«Cosa sai sui draghi?»
mi chiese Josephine.
Stavamo uscendo dall’ascensore e ci
dirigevamo fuori dall’albergo. Riccioli d’Oro era il mio
partner per la missione. Si era offerta di aiutarmi, ma ovviamente
aveva il compito di tenermi d’occhio per conto di Greta Zimmermann.
«Volano, sputano fuoco e non esistono.»
risposi. Appena fuori dall’albergo mi guardai intorno, non sapendo da
che parte andare.
«Di qua.» Josephine mi tirò per il
braccio. «Hai ragione per quanto riguarda le prime due. Volano e
sputano fuoco. Ed esistono.»
Imprecai sottovoce e poi dissi: «Per cui
sarà bene che cominci a pensare al mio epitaffio.»
Mi lanciò uno sguardo confuso.
«Perché è molto probabile che muoia. Per
la legge di conservazione della pericolosità.»
L’espressione della donna era ben oltre
la confusione.
«La legge di conservazione della
pericolosità. La pericolosità di una categoria è una quantità costante,
per cui se i suoi elementi sono pochi allora singolarmente sono
pericolosi e, viceversa, se sono tanti allora non lo sono. Le mosche
sono tante e non sono pericolose. Gli Aes Sidhe sono pochi e
decisamente più pericolosi. I draghi sono generalmente considerati
creature mitologiche e protagonisti della fiabe, quindi, visto che a
quanto pare esistono veramente, probabilmente ne esistono pochi e sanno
nascondersi bene. Per cui… » la conclusione era ovvia.
«Le zanzare sono tante ma possono
attaccarti la malaria.» replicò. «Il tuo ragionamento non
fila.»
Sbuffai.«Le zanzare in sé non sono
pericolose. Poi è una legge empirica. E l’ho inventata un paio d’anni
fa. Se ci pensi un po’, fila. Se un gruppo è formato da gente molto
potente è facile che si eliminino fra di loro o che vengano contenuti
da altri gruppi.» Mi fermai un attimo per cercare un esempio pratico.
«Pensa ai nosferatu. Quanti credi ne esistano in tutto il mondo?»
«Non so.» Mi indicò di svoltare a
destra. «Un centinaio?»
Mi misi a ridere. «Sei pazza? Se in
questo periodo storico ne esistono una dozzina è tanto. Non si vedono
molto bene fra loro e sono molto pignoli sui territori di caccia.»
«E quindi?»
«Quindi si uccidono fra loro. Voi
vampiri, invece…»
«Non sono un vampiro.» replicò,
vagamente scocciata. «Sono solo un’umana acqua e sapone.»
Riuscii solamente a balbettare un
“pensavo che” prima che m’interrompesse e continuasse a parlare.
«Invece i vampiri sono tanti e non
essendo molto forti singolarmente tendono a riunirsi in gruppi
numerosi.»
«Esatto.» replicai. «Quindi non oso
immaginare di cosa sia capace un drago, oltre al fatto che mi può
arrostire con un soffio.» Eravamo arrivati in un piccolo parcheggio.
«Qual è la nostra auto?» domandai.
«Questa.» rispose Riccioli d’Oro,
saltando in sella a una moto e mettendosi il casco. Diede un colpetto
dietro di sé.«Forza, salta su.»
Mi feci scappare un’esclamazione di
sorpresa. «Bella moto.» dissi, mentre salivo dietro di lei.
Accese il motore e disse: «Reggiti
forte.»
Mi appoggiai alla sua schiena,
stringendole un braccio intorno alla vita, e partimmo.
«Dove stiamo andando?» strillai, ma la
donna non mi sentii, coperta com’era dal casco.
Josephine sembrava essere una discreta
pilota e faceva lo slalom fra gli altri veicoli, infischiandosene di
gran parte del codice stradale. Quando cominciai a pensare che saremmo
finiti sotto un camion o in una cella della polizia tedesca, la donna
svoltò e c’infilammo in un parcheggio sotterraneo.
«Siamo arrivati.» disse, dopo essersi
tolta il casco. I capelli riccioluti le scesero disordinati sulla
schiena.
Scesi dalla moto. «Sul serio? Non
l’avrei mai immaginato.» replicai con un leggero accenno di sarcasmo.
«Dove siamo?»
«Il mio appartamento.» Entrammo
nell’ascensore e premette il pulsante del terzo piano.
«Ho proprio fatto colpo se mi fai salire
da te senza nemmeno averti pagato una cena.»
Josephine continuò a guardare avanti, ma
sorrise. «Cala, cala, Mr. McRoberts.» rispose. «Non sono così
disperata.»
«Dicono tutte così.»
La porta dell’ascensore si aprì e
uscimmo. Percorremmo uno spartano corridoio la cui unica decorazione
era un tappeto logoro. Josephine aprì una delle porte e mi fece segno
di entrare.
«Un attimo.» dissi, alzando una mano. Mi
guardai intorno, ma il corridoio era deserto a parte noi due. «Il tuo
appartamento è protetto da Portali sconosciuti?»
