Tu
sei il mio inizio e la mia fine
"E’
importante che sia mia cugina?” sbottò Sirius.
“Per quanto mi riguarda, non è la mia famiglia.
Lei di sicuro non fa parte della mia famiglia. Non la vedo da quando
avevo la tua età, tranne che di sfuggita quando è
arrivata ad Azkaban. Credi che sia orgoglioso di avere una parente come
lei?”
Sirius Black, Harry Potter e l’Ordine della
Fenice
1. He’s
nothing Special. I am
Grimmauld Place nr. 12
Febbraio 1959
[Bellatrix]
«Bella,
non vuoi vedere tuo cugino?»
No. Non ne ho la minima
intenzione.
La bambina
dai boccoli neri scoccò un’occhiata truce verso
l’interno della sontuosa culla, ma non si
avvicinò. Le sue pupille brillarono per un attimo alla luce
delle candele, poi tornarono a nascondersi sotto le palpebre pesanti,
mentre abbassava lo sguardo sul soffice tappeto di velluto verde che
ricopriva il pavimento. Rimase ferma dove stava, in piedi al centro del
grande salone al primo piano della casa dei suoi zii.
«Insomma,
Bella!» la richiamò la voce stizzita di suo padre.
«Possibile che tu debba sempre essere così
scostante?»
«Cygnus,
non fa niente, se non vuole…»
«No,
Druella. Deve capire come ci si comporta, una buona volta. Vieni qui,
Bellatrix.»
Il lampo di
sfida che attraversò gli occhi della bimba scomparve, rapido
com’era apparso, nel momento in cui capì che era
meglio non discutere. Dopo un attimo di sofferta esitazione cedette e
mosse i passi verso suo padre, che troneggiava vicino la culla.
L’odiosa culla attorno
alla quale chiocciano tutti, come galline in un pollaio…
Cygnus si
spostò dietro di lei, afferrandole le spalle con fermezza
– e una traccia di ammonimento. La guidò di fronte
alla cosa che giaceva
nella culla, avviluppata da seta lucente che catturava i riflessi delle
candele e delle fiamme che sfrigolavano vivaci nel camino.
Cosa
c’era di interessante da guardare? Cos’aveva di
speciale, quello, perché tutti gli facessero le feste come
cagnolini in calore? Non ricordava avessero accolto con tale gioia la
nascita di Cissy o di Dromeda. Forse perché era un maschio?
Per quello si eccitavano tanto? Lei non ci vedeva nulla di
così esaltante.
Lo
osservò con disprezzo. Era solo un marmocchio uguale a tanti
altri. Aveva un viso rosso e rugoso e i pugni contratti al di sopra
della copertina verde smeraldo che lo avvolgeva. Aveva già
un bel po’ di capelli, neri neri. Ma a parte quello non
c’era assolutamente nulla di straordinario…
«E’
un perfetto Black in miniatura!» Zia Lucretia, sorella di
Orion, era china sulla culla al fianco di Bella. Il ghigno smisurato
con cui scopriva i denti rovinati dal fumo le fece quasi venire da
vomitare. Come le parole che pronunciò mentre si raddrizzava
e si voltava verso suo fratello: «I miei complimenti,
Orion.» Un colpetto di tosse inequivocabile
risuonò da un angolo. «Oh, anche a te, Walburga,
mia cara, ovviamente…»
Più falsa di una
Tentacula Velenosa travestita da Cespuglio Farfallino...
Orion Black
sorrise, stappando una bottiglia di Whisky Incendiario.
«Gradisci,
Cygnus?»
«Un
goccio, Orion, grazie. Ho già bevuto abbastanza
stasera.»
«Beh,
oggi era un giorno speciale» intervenne Druella,
«si doveva festeggiare.»
«Eh,
già. Finalmente il tanto sospirato erede dei Black
è arrivato... Si è fatto attendere.»
Cygnus
lasciò le spalle di Bella per prendere il bicchiere di
liquore che il cognato gli porgeva, e la bambina poté
finalmente rilassare la schiena, che fino a quel momento aveva
mantenuto rigidamente impettita.
Come si conviene a una Black…
«Sì,
si è fatto attendere molto» ripeté
piano Cygnus, rigirando il liquore nel bicchiere, ma senza berlo,
incupitosi d’un tratto. All’improvviso
alzò la testa e guardò suo cognato dritto negli
occhi, con una smorfia contratta che voleva essere un sorriso.
