accanto a un bambino che stava giocando con un robot. Sua madre lo
teneva sulle ginocchia, stretto a sé. Il bambino lo
guardò e sorrise. Gli mancavano tutti e quattro i denti
davanti.
«Che
c’è lì dentro?»
domandò dopo un po’. Sebastian scrollò
le spalle.
«Un
po’ di cose.» rispose.
«Quali
cose?»
«I miei
vestiti e qualche libro» ribatté allora Sebastian
«per un viaggio.»
«E dove vai?
Non hai un’altra valigia?»
Arcuò le
sopracciglia. «No. E non so dove vado.»
«Mick,
smettila di importunare il signore.» disse a quel punto la
donna, rimbeccando il bambino, che strinse il robot tra le mani e mise
il broncio. Sebastian scosse la testa.
«Non si
preoccupi, nessun fastidio.»
La donna, chiaramente
contrariata, lo guardò senza dire nulla. Scesero alla
fermata dopo, lasciando Sebastian solo nel vagone. Non c’era
folla nella metro, visto che mancavano tre giorni a Natale.
Già,
Natale, pensò Sebastian, e io vado all’aeroporto.
Beh, si disse
scendendo dal vagone, i suoi se l’erano voluta. Non era certo
colpa sua se suo padre era un militare della vecchia guardia che odiava
tutto ciò che suo figlio faceva o diceva. La scelta del
college, la scelta degli amici, la scelta dei vestiti, la scelta
sessuale. Soprattutto quella. Sebastian si appoggiò al
parapetto del secondo piano dell’aeroporto, guardando in
giù. Non c’era molta vita, all’interno
dell’aeroporto, ma alcune persone andavano e venivano con
enormi valigie o zaini e lui si sentì un po’ meno
solo.
Raggiunse i banchi del
check-in dove una graziosa ragazza in divisa verde scuro gli sorrise.
«Vorrei un'informazione,» disse prima che lei potesse dire qualcosa
«il primo volo che parte?»
La ragazza
aggrottò per un momento la fronte. «Un momento
solo.» batté qualcosa al computer poi
rialzò la testa «Honolulu.» rispose.
Sebastian
deglutì. Honolulu, Hawaii. Tamburellò le dita
sopra il ripiano, cercando di riflettere più in fretta
possibile. La ragazza lo guardava con attenzione, forse cercando di
decidere se aveva abbastanza soldi per potersi permettere un viaggio
del genere.
«Il gate
chiude tra mezz’ora.» lo informò con
voce piatta.
Sebastian estrasse il
portafogli dalla tasca dei jeans. «Questa basta?»
chiese tirando fuori l’American Express. La ragazza la prese
tra le dita dalle unghie laccate di rosso e sorrise.
«Certamente.»
Cinque minuti dopo
Sebastian stava in fila al gate, aspettando di salire
sull’aereo della Hawaiian Airlines. Qualcosa vibrò
nella tasca dei jeans. Sul display del suo Black Berry
lampeggiò la scritta “mamma”. Con un
sospiro spense il cellulare, tolse la sim e lo gettò nella
spazzatura, mentre la fila scorreva. Cacciò la sim nel
portafoglio e riprese la borsa per uscire nel gelo.
Salito
sull’aereo gli venne in mente che se non avesse riattivato la
sim nessuno avrebbe saputo dove si trovava. Quella consapevolezza lo
fece preoccupare e esaltare nello stesso momento. Non è
così che fa la gente quando scappa? Stacca i cellulari, non
saluta nessuno, non avverte nessuno.
Si rilassò
sul seggiolino, accanto a lui un uomo di mezz’età
leggeva tranquillamente un giornale in hawaiano, e prima ancora che
l’aereo decollasse, già dormiva.
*
Il volo fino a
Honolulu era stato tranquillo. Sebastian non aveva mai avuto paura di
volare, aveva viaggiato molto con la sua famiglia. Soprattutto aveva
dormito per tutto il viaggio o quasi, quindi non aveva avuto nemmeno il
tempo per avere paura dei vuoti d’aria, che dovevano aver
spaventato a morte l’uomo che sedeva al suo fianco, visto che
quando scesero il suo colorito era virato al verde.