La donna si appoggiò alla porta e mi
guardò come se avessi detto un’eresia. «Mi pare ovvio. Per chi mi hai
preso?»
Mossi la mano destra come se stessi
aprendo una cerniera e un piccolo strappo dimensionale apparve là
accanto. C’infilai la mano e tolsi fuori il mio bastone. Chiusi il
Portale e mi passai l’arma da una mano all’altra, assaporando il
profumo di cera per legno con cui lo trattavo. Le dita corsero lungo
gli intarsi geometrici che correvano lungo la sua superficie: alcuni
servivano per amplificare la sua funzione di vettore, mentre altri
erano là solo perché mi piacevano come decorazioni. «Senza il mio caro
bastone mi sento come nudo.» scherzai.
«Scomodo e ingombrante.» commentò,
scuotendo la testa. Entrò nella appartamento e la seguii.
«Meglio una bacchettina come la tua? Chi
sei, Harry Potter?»
«Al massimo sarei Hermione.» Chiuse la
porta e mi fece accomodare in quello che sembrava essere un piccolo
soggiorno. O forse cucina. Più che un appartamento sembrava essere un
bilocale. Il mobilio era di alta qualità e la cucina sembrava essere
una di quelle console supertecnologiche che si vedono nei film di
fantascienza. La mia fervida immaginazione cominciò a pensare a torte
olografiche e altra assurdità, ma la voce di Riccioli d’Oro mi fermò.
«Bello il trucco per conservare il
bastone in un’altra dimensione.» disse. «Come funziona?»
Mi abbandonai a un sospiro a metà fra il
divertito e il lusingato. Mi massaggiai il mento - avevo assolutamente
bisogno di radermi - e risposi con soddisfazione: «Ti piacerebbe
saperlo.» Certi trucchi è meglio tenerli per sé. «Se vuoi approfondire
l’argomento ti posso consigliare un paio di quintali di libri tecnici
sull’argomento Portali.»
I Portali, usati soprattutto per la
magia di trasporto, in realtà sono applicazioni di un concetto teorico
molto più ampio: le intersezioni dimensionali, un parolone brutto per
un’idea abbastanza semplice. Circa. Immaginate una sfera
n-dimensionale. No, scusate, meglio di no, pensate invece a un semplice
cubo. Dentro di esso potete costruire altri piccoli cubi - o altre
figure a tre dimensioni - oppure dei poligoni o semplicemente dei
segmenti o dei punti. Ora supponiamo che il cubo di partenza sia il
nostro multiverso e tutti gli oggetti che ci possiamo costruire dentro
delle singole dimensioni. Queste possono essere completamente separate
fra loro, una contenuta nell’altra, oppure avere un’intersezione non
nulla. Quest’ultimo caso è il più interessante per il
trasporto magico. Pensate a due cubi con una faccia in comune: quando
ci si trova là si è contemporaneamente in due dimensioni differenti e
ci si può muovere liberamente fra l’una e l’altra. I Portali permettono
proprio questo collegamento. Se poi considerate che esistono infinite
dimensioni che s’intersecano con la nostra e, soprattutto, che questo
ragionamento va fatto non su tre, ma su infinite dimensioni geometriche
capirete l’ampia area di sperimentazione su cui si può lavorare.
«No, grazie.» replicò, delusa. «Non sono
molto abile con la teoria, probabilmente non ci capirei nulla. Per
quando riguarda il mio modo di usare la magia propendo più verso
l’essere una strega.»
«Non sono mai stato bravo con la
terminologia, che differenza c’è fra stregoni e maghi?» Mi sedetti al
tavolo, mentre lei metteva un bollitore sul fuoco.
«Pensavo che queste cose a Xiam ve le
insegnassero.» rispose, sedendosi di fronte a me. «Voi maghi siete
quelli che hanno studiato, quelli che hanno completato gli esami al
Dipartimento di Studi Magici, o quasi.» Le sue labbra sottili si
allargarono in un vago sorriso. «Siete un po’ gli ingegneri della
magia. Avete le vostre regole e le vostre tecniche e le applicate per
ottenere il risultato più efficiente.»
Annuii. Cercai di non mostrarlo, ma ero
lievemente contento. La signorina aveva fatto il proprio compitino e
conosceva il mio curriculum scolastico. Probabilmente aveva
fatto qualche domanda a Robert e spulciato qua e là su Internet. Visto
che dovevo lavorare con lei, sapere che era una professionista era
un’ottima cosa.
«Gli stregoni, invece, sono come, non
so, come dei musicisti.» continuò Josephine. «Qualcuno diceva che la
musica dà alla gente il piacere della matematica senza bisogno di
conoscerla. Gli stregoni usano la magia d’istinto, senza appoggiarsi a
regole razionali, ma seguendo i fili già tessuti dalla Natura.»