«Sono molto felice per te e per Walburga, Orion. Ora che so
che il nome dei Black non scomparirà nel nulla, mi sento
molto più tranquillo.» Dopo una brevissima
esitazione, aggiunse: «A me purtroppo non è stata
concessa questa benedizione».
«Avanti,
Cygnus, hai tre figlie bellissime…» disse
scherzosamente Walburga, agitandosi un po’ a disagio sulla
poltrona. «Te le invidiano tutti.»
Bella non
ebbe bisogno di guardare in faccia suo padre per sapere quale sfumatura
di contrariato disgusto fosse apparsa sul suo volto, mentre decideva di
affogare temporaneamente nel bicchiere per non dover dire
ciò che veramente pensava. Non che fosse un mistero. Non
più, ormai.
«Non
è come avere un maschio, lo so, Cygnus»
commentò Orion. «Ma Dromeda è docile e
obbediente, Narcissa ha tutta la grazia e la compostezza di sua madre e
Bella… beh, Bella…» Suo zio si
interruppe, come se solo in quel momento si fosse accorto che
c’era anche lei nella stanza. Imitando suo cognato,
sparì dietro il bicchiere di whisky, riempiendo lo
spiacevole silenzio che era calato nell’ambiente.
Ribolliva. Una
rabbia incandescente le dilagava dentro, silenziosa e letale come una
colata di lava. Ardeva di rabbia. Ma la sua espressione era impassibile.
Parlano di me come se non ci
fossi. E parlano di lui come se fosse già il principino che
tutti si aspettano diventi.
«Bella,
vai a chiamare le tue sorelle di sopra. Tra poco dobbiamo
andare.»
Sapeva che
quella di sua madre era una scusa per non farle sentire altro, un
misero tentativo di proteggerla, ma non le importava. Odiava anche lei.
Odiava tutti. Li avrebbe uccisi in quell’istante.
Girò
sui tacchi. Mentre passava vicino al tavolino dove c’erano
bicchieri e bottiglie di liquore per gli ospiti, si premurò
di inciamparvi accidentalmente.
Nel fracasso
del vetro infranto che seguì e nelle urla di sdegno dei suoi
familiari, corse fuori dalla stanza il più veloce possibile.
Non aveva
detto nemmeno una parola. Sapeva che più tardi sarebbe stata
punita duramente da suo padre per quell’ultima bravata. Era
stato un gesto completamente inutile, lo sapeva, ma si era voluta
togliere la soddisfazione.
La colpa era
tutta di quel mostriciattolo avvizzito. Perché
l’avevano messo al mondo? Già lo odiava con tutta
se stessa. Non poteva perdonargli di aver conquistato il cuore di suo
padre, quando lei non c’era mai riuscita.
2. I’ll
show him who’s in control
Residenza estiva dei Black
Periferia di Londra
Luglio 1964
[Sirius]
La prima
volta in assoluto che l’aveva vista – la prima di
cui conservasse ricordo – aveva circa cinque anni.
Era nella
tenuta estiva di famiglia, in aperta campagna, e montava una scopa
giocattolo della sua misura, sfrecciando su e giù lungo gli
spazi verdeggianti tra filari di viti e alti alberi da frutto, il vento
che gli agitava i capelli, facendoglieli stare ritti in testa come
spighe di grano, e gli gonfiava le vesti. Quello era uno dei pochi
ricordi felici che aveva serbato della sua infanzia. Felice…
prima che arrivasse lei.
Aveva sentito
un’improvvisa resistenza, come se qualcosa bloccasse la sua
scopa, e si era voltato indietro, cercando il colpevole. Ed eccola
lì. Ci era rimasto di sasso nel trovare una ragazzina con
una massa di arruffati capelli neri e una mano che gli teneva ferma la
coda della scopa, impedendole di muoversi.
«Lasciala
andare!» aveva strillato il piccolo Sirius, con vocetta acuta
e arrabbiata. Non gli andava proprio giù che qualcuno gli
rubasse quell’attimo così privato di spensierata,
completa, elettrizzante libertà.
«Altrimenti?»
Un sorrisetto beffardo era apparso sulle labbra della ragazza, che
continuava a guardarlo, fissandolo in attesa della sua reazione.
«Lasciala!
È la mia scopa!» aveva gridato Sirius. Nella
meravigliosa logica dei bambini, credeva che bastasse affermare il suo
possesso sulla scopa per poterla riavere indietro. Non conosceva chi
aveva di fronte.
«Non
è la tua scopa. Sei troppo piccolo per averne una. Sei solo
un mocciosetto.»