Alle Hawaii faceva
caldo. Faceva un caldo tremendo. Sebastian si tolse il cappotto e la
felpa, ripiegandole di malagrazia all’interno della borsa. Si
asciugò la fronte e si incamminò verso
l’uscita. C’erano taxi che attendevano gli arrivati
proprio lì fuori, ma Sebastian preferì
incamminarsi. L’aria era calda, ma sopportabile, spirava una
leggera brezza da sud e tutto era immerso nel sole. Era dicembre anche
lì, ma non c’era un grammo di neve o un termometro
che segnasse meno di trenta gradi.
Alcune bellissime
ragazze con il gonnellino di paglia e collane di fiori gli passarono
accanto cantando allegre, un ragazzino con lo skateboard lo
sorpassò a tutta velocità e un uomo che doveva
avere almeno settant’anni cantava con una chitarra a tutta
voce sulla spiaggia.
Sebastian
lasciò scorrere per un momento il traffico,
attraversò la strada e si fermò sulla spiaggia,
con le scarpe immerse nella sabbia bianca. Alla fine se le tolse, le
cacciò all’interno della borsa e piegò
i jeans così che non si riempissero di sabbia.
Camminò per qualche minuto sulla spiaggia, osservando i
turisti e gli hawaiani che prendevano il sole o facevano il bagno. Si
sedette su un tratto di spiaggia semi deserto, a guardare
l’oceano. Un immensa distesa di acqua salata che risplendeva
al sole accecante, un’altrettanta distesa di cielo azzurro in
ogni direzione e laggiù all’orizzonte, lo strano
velo di foschia creata dal sole, che confondeva la vista e la sottile
differenza tra cielo e mare.
Sebastian chiuse gli
occhi, godendosi il tepore del sole sulla faccia. Un libro non recitava
forse che le Hawaii erano il paradiso del sole e del mare?
Era vero, per quanto
ne sapeva Sebastian.
Riaprì gli
occhi, mentre alcuni ragazzi con delle tavole da surf correvano verso
l’acqua. Le onde erano piccole, ma Sebastian si disse che
quei ragazzi volevano soltanto vantarsi. E ne avevano di cose per cui
vantarsi. Soprattutto uno.
Lo guardò
mentre entrava in acqua, sollevando spruzzi tutt’intorno, e
saliva sulla tavola per poi cadere di nuovo tra le risate generali. Un
ragazzo abbronzato e dal fisico mozzafiato, i capelli scuri e lunghi
legati sulla spalla. Aveva un costume a fiori nero che gli si
appiccicava attorno alle gambe.
Sebastian
cercò di distogliere lo sguardo, ma non ci
riuscì. Era troppo vicino alla battigia per far finta di
guardare altrove. Allora rimase lì ad osservare quei
ragazzi, cinque in tutto che lottavano tra loro e con le piccole onde
che si infrangevano addosso a loro. Non seppe quanto tempo
passò, ma rimase deluso quando uscirono
dall’acqua. Sospirò. Voleva dire che doveva
andarsene, anche perché doveva trovare un posto dove stare.
«Ehi, tu! Mahilini!
Ehi!»
Sebastian si
voltò. Il moro che aveva guardato per tutto quel tempo si
stava avvicinando ancora tutto bagnato, con l’acqua che
scivolava i rivoli sui suoi addominali. Sebastian cercò di
distogliere lo sguardo.
In mano il moro
reggeva un pallone.
«Ci
servirebbe un portiere.» disse quando si fu avvicinato.
Sebastian rimase lì impalato, nei suoi jeans e la sua
camicia bianca.
«Io...»
«Andiamo,
biondino, non farti pregare.» lo spronò
l’altro. Gli tirò la palla contro e Sebastian
l’afferrò appena in tempo prima che gli rompesse
il naso.
«Chi hai
chiamato biondino?»
Il moro sorrise.
«Allora, sei dei nostri?»
«Sebastian.»
si presentò allungando la mano. L’altro gli porse
la sua e la strinse.
«Kai»
lo tirò «e non credo che i vestiti ti serviranno,
qui.»
Sebastian
sperò proprio che fosse un promessa.
*
«E bravo
biondino, dove hai imparato a parare?» chiese Kai mentre
Sebastian si accasciava sulla sabbia. Rise.