«Quindi fanno le cose un po’ a casaccio
e sperano che funzionino.» dissi, tamburellando le dita sul tavolo. «È
un metodo che non mi piace.»
«Però è altrettanto valido.» replicò
stizzita. «Non si fanno cose a casaccio, nessuno ci tiene a esplodere.
Si cerca di modificare a proprio vantaggio ciò che già esiste anziché
congiurare dal nulla palle di fuoco o fulmini globulari.»
«Cosa sai dei draghi? Sembri molto
informata.» dissi per cambiare argomento. Quel modo di fare magia non
mi piaceva per nulla e la mia considerazione per lei era calata. La
magia non è qualcosa che s’improvvisa dall’oggi al domani: va
studiata, conosciuta e applicata.
«Per farla breve, sono creature magiche
che ottengono il proprio potere dall’accumulare.»
«Dall’accumulare? Che significa?»
«Hai presente i classici draghi con il
tesoro nella propria tana?»
«Smaug nella Montagna Solitaria? Sì,
certo.» replicai. Il bollitore cominciò a fischiare. «E il potere di un
drago è misurato, no, è proporzionale a quanti tesori ha accumulato
nella propria tana?»
Josephine si alzò per spegnere il
fornello e rispose: «Sì, circa. Non è necessario che siano tesori come
oro e gemme, può essere qualsiasi cosa per cui il drago prova
attrazione.» Posò due tazze sul tavolo e mi porse
una scatola piena di bustine di tè.
Ne presi una di Earl Grey e riempii la
tazza. «Sto pensando a un vecchio cartone della Disney, dove Cip e Ciop
accumulavano nocciole nella loro tana nell’albero. Non dirmi che ci
sono draghi raccoglitori di nocciole o collezionisti di figurine dei
calciatori.»
«Zucchero?» domandò. Sollevò il
cucchiaino, ma al mio cenno di rifiuto si bloccò. «Non credo sia così
semplice. Il drago deve avere un legame affettivo con il proprio tesoro
e il potere emanato da esso dipende anche dalla rarità degli oggetti.
Altrimenti perché gli antichi draghi collezionavano oro e pietre
preziose e non patate e rape?»
«Per fame di potere.» risposi,
pensieroso. «E il nostro drago cosa colleziona?»
«Donne.»
Feci cadere il cucchiaino sul tavolo.
«Donne?» ripetei.
«Donne, hai capito bene. Glavnyognya
colleziona donne. E quando non è lui a rapirle le fa rapire da altri.
Dai suoi cultisti o dai suoi servitori.»
«O mio dio.» esclamai. «Comincio a
capire il piano di Greta e Robert.» Ora che i pezzi del puzzle
cominciavano a saltare fuori era possibile comporre l’immagine.
Glavcoso era il bulletto del quartiere e maltrattava i
vampiri e i mannari rubando loro i soldi per la merenda. Probabilmente
richiedeva un qualche pagamento in donne per la sua collezione. Robert
e Greta, chiaramente, non potevano contrastarlo in maniera diretta e
avevano pensato che rubando chissà quale misterioso artefatto a cui era
affezionato avrebbero potuto ricattarlo.
Sorseggiai un po’ di tè e osservai
Josephine. Aveva gli occhi puntati su di me e stava studiandomi. Robert
e Greta non aveva accennato ai perché del mio lavoro, per cui
probabilmente era curiosa di sapere quanto avessi elaborato per conto
mio dalle informazioni che mi aveva dato.
«Quindi dobbiamo rubare il misterioso
cosino per ricattare Glavcoso, affinché non costringa la tua signora a
inviare il femmineo tributo.»
«Esatto.» rispose. Poi si mise a ridere.
«Nessuno però l’aveva mai chiamato “femmineo tributo”.»
«È comunque una missione impossibile.»
replicai. Allontanai la tazza e mi alzai. Non che il tè non fosse
buono, però lo stomaco mi si era rivoltato al pensiero delle donne
imprigionate nella tana del drago. «Dobbiamo rubare un oggetto di cui
non conosciamo né la forma né la locazione.» Scossi la testa. «È
impossibile.»
Josephine continuava a sorseggiare il
suo tè, senza dar segno di nessuna preoccupazione. «Cerca una
soluzione, se vuoi rivedere la tua fatina.» disse senza perdersi in
troppi giri di parole.
In genere reagisco male quando vengo
minacciato, ma in questo caso non c’era nulla che potessi fare. In quel
momento Chiara era fuori dalla mia portata, non avevo nemmeno idea di
dove la tenessero. L’unico modo per aiutarla era completare il lavoro,
assumendo che il drago si facesse ricattare e non incenerisse tutti
quanti per recuperare il suo artefatto.
«Visto che non conosciamo chi possiede
l’oggetto, suppongo che il drago sia mimetizzato fra la popolazione di
quel villaggio.»
La donna fece un cenno d’assenso.
«Sappiamo per certo che vive là in forma umana e che probabilmente usa
un’identità russa.»
«Russa?»