Gli occhi del
bambino si erano gonfiati di lacrime di rabbia e umiliazione. Era
un’ingiustizia bella e buona: quella era veramente la sua
scopa. Gliel’avevano regalata i suoi genitori per il suo
compleanno. Ma come spiegarlo a quella pazza sconosciuta?
«Cosa
sarebbero quelle? Lacrime?» Il sorriso ora era scomparso,
sostituito da un vero e proprio ghigno. «Lo vedi? Non ho
ragione? Sei uno stupido, piagnucoloso moccioso.»
Aveva calcato sull’ultima parola, nel momento stesso in cui
aveva lasciato andare la scopa, di botto.
Sirius, colto
alla sprovvista, non era riuscito a mantenere l’equilibrio ed
era ruzzolato giù dalla scopa.
Erano solo
venti centimetri, ma quando si era trovato con le mani e le ginocchia
affondate nella terra, la terra fin sui capelli, la risata terribile
della ragazza era esplosa dietro di lui e gli aveva riempito i timpani,
riecheggiandogli nel cervello, gonfiandogli il cuore di nuove lacrime
di sdegno e mortificazione.
Era stata la
prima volta che aveva avvertito la vampa cocente della vergogna. Non
osava quasi rimettersi in piedi, alzare la testa, perché
questo significava dover incontrare gli occhi di lei e
l’espressione di gioia sadica, malvagia, sul suo volto.
«Se
ti piace così tanto rotolarti nella terra posso chiedere a
zio Alphard di tenerti nel suo porcile… Lì
troveresti tutta la terra che vuoi e soprattutto compagnie degne di
te.» Era scoppiata di nuovo a ridere, una risata piena,
compiaciuta, soddisfatta.
Aveva
abbassato la guardia per un attimo, e il bambino era scattato come una
molla.
Era talmente
sciocco e imprevisto il suo gesto che Bellatrix non aveva avuto modo di
fermarlo. Le si era scagliato contro con tutta la furia che le sue
gambette gli permettevano, facendola inciampare. Si erano ritrovati a
lottare in un groviglio confuso di abiti e capelli e ciuffi
d’erba, la ragazzina e il bambino. Lei gli aveva afferrato i
polsi, bloccandolo, e lui si dibatteva forsennato come
un’anguilla, tenendosi al contempo stretto stretto alla sua
veste, con nessuna intenzione di mollare la presa.
Mentre
continuava quell’impari quanto strenua lotta, Sirius aveva
sentito un suono squillante risuonargli nelle orecchie. Solo allora si
era accorto che lei continuava a ridere. Non aveva mai smesso di
ridere, da quando l’aveva attaccata. Continuava a farsi beffe
di lui, dei suoi patetici tentativi di farle del male, quando non
riusciva nemmeno ad avvicinarsi alla sua pelle. A un certo punto,
però, qualcosa di duro e freddo si era puntato contro la
gola di Sirius.
«Sai
cos’è questa, piccolo?» aveva
gorgogliato Bellatrix, soffocando una risatina nel profondo della gola.
«Ne hai mai vista una?»
L’attenzione
di Sirius era stata momentaneamente distolta. Certo che sapeva
cos’era. Aveva già visto, e toccato, una
bacchetta. Sapeva a cosa serviva. Sapeva che poteva sprizzare una
vampata di scintille dalla punta, quella stessa punta che ora gli
premeva più a fondo nel collo, provocandogli la sgradevole
sensazione di un boccone troppo grosso che gli fosse rimasto incastrato
da qualche parte lì intorno. Automaticamente, aveva smesso
di agitarsi, immobilizzandosi.
Bellatrix
aveva fatto una smorfia di approvazione. «Bravo, ragazzino.
Non sei stupido come sembri, allora… Chissà,
potresti persino essere un vero Black.»
«Io sono un
Black. Mi chiamo Sirius Black» aveva ribadito con tono
sicuro. Una delle poche certezze che aveva, nei suoi cinque anni di
vita, era quella. Il suo nome. Gli veniva ripetuto fino alla nausea.
La ragazza
aveva riso. Per un attimo Sirius si era perso nella visione dei suoi
bianchissimi denti lucenti.
«Ma
sentilo… So benissimo come ti chiami.» Un
luccichio indefinibile le era vibrato in fondo alle pupille.
«Anch’io sono una Black.»