«Mio padre
era convinto che mi sarei rotto l’osso del collo,
così...» rispose. Kai si sdraiò accanto
a lui e si puntellò sul gomito per guardarlo.
«Davvero? E
adesso dov’è?»
Sebastian lo
fissò senza capire, e l’altro sbuffò
contrariato.
«Tuo padre,
intendo.»
Lui si
rabbuiò. Non voleva ripensare ai suoi e a quello che gli
avevano detto subito prima che lui decidesse di scappare. Chiuse gli
occhi, per non dover rispondere, e si voltò
dall’altra parte.
«Ho capito,
non vuoi parlarne.»
«No, non
voglio parlarne.» confermò Sebastian
«Dimmi di te. Che fai nella vita?»
Kai rise.
«Mio padre ha una pescheria qui vicino. Viviamo qui sulla
spiaggia. Laggiù.» allungò una mano e
indicò un gruppo di linde casette di legno in fondo alla
spiaggia, circondate da un boschetto di rigogliose palme.
«Quindi fai
il pescatore?»
«Mio
padre» lo rimbeccò Kai «comunque
sì, a tempo perso. E poi scrivo per un giornale giovanile di
Honolulu.» alzò il polso destro facendogli vedere
una collana arrotolata con un dente di squalo fissato con un nodo.
«Questo me lo ha portato mio padre dopo una notte di pesca.
Lo squalo morse un pescatore, ma si salvò e dalla ferita
hanno estratto questo. È un simbolo di coraggio.
È preziosa per me.»
Sebastian lo
fissò. Il suo volto abbronzato si tese in uno dei suoi
bellissimi sorrisi. Aveva gli occhi di un nero assoluto, ma sembravano
avere una luce propria quando sorrideva.
«Insomma,
sai bene cosa fare della tua vita.» commentò. Kai
aggrottò le sopracciglia.
«Perché
tu no?» domandò. Sebastian sollevò le
spalle.
«Mio padre
critica tutto quello che faccio, mia madre non fa niente per
difendermi. Quando ho scelto il college ha detto che non andava bene,
che non mi avrebbe permesso di andarci.» sollevò
la sabbia e se la fece scorrere tra le dita.
«Quindi non
vuole che tu segua i tuoi sogni.» riassunse Kai.
«Già,»
sospirò lui «è per questo che sono
qui.»
«Sei
scappato.»
Sebastian si mise
seduto e fissò Kai negli occhi. Si guardarono per diversi
momenti, poi Sebastian si alzò e fece qualche
passo sulla spiaggia. Era quasi il tramonto, ormai, e il cielo si
incendiava di arancione e rosso e all’orizzonte era oro e
blu. Non aveva mai visto un tramonto così.
Respirò a fondo quell’aria limpida.
«Ho litigato
con i miei» confessò «sul fatto che sono
gay. Mio padre non lo accetta, mia madre non sa cosa fare, e allora...
beh, all’ennesimo urlo ho preso lo zaino e me ne sono
andato.»
Non aveva sentito Kai
alzarsi, così sentì solo il suo braccio che si
appoggiava al suo. Era caldo, e rassicurante. Rimasero in silenzio per
parecchio tempo, poi fu Kai il primo a parlare.
«Hai un
posto dove stare?» chiese. Sebastian arcuò le
spalle.
«No.»
«Bene,»
commentò Kai allontanandosi «allora
vieni.»
Sebastian rimase
immobile a guardarlo, prima di realizzare e afferrare la borsa per
seguirlo.
«Dove
andiamo?»
Kai lo
guardò con uno strano sorrisetto. «Lo
vedrai.»
Fu solo quando ebbero
camminato a lungo sulla spiaggia che Sebastian si rese conto di dove lo
stava portando Kai. Casa sua.
Kai lo fece entrare, e
Sebastian si pentì immediatamente di aver accettato la sua
ospitalità. La casa era tra il moderno e quello che lui
intendeva come capanna, al centro della sala c’era un tavolo
di legno di palma e bambù al quale sedevano una donna e un
uomo, i genitori di Kai, presunse Sebastian, e una bambina, di non
più di dieci anni.
«Makua, questo
è Sebastian.» lo presentò Kai.
L’uomo, che non poteva aver ancora superato i
cinquant’anni si alzò con un sorriso sul volto
abbronzato. Assomigliava incredibilmente a Kai.