«Sì. O almeno credo. Glavnyognya ha
vissuto in Russia negli ultimi secoli e penso abbia assimilato un po’
della loro cultura. Del resto i russi sono stati i primi a dargli un
nome.»
«E perché si è trasferito qua?» domandai.
Alzò le braccia e scosse la testa. «Non
ne ho la minima idea.»
Quel punto non era banale. Se sei un
pezzo grosso come un drago e una creatura abitudinaria, come qualsiasi
essere che ha vissuto per millenni, non abbandoni il tuo territorio
senza un valido motivo. Le cause potevano essere due: Glavcoso aveva
visto nella Foresta Nera una migliore sorgente di potere; qualcuno più
grosso di lui l’aveva fatto sloggiare dai suoi vecchi territori. Nel
primo avremmo avuto a che fare con un tizio estremamente geloso del
proprio territorio, nell’altro con uno abbastanza adirato per essere
stato cacciato dalla sua antica casa. Non male come possibilità.
Mi passai una mano fra i capelli. Dopo
due giorni di viaggi per l’Europa non ero certo pulito e profumato. «Ho
assolutamente bisogno di una doccia.» dissi. «Magari pensare sotto
l’acqua mi farà venire qualche idea.»
Josephine si alzò e mi fece strada verso
la stanza adiacente. Doveva essere la sua camera da letto, perché c’era
un letto a due piazze, un armadio a quattro ante e una cassettiera con
specchio di fattura antica. M’indicò una seconda porta e disse: «Là c’è
il bagno.» Frugò nell’armadio, prese un asciugamano e me lo tirò. «Non
consumare troppa acqua calda.» Poi prese una busta di plastica e la
posò sul letto. «Vestiti di ricambio.»
Stracciai la busta - sarò pure un mago,
ma non riesco comunque a sciogliere i nodi nelle buste di plastica - e
ne esaminai il contenuto: un paio di boxer, delle calze di spugna, un
paio di jeans, una t-shirt bianca e una felpa nera con una scritta
rossa, “It’s just a flesh wound”. Sorrisi, era un classico.
«Eri certa che avrei accettato?»
domandai.
Sorrise. «Chi fai il tuo mestiere non
vive a lungo se non impara in fretta a scegliere i lavori giusti.»
Mi tirai l’asciugamano sulla spalla e
dissi con accento italo-americano: «Tendo sempre ad accettare le
offerte che non posso rifiutare.»
Josephine mi regalò uno sguardo
divertito e tornò nel soggiorno.
L’acqua calda che mi scendeva lungo la
schiena mi aiutò a rilassarmi e a pensare. La situazione in cui mi
trovavo non era fra le più desiderabili, ma era meglio che essere
morto. Certo, avrei potuto diventarlo entro pochi giorni, dato che
dovevo pestare i piedi a un drago, ma almeno ci si poteva lavorare.
Andare a testa bassa contro una creatura di quella forza era un
suicidio, per cui dovevo giocare di finezza. Individuare l’oggetto,
rubarlo e filarmela prima che il drago potesse accorgersi di me. Poi,
una volta consegnato il coso a Robert e Greta, filarmela con Chiara
verso qualche spiaggia tropicale. Facile a dirsi.
M’insaponai con calma, gustando il
piacevole tepore dell’aria all’interno del box doccia. La linea
d’azione tipica per casi di questo tipo era di usare un rituale di
ricerca. Il problema, però, era che non avevo nulla su cui basarmi. Per
trovare qualcosa avevo bisogno di qualcos’altro legato a esso: una sua
parte, un altro oggetto dello stesso proprietario o un suo simile di
potenza equivalente. L’ultimo punto era sensato solo per cercare
oggetti o persone così potenti che non ne esistevano molti esemplari.
In caso contrario, l’energia del rituale si sarebbe dispersa fra troppi
obiettivi, rendendolo completamente inutile.
Chiusi l’acqua e mi asciugai. Poi mi
avvolsi l’asciugamano alla vita e uscii dal bagno. Profumavo di fragole
e albicocca. Neil McRoberts, famigerato mago-mercenario, che profumava
come un cesto di frutta. Osservai la stanza di Josephine mentre mi
vestivo. Non c’era nessun elemento decorativo e l’unico soprammobile
era un vaso con dei fiori finti, alquanto vecchio. L’unico indizio che
mostrava la presenza di una persona era un libro sul comodino. Lo presi
in mano e lessi il titolo: La contessa e lo stalliere. Uno di quei
libri di porno per donne, con decine di pagine di minuziose descrizioni
dei muscoli dello stalliere e centinaia di similitudini per indicare
l’organo maschile.
«Alla fine lei rimane incinta, ma lo
stalliere muore, ucciso dal malvagio conte.» disse una voce alle mie
spalle.