Quella
confessione aveva lasciato Sirius stupefatto e rigido come uno
stoccafisso. I suoi genitori gli avevano insegnato che il nome dei
Black era come una parola magica, una formula sacra. Tutto
ciò che significava splendore, grandezza, dignità
era intessuto in quel nome. E chiunque lo portasse era altrettanto
degno di rispetto e venerazione. Ma se quella ragazza diceva la
verità allora…
«Se
ti chiami anche tu Black…» aveva esordito
lentamente il bambino, aggrottando la fronte nello sforzo di pensare
intensamente. «…allora noi… allora
noi…»
«Siamo
parenti, sì. Io sono tua cugina, Bellatrix. Vuoi ancora giocare con me,
piccolo Black?»
Stavolta gli
aveva premuto così forte la bacchetta contro la
pelle tenera della gola che Sirius si era sentito soffocare sul serio.
Ma ciò che più l’aveva terrorizzato, in
quel momento, non era stato il legno inanimato –
così pericoloso, così vicino – della
bacchetta, ma il bagliore che animava le pupille di lei. Due porte
spalancate sull’inferno che risucchiavano verso
profondità sconosciute, insondabili. Il suo viso era come
trasfigurato da una diabolica gioia, eppure controllato, vigile,
attento.
Erano rimasti
così, immobili, ricambiandosi lo sguardo, per un secondo
lungo tutta una vita. Sirius non sapeva cosa fare. Era una situazione
completamente atipica per lui. Da una parte c’era la rabbia
che provava per quella sconosciuta cugina, l’orgoglio offeso
che urlava vendetta, dall’altra c’era la Regola
Inviolabile dei suoi genitori: il nome dei Black è sacro, la
Nobile e Antichissima Casata dei Black è intangibile. E poi
c’era quella bacchetta piantata nella sua trachea. A farlo
sentire vergognosamente indifeso…
Bellatrix
all’improvviso lo aveva scostato bruscamente da
sé, facendolo rotolare sul terreno. Si era rialzata
scuotendosi la terra dalla veste, passandosi una mano nella chioma
intricata. Gli aveva gettato appena uno sguardo al di sopra della
spalla, mentre si allontanava. Un sogghigno compiaciuto le vibrava
nella voce:
«E’
stato un piacere conoscerti, piccolo Black».
3. See you in Hell.
Or maybe not?
Grimmauld
Place, nr. 12
Ottobre
1972
[Sirius]
Negli anni a
venire, Sirius aveva avuto poche occasioni di rincontrare la sua
detestabile cugina maggiore. Ovviamente, non mancavano le cene
ufficiali in occasione delle quali tutta la famiglia al completo si
riuniva, intorno al lunghissimo tavolo di legno di noce,
nell’oscuro salone al primo piano di Casa Black, al numero
dodici di Grimmauld Place.
Sirius odiava
ferocemente quelle occasioni. Odiava essere costretto a prendervi parte.
Quando
poteva, sgattaiolava via, dileguandosi prima che qualcuno lo fermasse.
Odiava starsene seduto tra i suoi orridi parenti ad ascoltarli sputare
veleno e insulti su Babbani, Mezzosangue, traditori del proprio sangue.
Sembrava non conoscessero passatempo migliore di quello. E lui era
costretto a fare un enorme sforzo di volontà per dominare la
collera che lo assaliva a tutto quel berciare.
Se ne stava
chino con la testa sul piatto, senza sollevare lo sguardo, gli occhi
scintillanti di furia repressa, le dita che stringevano così
forte le posate da sbiancare. Un tremito di rabbia lo percorreva,
facendogli desiderare di spedire una maledizione su tutti loro:
dovevano sparire tutti, voleva mandarli lontano, da dove non potessero
più tornare, dove non potesse più udire le loro
voci… Le loro insulse chiacchiere sulla purezza di sangue,
sull’importanza che il potere magico venisse preservato e
conservato attraverso matrimoni tra Purosangue, anche strettamente
parenti, se necessario. Quello, a Sirius, suonava né
più né meno che un abominio. Una
mostruosità, quasi pari al progetto di schiacciare tutti i
Babbani, ucciderne il maggior numero possibile e ridurre i rimanenti a
schiavi dei maghi.
Sirius aveva
un sacco di amici a Hogwarts che erano Babbani di nascita o
Mezzosangue. Il pensiero che facessero la fine orribile che i suoi
parenti auspicavano gli faceva passare l’appetito.
Dall’altro
lato del tavolo, sorprendeva a volte gli occhi di Bellatrix fissi su di
lui. Lo fissava con una strana espressione: gli occhi socchiusi sotto
le palpebre pesanti, scintillanti come gemme malevole. Lei sapeva che
era arrabbiato e contrariato e che cercava disperatamente di
controllarsi, e la consapevolezza del tormento cui era sottoposto, del
suo conflitto interiore, le faceva sprizzare gioia maligna da tutti i
pori. Lo guardava con quel sorrisetto soddisfatto, crudele, velenoso.