«Aloha, Sebastian.
Io sono Nahoa.»
Sebastian non sapeva
che cosa fare o dire, perciò se ne stette in silenzio,
stringendo la mano di Nahoa. La donna, la madre di Kai, si
alzò a sua volta e si avvicinò.
«Aloha, ragazzo. Io
sono Kaila. Benvenuto a casa nostra.»
Sebastian sorrise
stentato. «Grazie, signora, io però...»
«Niente
signora. Sarai stanco, immagino e affamato se sei stato con Kai tutto
il giorno.» gli strizzò l’occhio, e
Sebastian sospettò che ci fosse qualche significato nascosto
sotto quell’affermazione. Poi sentì qualcuno che
gli tirava i jeans, ormai irrimediabilmente sporchi di sabbia umida.
Era la piccola che sedeva al tavolo. Piccola, insomma.
«Io mi
chiamo Malie. Sono otto anni.» si presentò in un
inglese un po’ arrabattato. Kai rise.
«Ho otto anni,
Malie.» la corresse scompigliandole i capelli neri.
«No, io sono
otto anni, tu ventidue.» replicò. Sebastian non
poté fare a meno di accordarsi alle risate generali.
«Vieni,
mentre mia madre cucina ti faccio vedere la cosa migliore di questo
posto.» gli propose Kai, facendogli un cenno.
Perché non sei tu la
cosa migliore? avrebbe voluto domandare
Sebastian, ma si trattenne. Oltrepassarono una porta, poi un corridoio
su cui davano due camere da letto e il bagno e uscirono su quella che a
prima vista lui aveva creduto una terrazza, invece era una specie di
continuazione del pavimento, una palafitta proprio in mezzo
all’acqua cristallina.
«Di solito
vengo qui per guardare le stelle.» disse Kai. Sebastian era
senza parole. Davanti a lui, in tutte le direzioni, c’era
soltanto acqua. Non ne aveva mai vista tanta tutta insieme. L’oceano.
A nord, verso il
promontorio di Honolulu, si scorgevano le navi e i pescherecci che
uscivano in mare con il favore delle tenebre per pescare crostacei,
mentre, dove il sole era tramontato, le stelle stavano facendo capolino
sull’orizzonte.
«È
bellissimo qui.» commentò.
«Già»
ammise Kai «vieni, ti do qualcosa di pulito da
metterti.»
Sebastian lo
seguì di nuovo dentro, poi in camera di Kai, rivestita di
articoli di giornale, una tavola da surf in un angolo, uno skateboard
che faceva capolino da sotto il letto, una scrivania e un armadio di
palma. Gli gettò una maglietta blu e un paio di pantaloncini
bianchi, e prese i suoi vestiti quando Sebastian se li fu tolti.
«Dirò
alla mamma di lavarteli.»
«Non ce
n’è bisogno!» obiettò
Sebastian mentre s’infilava i pantaloni. Kai sorrise.
«Sì
che ce n’è. Finché starai
qui.»
Sebastian lo
guardò uscire e rientrare un minuto più tardi.
«Non starò a lungo,» rispose
«non voglio essere un peso.»
L’altro lo
guardò incrociando le braccia sul petto. «Non lo
sei, infatti.» e la sua frase era una di quelle frasi che non
ammetteva nessuna replica. Sebastian si infilò la maglia con
un sospiro rassegnato. Non si sarebbe mai aspettato
un’accoglienza del genere, da nessuna parte, soprattutto in
un luogo così lontano da casa sua. Si prese tutto il tempo
del mondo per annodare i lacci che stringevano l’elastico dei
pantaloni per rimettere in sento le idee.
Suo padre lo avrebbe
trovato, prima o poi, e lo avrebbe convinto a tornare a casa. Gli
mancava sua madre, ma era ancora troppo arrabbiato per poter pensare di
poter perdonare il suo comportamento. Era anche vero che lui non era
mai stato capace di negoziare con suo padre o di essere diplomatico,
così urlavano e gridavano tutti e due e sua madre non sapeva
da che parte stare.
Non è colpa
mia, pensò piccato. O almeno non era sempre colpa sua, come
sosteneva suo padre.
«Hai bisogno
di aiuto?»
Sebastian si riscosse
e si voltò. Kai se ne stava appoggiato alla parete, le
braccia incrociate sul petto.