«Oh, no! Ora che so come finisce non
potrò gustarmi questo capolavoro.» esclamai, mentre poggiavo quelle
cinquecento pagine di letteratura colta. In quel momento notai qualcosa
sul comodino, una piccola spilla dalla forma particolare, ma prima che
potessi capire cosa fosse Josephine mi si parò davanti. Mi diedi due
colpetti alla pancia e dissi: «E ora pappa. Cosa hai preparato di
buono?»
Sorrise. «Non sono la tua cameriera,
Neil. Se hai fame possiamo…»
«Certo che ho fame.» borbottai. «Il tuo
amico verde mi ha costretto a viaggiare in tutta fretta e in due giorni
ho mangiato un gelato a Nizza e un panino a Ginevra!»
«Se vuoi possiamo andare a un fast food
qua vicino.» disse la donna.
«Un invito a cena!» Ridacchiai. «Però
paghi tu.»
Scosse la testa e tornò in cucina. Feci
per seguirla, ma prima guardai nuovamente sul comodino per esaminare la
spilla. Era una croce greca e su ogni braccio era avvolto un fiore
stilizzato: un tulipano, un giglio, un’orchidea e una malvarosa. Mi
sembrava di conoscere quel simbolo e mi chiesi se la Fratellanza della
Notte di Valpurga avesse cominciato a produrre del merchandising. Presi
la spilla e me la rigirai fra le dita.
Esistono due giorni che sono molto
importanti per i cicli magici: la Notte di Valpurga e la Notte di
Ognissanti. Non sono importanti per qualche strano allineamento
astronomico o per qualche buffonata astrologica, lo sono perché le
persone li hanno resi importanti. Sono due giorni in cui vengono
festeggiate tradizioni di culti antichissimi, poi assimilati da
religioni meno antiche come il cristianesimo e infine inglobate nella
venerazione del grande Dio Consumismo, ma sto divagando. Sono
importanti per i maghi perché sono due feste talmente radicate nel
mondo e nelle coscienze che durante il loro svolgersi l’energia magica
viene purificata, amplificata. In quelle notti è possibile eseguire con
facilità incantesimi che di norma non si è in grado di eseguire. Gruppi
come la Fratellanza della Notte di Valpurga sfruttano quelli notti per
preparare grandi rituali per grandi scopi come salvare gli alberi o
abbattere le malvagie multinazionali; gente come me evoca tre demoni
egiziani per giocare a poker. Il vecchio Sehaqeq mi deve dodici ettari
di terre sul Nilo. Sapere che Josephine facesse parte della Fratellanza
era una notizia curiosa: solitamente i membri di questi gruppi sono
degli hippie-abbraccialberi o dei wiccan, non gente che lavora nel mio
campo e sa uccidere un uomo in almeno dodici modi differenti.
«Allora, ti sbrighi?» gridò Josephine
dall’altra parte della stanza.
Posai la spilla e tornai in cucina, dove
la donna mi attendeva con una pistola in mano. Allenamento e abitudine
reagirono istantaneamente alla minaccia e mi preparai ad evocare uno
scudo, ma non fu necessario perché me la passò.
«Meglio avere un’arma a disposizione,
non si sa mai.» mi disse.
Era una SIG P226, una 9mm dalle
dimensioni contenute. Feci scorre il carrello per verificare che non ci
fosse un colpo in canna, poi estrassi il caricatore e controllai che
fosse carico. Lo reinserii, misi la sicura e me la infilai nei jeans,
coprendola con la felpa.
Josephine ripeté le stesse azioni con
una seconda pistola e poi mi disse: «Forza, andiamo, Fragolino.»
Quindici minuti e tre quasi-incidenti
motociclistici dopo eravamo nel fast-food, seduti a un tavolo con un
vassoio di cibi killer davanti. Non sono un grande fan del junk food,
ma una volta ogni tanto non è un crimine. In quel momento non è che
avessi molta scelta e non potevo certo fare il sofisticato.
«Che altre informazioni abbiamo
sull’obiettivo?» domandai dopo aver addentato l’hamburger.
«Sappiamo solo che il drago si nasconde
fra la popolazione del villaggio e che ha un culto di seguaci che lo
adora come un dio.»
«Di bene in meglio. Che resistenza
dobbiamo aspettarci? PMC, fanatici, creature sovrannaturali?»
«Soprattutto fanatici, ma probabilmente
il drago avrà un cerchio di fedelissimi abbastanza preparato.»
«E a livello magico? Quanto devo
aspettarmi da Glavcoso?»
Josephine bevette un po’ dalla cannuccia
della sua bevanda, rifletté un attimo e poi disse: «Per quel che ne so
può essere un totale ignorante oppure un fottuto arcimago con le palle
d’acciaio.»
Una signorina raffinata. «Capisco che
viste le capacità combattive di un drago non dovrei preoccuparmi di
queste sciocchezzuole, ma sono curioso di sapere se oltre ad
arrostirmi, divorarmi e farmi a pezzi può anche trasformarmi in un
grillo.» Non che le trasformazioni in insetti fossero particolarmente
sensate, ma era più incoraggiante rispetto a “teletrasportarmi nello
spazio siderale” o “farmi fare un bagnetto nel magma”. Spiluccai un
paio di patatine dalla sua porzione.
