Amava guardarlo dormire

di Maharet
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Amava guardarlo dormire. Succedeva raramente, a dire il vero. La maggior parte delle volte, dopo aver fatto l’amore, era lui a crollare, cullato dal respiro di Magnus e dalle sue carezze tra i capelli.

Ma a volte, e soltanto a volte, era Magnus ad addormentarsi per primo. Oppure una riunione del consiglio si protraeva fino a notte inoltrata e lo stregone rientrando svegliava inavvertitamente Alec, prima di affondare il volto nel cuscino ed abbandonarsi tra le braccia di Morfeo.

In quei casi Alec si sdraiava a pancia in giù e lo osservava. Senza toccarlo, senza quasi osare respirare per paura di disturbare il suo sonno. Lo guardava e basta, incapace di convincersi che quell’uomo meraviglioso avesse scelto proprio lui.

Nel sonno Magnus sembrava… diverso. Non innocente, quello era un aggettivo che nemmeno in mille anni sarebbe stato in grado di associare allo stregone. Non che la cosa gli dispiacesse, ad ogni modo.

Sereno… quella era la parola che cercava. Le ciglia nere e folte accarezzavano il suo volto stupendo, mentre un respiro basso e regolare sfuggiva alle sue labbra socchiuse.

Le palpebre nascondevano gli occhi di Magnus, e questo era sinceramente un peccato. Amava quello sguardo unico, amava il modo in cui si fissava su di lui come se tutto il resto del mondo potesse allegramente andare a farsi fottere.

Ma amava anche poterlo guardare senza essere guardato a sua volta, senza sentire la pressione del suo sguardo sulla pelle, il tocco quasi fisico del desiderio che emanava da lui come un’aura. Guardarlo davvero, gli occhi socchiusi per cogliere il suo profilo nella penombra,  il ronfare sommesso del Presidente Miao di sottofondo.

Era come osservare l’oceano in quiete. Trasmetteva un senso di pace ma, allo stesso tempo, non potevi non essere conscio delle tempeste che si celavano nelle sue profondità.

Temeva di perderlo. Ogni giorno. Ogni volta che Magnus lo chiamava amore, ogni volta che lo stringeva così forte da fargli desiderare che non lo lasciasse più andare, ogni volta che si addormentava tra le sue braccia, la paura cresceva.

L’idea che avesse vissuto così a lungo, e avesse amato così tante persone diverse, lo destabilizzava. Lui era solo uno stupido ragazzino che viveva il suo primo amore.

Ma in quei momenti – rari, troppo rari – sentiva davvero, fino in fondo al cuore, che si appartenevano. Che erano un noi. E tanto bastava.




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