«No,
grazie.» rispose Sebastian arrossendo. Kai
ridacchiò.
«Hai preso
un po’ di sole,» lo informò
avvicinandosi «hai il viso rosso.»
Il biondo si
spostò di un passo all’indietro e Kai si
fermò, arcuando le labbra in un ghigno che non aveva niente
di rassicurante.
«Che fai,
scappi?» domandò divertito. Sebastian
deglutì, senza sapere che cosa dire. Voleva rispondergli per
le rime, ma tanto ogni volta che cercava una frase ad effetto nel suo
cervello quella non arrivava mai in tempo.
«Ragazzi, a
tavola!»
Kai sospirò
teatrale. «Salvato dalla cena.»
Sebastian lo
fissò. «Salvato da cosa, di preciso?»
L’altro si
limitò a guardarlo con quegli occhi neri come la notte e a
sorridere. Ma in quel sorriso non c’era assolutamente niente
di confortante.
*
Domani
è Natale.
Sebastian
aprì gli occhi. Dalle tende filtrava il sole e
capì che era già mattina inoltrata. Precisamente
era la mattina del 24 dicembre, la vigilia di Natale.
«Hoi Ahiahi Kalikimaka!»
Sebastian
sobbalzò sul letto. Kai indossava già il costume
da bagno e una maglia aderente azzurra ma aveva uno stupido cappello da
Babbo Natale verde acceso e due collane di fiori rossi e bianchi.
«Buona
vigilia di Natale.» tradusse poi quando si accorse della
faccia di Sebastian.
«Ah.
Grazie.» non era proprio in vena di ricambiare
l’entusiasmo di Kai. Si alzò e si
vestì, sotto lo sguardo dell’altro.
«Awe, che
brutta cera!»
Sebastian non
replicò, ma prese la ghirlanda che Kai gli offriva, e se la
mise al collo, poi lo seguì fuori, sulla palafitta, dove suo
padre aveva portato il tavolo e sua madre aveva disposto un cesto
ricolmo di frutta matura.
«Dormito
bene kaiki?»
lo salutò Nahoa. Sebastian annuì prendendo quello
che sembrava un mango maturo e lo spezzò con un coltello.
Vedendolo in difficoltà Kai glielo prese dalle mani e lo
sbucciò poi glielo rese. Sebastian mugugnò un
grazie.
«Che cosa
avete intenzione di fare oggi?» chiese Kaila.
«Andiamo a
Waikiki.» rispose Kai prendendo un avocado. Sebastian lo
guardò un momento, poi decise di lasciar perdere. Era come
parlare al vento. Mangiò il suo mango, che era maturo al
punto giusto e dolce come il miele, guardando l’orizzonte
bagnato dall’oceano.
«Ti mancano
i tuoi?»
Sebastian si
voltò. Kaila lo guardava sorridendo dolcemente.
Annuì.
«Un
po’,» ammise «ma se sono qui è
anche per colpa loro.»
«Avete
litigato?»
Sebastian si morse le
labbra, senza sapere se rispondere o meno. Alla fine decise che con
qualcuno doveva pur parlare.
«Mio padre
è uno di quei padri che vuole che il figlio segua le sue
orme. Il mio destino era quello di fare il notaio»
raccontò «ma io ho altri progetti. Ho scelto
lettere, voglio fare lo scrittore e non me la cavo nemmeno male, ma
lui...» lasciò in sospeso la frase, certo che
tutti avrebbero capito lo stesso.
«I padri
sono sempre un po’ rigidi per quanto riguarda i
figli» commentò Nahoa «anche Kai e io
abbiamo avuto le nostre discussioni.»
Sebastian
annuì. «Ma non è proprio tutta la
storia.» aggiunse mordendosi l’interno della
guancia. Kai, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo,
piluccando il suo avocado fece una cosa che mai Sebastian si sarebbe
aspettato: si spostò sulla panca a cui erano seduti e gli
coprì la mano che stava sul tavolo con la propria. Nessuno
disse niente, nessuno si irrigidì o si
scandalizzò per quello che Kai aveva appena fatto.
Sebastian stava per
aprire bocca e lasciar andare, ma qualcosa gli picchiettò
sulla gamba. Era Maile. Indossava lo stesso buffo cappello di suo
fratello, ma un gonnellino rosso e una canottiera verde acceso.