«Ehi, fermo!» Mi diede un colpo alla
mano. O almeno ci provò, visto che fui più veloce di
lei.
Morsicai la refurtiva e sorrisi
soddisfatto.
«Come ogni creatura sovrannaturale, di
solito i draghi non s’interessano allo studio delle arti magiche
Preferiscono usare la propria energia nella maniera più naturale.»
continuò Riccioli d’Oro.
«Super forza e super velocità come
folletti e vampiri?» domandai.
Josephine ridacchiò. «Quando sei lungo
dodici metri dalla testa alla coda e pesi un paio di tonnellate non hai
bisogno di super forza o super velocità.»
Immaginai un corpo di diverse tonnellate
muoversi alla velocità del suono: era una scena abbastanza inquietante.
«In genere usano l’energia magica per
rimanere in forma umana e per volare e sputare fuoco o altro.» continuò
lei, finendo l’ultimo morso del suo hamburger. «Non penserai certo che
possano volare solo grazie alla loro muscolatura?»
Alzai le spalle. Non ero esperto di
uccelli o rettili volanti o qualsiasi cosa fossero i draghi, una cosa
però mi aveva incuriosito. «Sputare fuoco o altro?»
«In genere incendiano del metano che
producono tramite la digestione, ma in altri casi utilizzano sostanze
acide o narcotizzanti oppure producono correnti d’aria…»
«Rutti magici. Sempre meglio.»
«… per cui è molto raro
trovare draghi che praticano seriamente l’arte magica.»
continuò, ignorandomi.
Tolsi il tappo della mia bevanda e
bevetti direttamente dal bicchierone di plastica. Odio le cannucce.
«Com’è che sai tutte queste cose sui draghi?»
«Ne ho conosciuto uno. Il nome Huísheng
ti dice qualcosa?»
«Purtroppo sì.» Chiunque abbia studiato
un po’ di geometria ritualistica o abbia fatto qualche lettura su
rudimenti di taumaturgia conosce quel nome e ha imparato a imprecarci
contro. Il teorema di Huísheng è una delle cose più intricate che abbia
mai incontrato e ogni studente di magia ci sbatte il muso contro almeno
una dozzina di volte. «E sarebbe un drago?»
Josephine annuì. «Vive in un piccolo
eremo in Mongolia e possiede una biblioteca di almeno cinquantamila
libri, fra cui dei pezzi antichissimi.»
«Lui è un fottuto arcimago con le palle
d’acciaio, no?» commentai.
Sorrise. «Non è una persona che mi farei
nemica. È l’eccezione che conferma la regola.»
Nessuno vorrebbe inimicarsi il genio
magico che ha dimostrato il Teorema di Huísheng. Feci per replicare con
qualche fantastica battuta, quando degli spari infransero le porte a
vetri del locale. La gente cominciò a strillare e un paio di uomini con
dei passamontagna entrarono. Erano tutti armati con pistole.
Riccioli d’Oro e io, abituati a trovarci
in certe situazioni, ci buttammo subito a terra ed estraemmo le armi
contemporaneamente, come un’affiatata squadra di nuoto
sincronizzato. Avevamo preso un tavolo sul muro, accanto a
una di quelle porte “Accesso riservato al personale” molte comode per
svignarsela in caso di guai. Uno degli uomini gridava qualcosa in
tedesco. Non sapevo cosa stesse dicendo, però ero certo che non fosse
una barzelletta. Guardai interrogativamente Josephine che mi sussurrò:
«Sta dicendo di stare calmi e che nessuno si farà male. Stanno cercando
dei vecchi amici.»
Chissà perché avevo il sospetto che si
riferisse a noi. «Sei pronta a correre ?»
«Sono nata pronta.»
«Allora infiliamoci nella porta di
servizio e vediamo di levarci dal loro raggio di tiro, dopo cercheremo
di capire chi diavolo sono. Prima scappare, poi ragionare.»
Mi spostai lentamente verso la porta, ma
sicuramente non avremmo fatto in tempo ad evitare il contatto con i
cattivoni. Se cercavano noi - e chi altrimenti? Di certo non cercavano
il ragazzino ciccione o la coppietta di sedicenni nei tavoli accanto al
nostro - al primo movimento ci avrebbero identificato. Tanto
valeva attaccare per primi.
Mi alzai e puntai la pistola verso gli
uomini. Reggevo il bastone con la mano destra, per cui sparai tenendo
la pistola con una mano sola. Nono sono mai stato un eccellente
tiratore, figuriamoci impugnando male l’arma. I proiettili sibilarono
intorno ai bersagli, che si buttarono a terra.
«Vai!» urlai a Josephine, la quale
scattò verso la porta di servizio. Continuai a sparare, affinché gli
uomini tenessero la testa basta. Non appena aprì la porta, fu lei a far
fuoco per coprirmi. Una volta che anche io entrai, chiuse la porta e
scappammo per i corridoi. Non avevo bene idea di dove
stessimo andando, ma l’importante era mettere più angoli possibili fra
noi e gli inseguitori.