«Domani
è Natale.» gli disse «Tu stai qui con
noi?»
Sebastian si
irrigidì. Già,
domani è Natale, pensò. E lui era
alle Hawaii.
«Andiamo,»
Kai si alzò tirandolo per il polso finché anche
lui ebbe fatto lo stesso «Waikiki ci aspetta.»
Così
Sebastian fu caricato nella jeep di Kai che partì a tutta
velocità per raggiungere la spiaggia di Waikiki, la
più turistica dell’isola. Infatti c’era
un sacco di gente, e a Sebastian la cosa non piaceva per niente. Ma Kai
sembrava di altro avvivo perciò scesero dalla macchina per
avvicinarsi alla spiaggia, dove Kai trovò delle conoscenze.
Quei ragazzi
sembravano perfettamente acclimatati con il mare e la spiaggia, erano
abbronzati, snelli e belli come il sole, mentre lui era bianco come il
latte, biondo e con gli occhi azzurri. Temeva di apparire completamente
fuori posto e di essere schernito, invece ben presto si accorse che era
appena diventato argomento di conversazione. Gli chiesero se davvero
nel suo paese nevicava o se sciava in montagna invece di fare surf in
mare. Sebastian disse che era praticamente impossibile surfare nello
Stretto della Manica.
Fu una giornata
indimenticabile, dal suo punto di vista. Mangiarono gamberetti piccanti
al banchetto di Kamekona, un gigante hawaiano di almeno due metri di
altezza, corsero sulla spiaggia, Kai gli insegnò i rudimenti
del surf.
Era ormai il tramonto
quando gli altri ragazzi se ne andarono. La spiaggia si era fatta semi
deserta, a parte per qualche coppietta che sostava ai moli. Kai si
sedette al riparo di una piccola duna, fuori dalla portata della vista
degli altri e Sebastian sedette accanto a lui.
«Domani
è Natale.» disse improvvisamente malinconico. Non
gli piaceva il fatto di essere lontano da casa proprio a Natale, ma...
beh, i suoi se l’erano cercata.
«Lo
so,» rispose Kai «vuoi tornare a casa?»
«Non lo
so.» replicò Sebastian. In un moto di pazzia quel
pomeriggio era andato a comprare un telefono e aveva chiamato
l’aeroporto. Un volo partiva il giorno dopo, alle cinque del
pomeriggio. Lo aveva detto a Kai ma non sapeva se lo avrebbe preso
oppure no.
«Credo che
dovresti pensarci,» dichiarò il moro con
un’alzata di spalle «anche se temo già
di sapere quale sarà la risposta.»
Sebastian lo
guardò. Kai teneva gli occhi fissi all’orizzonte,
come se in quell’orizzonte screziato di rosso ci fossero
tutte le risposte del mondo. E forse, si disse, era proprio
così. Non sarebbe stato così semplice rimanere
lì con Kai, in quell’isola, circondato
dall’oceano? E poi, l’oceano era Kai. E lui amava
l’oceano.
«Tornerò.»
disse a un tratto «Qui.»
Kai lo
guardò senza capire.
«Devo andare
a casa,» spiegò Sebastian con rammarico
«ma tornerò.»
Il moro
continuò a guardarlo, come se non lo vedesse davvero, poi si
sporse così lentamente che Sebastian avrebbe potuto
respingerlo se avesse voluto, ma non lo fece, così le loro
labbra s’incontrarono per un breve attimo, prima che Kai si
scostasse.
Lo guardò
negli occhi, e Sebastian non poté fare altro che ricambiare
quello sguardo e sorridere. E così Kai lo baciò.
Un bacio lento, appassionato, di quelli che ti rimangono sotto la pelle
per sempre.
Sebastian si
lasciò cadere sulla sabbia fresca, mentre Kai lo sovrastava
e lo tratteneva con il suo peso, ma anche se non l’avesse
fatto Sebastian non sarebbe andato da nessuna parte.
La sabbia la sentiva
dappertutto, sulle mani, sul viso, sulla pelle. Mentre facevano
l’amore sulla spiaggia Sebastian domandò se quello
fosse veramente il paradiso e Kai gli rispose con una frase in hawaiano
che Sebastian non decifrò. Si sarebbe fatto dire che cosa
significava, visto che gli era rimasta impressa nell’anima.
Quando tornarono a
casa non c’era anima viva, forse i suoi erano a festeggiare
sulla spiaggia. Rimasero sulla palafitta per un tempo infinito,
guardando la luna sorgere. In quel momento Sebastian fissò
Kai. Gli occhi neri dell’hawaiano lo fissarono di rimando.
«Che cosa
vuol dire quello che mi hai detto prima?» chiese a un tratto
Sebastian. Kai sorrise.
«Ho detto
molte cose.» gli fece notare. Sebastian sospirò.
«Aloha wau ia 'oe.»
ripeté un po’ stentato. Kai rise della sua
pronuncia.
«Lo sai
già» rispose tornando improvvisamente serio.
«Lo sai Sebastian. Lo sai.»
E Sebastian lo sapeva,
lo sapeva perfettamente. Gli bastava guardare gli occhi neri di Kai per
capirlo. Si morse le labbra, mentre guardava la luna rotonda nel cielo.
«Io... non
posso restare.»
Kai annuì
brevemente. «Lo so.»
«Ho un sacco
di cose da mettere a posto, cose da dire e da fare e... ma non voglio
andarmene.» aggiunse. Kai scoppiò in una risata.
«So anche
questo» replicò «ma non
preoccuparti.»
Sebastian
aggrottò la fronte ma Kai non gli permise di parlare
perché gli premette la mano sulla nuca e lo
attirò a sé per baciarlo.
«Io
aspetterò.» gli sussurrò sulle labbra,
ponendo fine al loro bacio. Sebastian si leccò piano le
labbra, guardandolo negli occhi così da vicino come non
aveva mai fatto con nessuno.
«Chi ti dice
che tornerò?» domandò.
Kai sorrise.
«Nessuno. Mi fido di te. Hai detto che tornerai e io ci
credo.»
L’altro
rimase per un momento immobile, la mano di Kai ferma sulla spalla,
calda e rassicurante.
«Abbiamo
ancora un po’ di tempo.»
Kai fece scorrere la
mano dalla sua spalla al suo polso e glielo cinse leggero, poi si tolse
la collana con il dente di squalo che portava arrotolata al polso
destro e la arrotolò a quello di Sebastian.
«Ma
questa...»
«Shh.»
gli intimò Kai «Non è un
regalo,» precisò «è solo un
prestito. La rivoglio indietro, malihini,
capito?»
Sebastian
annuì. L’hawaiano intrecciò le dita
alle sue.
«Cos’è
che stavi dicendo sul tempo?» domandò mentre
l’altra mano gli sfiorava il fianco. Sebastian
rabbrividì.
«Che ne
abbiamo ancora un po’.»
«Davvero?»
Kai gli premette la mano aperta sul petto e lo incitò ad
alzarsi. «Beh, allora non dovremmo sprecarlo, tu che
dici?»
Il biondo
camminò all’indietro fino a che non
andò a sbattere contro la porta della casa di Kai.
«Dico che
sono d’accordo.» esalò, mentre
l’altro apriva la porta e lo spingeva dentro. Barcollarono
per un po’, fino a quando Kai non trovò una
superficie piana su cui spingerlo. Gli prese i polsi tra le mani
baciandolo come se dovesse essere l’ultimo bacio.
«Kai.»
ansimò Sebastian. Gli occhi dell’altro lo
fissarono vicinissimi.
«Sì?»
Sebastian
lasciò sfuggire una lacrima e sorrise. «Aloha wau ia 'oe.»
Kai gli
tappò la bocca prima che potesse finire la frase, ma
Sebastian era convinto che avesse capito perfettamente,
perché non tutte le lacrime che sentiva tra le labbra erano
le sue.
*Malihini, -
straniero in hawaiano.
kaiki - ragazzo
Hoi Ahiahi Kalikimaka
- buona vigilia di Natale, (o quasi.)
Aloha Hauʻoli -
ciao felicità.
Aloha wau ia 'oe -
ti amo. In hawaiano aloha ha due significati, quello che conosciamo
tutti, “ciao”, e amore.
Kamekona
– non è inventato, è l’amico
di Steve McGarrett di Hawaii Five-O.
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