«Sai chi diavolo sono?» gridai.
«Non ne ho idea!»
«C’è un infiltrato nel clan di Greta.»
Arrivammo a una porta tagliafuoco.
Josephine si fece avanti per aprirla, ma la trattenni per un braccio.
Misi l’indice sulle labbra e la tirai indietro. Drizzai le orecchie ma
non sentii nessun rumore oltre la porta. Comunque non avevamo tempo per
certe sottigliezze. «Io esco per primo» dissi sottovoce «tu pensa a
disarmare il cattivone che mi sparerà addosso. Lo voglio vivo.»
Fece cenno di aver capito e aggiunse:
«Come fai a sapere che c’è qualcuno fuori?»
«Vuoi scommettere?»
Non attesi risposta e spinsi il
maniglione antipanico, evocando contemporaneamente uno scudo magico.
La rosa di pallini avrebbe dovuto
centrarmi in pieno petto, invece si fermò a pochi centimetri da me e
l’energia cinetica si trasferì verso di me, facendomi barcollare un
attimo. Alle mie spalle sentii Josephine esclamare qualcosa di molto
simile a “Expelliamus”. Il cattivone - un uomo vestito in pelle e con
un passamontagna, come i suoi amici che ci stavano inseguendo - era
sdraiato a terra, il fucile qualche metro più indietro. Non persi
tempo, mi avvicinai a lui e lo colpii in faccia con la punta del
bastone.
L’uomo sputò sangue e mi urlò qualcosa
in tedesco, magari quanto fosse sexy la mia chioma scompigliata. Non
feci complimenti e lo colpii una seconda volta, poi gli misi il piede
sulla gola. Mi rivolsi a Josephine e dissi: «Chiedigli chi lo manda.»
Aumentai la pressione del piede; non avevamo tempo da perdere, i suoi
compagni sarebbero arrivati fra poco.
Riccioli d’Oro cominciò a parlare in
tedesco e l’uomo scuoteva la testa e rideva, facendo lo sbruffone.
Purtroppo, però, non era in una posizione per farlo né io avevo il
tempo per certe cazzate. Lo colpii ancora una volta col
bastone e poi evocai una palla di fuoco, facendomela girare
intorno alla mano.
L’uomo continuò a ridere sguaiatamente,
ignorando le domande insistenti di Josephine. Al diavolo! Lanciai il
dardo infuocato sul petto dell’uomo e poi corsi verso la porta.
Mormorai un incantesimo veloce per bloccarla e come ulteriore sicurezza
ci misi davanti un bidone della spazzatura. L’uomo si rotolava a terra
urlando, e Josephine mi guardava stranamente, forse disturbata dalla
mia azione.
«Non hai mai visto un uomo bruciare?»
domandai ironico. «Forza, datti una mossa e andiamo via.»
«Non ti sembra di aver esagerato?» mi
disse, mentre correvamo per i vicoli. «C’era bisogno di ucciderlo?»
«Non credo sia morto e comunque volevi
che c’inseguisse e indirizzasse i suoi amichetti?»
Dopo un paio di minuti di svolte a caso
ci ritrovammo in un parcheggio davanti a un supermercato. Mi frugai
nelle tasche e trovai il pacchetto di fazzoletti di carta che mi porto
sempre appresso per ogni evenienza. Ne offrii uno alla donna che fece
cenno di no con la mano.
«Prendine uno e soffiati il naso, oppure
sputaci, come preferisci. Mi serve qualcosa di te e quelli sono i
liquidi più veloci da… produrre.»
La donna mi guardò con un’espressione
abbastanza disgustata, ma prese il fazzoletto. Io feci lo stesso e mi
soffiai il naso, poi appallottolai il fazzoletto e mi chinai.
«Hai qualcosa per scrivere sull’asfalto?
Un gessetto o qualcosa di simile.» Allungai la mano e mi feci dare il
suo fazzoletto.
Josephine si frugò nelle tasche e tolse
fuori un rossetto. «Questo può andare.»
Alzai la mano e me lo lanciò. Intanto
avevo posato i due fazzoletti, contenenti parte di noi, a una certa
distanza uno dall’altro. Aprii il rossetto e tracciai due tremolanti
circonferenze intorno a essi. Scrissi altri simboletti tutto intorno e
poi posai la mano sulle linee di un rosso intenso, rilasciando
abbastanza energia magica per attivare l’incantesimo. Mi alzai in
piedi, soddisfatto per il risultato, e allungai il rossetto verso
Riccioli d’Oro.
«No, grazie.» disse, rifiutandolo.
«Dubito che ora possa servirmi a qualcosa.»
Scossi le spalle e m’incamminai,
allontanandomi dal luogo dell’incantesimo. Josephine mi seguì
a ruota.
«Hai fatto quello che penso tu abbia
fatto?» mi chiese.
«Se pensi che abbia costruito un’esca
per un rituale di ricerca indirizzato a noi, sì.»
I rituali di ricerca erano i più
semplici incantesimi per trovare una persona. Non abbastanza semplici,
però, da poter essere utilizzati da un singolo mago, i rituali,
infatti, richiedono una preparazione spaziale con diagrammi e vettori e
richiedono diverse persone per tenerli attivi. I fattori limitanti sono
la necessità di possedere una qualche parte della persona da trovare -
capelli, unghie, liquidi o altro - e la grandezza dell’area di ricerca.
Se non ricordo male, vi è una relazione quadratica fra l’area in
chilometri quadrati e il numero di maghi di primo livello richiesti per
il rituale.
Io avevo semplicemente costruito due
spaventapasseri per depistare gli inseguitori. Si era trattato di
utilizzare delle parti di noi e amplificare il loro “segnale” tramite i
cerchi e i simboli che avevo disegnato col rossetto, in tal modo il
rituale avrebbe indirizzato gli inseguitori verso i fazzoletti, dandoci
il tempo di seminarli completamente. Qualche anno fa ero sulle tracce
di un mago della Yakuza, per via di una questione di debiti di gioco.
Il bastardo mi aveva fatto sudare sette camicie solo per riuscire ad
individuarlo e ci misi un paio di giorni per raggiungerlo. Finalmente
ero certo di averlo rintracciato in un love hotel a Shibuya. Entrai di
corsa nella sua stanza deciso a provocare un finimondo, ma rimasi
deluso. Ci trovai soltanto una ragazzina vestita, anzi svestita, da
Sailor Moon e un preservativo usato circondato da simboli magici.
«Capito.» replicò. «Nei sei certo? Che
ci stiano cercando con un rituale, intendo.»
«No, ma è sempre meglio pensare alla
peggiore delle ipotesi.»
«Prima dicevi che c’era un infiltrato
nel clan Schwarz.» Era il nome del clan di vampiri di Greta Zimmermann.
«Non credi? Dei misteriosi uomini
mascherati ci attaccano un’ora dopo aver parlato con due vassalli di
Glavcoso, i quali stanno progettando una ribellione.»
«E quindi decidono di farci fuori per
far vedere loro che non si fa.»
«Esatto. Ora però abbiamo bisogno di un
rifugio sicuro, un luogo protetto dai rituali.»
Annuì e prese il cellulare. Premette un
tasto e mi disse: «Come puoi sapere che l’infiltrato sia nel clan di
Greta e non sia qualcuno del branco del tuo amico mannaro?»
Feci spallucce. «Onestamente non me ne
può fregar di meno di chi sia la talpa. Sono affari vostri. Non appena
avrò finito il lavoro e libererete Chiara me ne andrò da qua e non sarà
più un mio problema.»
Josephine si mise a parlare al telefono.
Dopo un minuto chiuse la comunicazione e mi disse: «Un’amica sta
venendo a prenderci.»
«Bene.» Sorrisi. «C’è qualche
possibilità per un ménage à trois?»
«Dubito.»
Tornai serio. «Possiamo fidarci?»
«È il braccio destro e guardia del corpo
di Greta. Se c’è un traditore, lei è interessata quanto noi a
identificarlo ed eliminarlo. È una persona fidata.»
«È sempre così. Poi si scopre che l’uomo
più fidato del mondo aveva bisogno di soldi.» risposi. Solitamente, i
motivi di un tradimento sono tre: soldi, la persona è avida e vuole
mettere da parte un gruzzoletto per la pensione; l’ideologia, il
fanatismo è il più grande motore del mondo, dopo i soldi, ovviamente;
infine c’è la costrizione. Una persona può venire ricattata in cambio
d’informazioni.
«Guadagna in un mese quanto un PMC di
una compagnia privata può guadagnare in un anno. Non ha problemi di
soldi.»
«Può essere stata compromessa? Che so,
ha uno stile di vita discutibile o qualche vizio su cui si potrebbe
fare leva?»
Josephine scosse la testa. «È un
soldato, figlia di soldati e nipote di soldati. Sua padre era uno
spetsnaz e la nonna era un cecchino che ha combattuto a Stalingrado. Il
suo unico vizio è l’attività fisica.»
«È russa» dissi «come il drago.» Ecco il
motivo ideologico.
«E quindi?» replicò irritata. «Che
diavolo c’entra? E poi il drago non è russo, ma ha razziato la Russia,
è una cosa ben diversa. E come puoi pensare che una donna possa aiutare
un drago che rapisce ragazze?»
Non aveva tutti i torti, era abbastanza
improbabile.
Alzai le braccia e dissi: «Mi fido.»
Alla fine m’importava relativamente. Se
la missione fosse andata a donnine di facili costumi, me la sarei
svignata veloce come il vento. Da morto difficilmente avrei
potuto aiutare Chiara.
|