E Sirius,
ancora una volta, veniva assalito dal folle impulso di cancellarle quel
ghigno dalla faccia con una bella Maledizione. Ma poi si ricordava che
era troppo piccolo per fare Maledizioni e che comunque non era una cosa
giusta. Ma era pronto a scommettere che sua cugina non si sarebbe fatta
scrupoli di sorta a scagliargliene una addosso, magari anche alle
spalle, per il puro piacere di coglierlo di sorpresa e fargli male e
sentirsi in questo modo soddisfatta. Potente.
Ciò che affascinava Bellatrix più di ogni altra
cosa era il Potere. Quello con la maiuscola.
Era stato
durante uno di quei pranzi interminabili e raccapriccianti, conditi da
commenti sadici e sarcastici sul trattamento che sarebbe stato
riservato ai Babbani quando Lord Voldemort fosse finalmente salito al
potere, che era scoppiato.
«Meriterebbero
di essere arsi vivi, come hanno fatto loro con noi fin dal
Medioevo!» urlò sua zia Druella, battendo un pugno
sul tavolo così forte che il vino schizzò dal
calice d’argento che recava impresso lo stemma di famiglia,
disegnando scie violacee sul ripiano lucido del tavolo.
«Sì,
immagina la puzza…» Orion storse il naso, a
metà tra il divertito e il disgustato.
«Io
li metterei ai lavori forzati. Sono o non sono nostri
schiavi?»
«Per
quello abbiamo gli Elfi Domestici, Walburga. A proposito…
dov’è quell’inutile feccia? Kreacher!
Vieni qui!»
Con un sonoro crac, un Elfo
Domestico dal brutto muso rincagnato che assomigliava terribilmente a
un grugno di porco, apparve accanto al tavolo. Fece un inchino
così profondo che andò a sbattere con la faccia
sul pavimento. Nessuno gli disse di rialzarsi.
«Il
Padrone ha chiamato Kreacher. Kreacher è venuto. Cosa
desidera il Padrone?» chiese con voce untuosa,
senza sollevarsi da quella posizione.
«Portaci
altro vino dalle cantine, Kreacher. Mi raccomando… il
migliore che riesci a trovare. O farai i conti con
me…»
«Come
desidera il Padrone.»
Kreacher
scomparve con uno schiocco. Ritornò poco dopo, reggendo una
pesante bottiglia che Orion si premurò di stappare e di
mescere ai suoi convitati.
«Beh,
la feccia ha la sua utilità.» Il sorriso di Cygnus
lampeggiò minaccioso da sopra l’orlo del suo
calice. Socchiuse gli occhi con espressione concentrata, mentre si
bagnava le labbra del vino. «E’ ottimo, Orion. Che
annata è?»
«1832.
Imbottigliato da mio nonno. Ti ho tenuto da parte un paio di
bottiglie.»
«Gentile
da parte tua, cognato.»
Per un lungo
minuto nessuno parlò. Tutti erano troppo occupati ad
aggredire le splendide portate di cui il tavolo traboccava, schiacciato
dal peso di enormi piatti e vassoi fumanti e succulenti.
Fu Walburga a
rompere il silenzio, riportando la discussione sull’argomento
che tanto li appassionava:
«Immagina
tenere uno schiavo Babbano per casa… sarebbe uno
spasso».
«O
una croce. Ho sentito dire che sono molto stupidi e poco
addomesticabili.»
«Oh,
gliela farei vedere io a quelli là! Li piegherei in quattro
e quattr’otto. Imparerebbero subito chi è che
comanda e qual è il loro posto.»
«Potremmo
usarli per far esercitare le ragazze con la Magia mentre sono a casa
per le vacanze.» interloquì Druella.
«Sarebbero ottimi come cavie.»
Sirius
tremò sotto il tavolo e strinse ancora più forte
forchetta e coltello, rifiutandosi ostinatamente di alzare lo sguardo.
Sentiva che al minimo movimento sarebbe uscito dai gangheri e avrebbe
infilzato sua zia come un pollo allo spiedo.
«Io
ho un’idea migliore.» Era la voce di Bella. Fino a
quel momento non aveva preso parte alla conversazione, pur
seguendola con vivo interesse.
«E
cosa faresti tu, sentiamo…» disse Orion, lanciando
uno sguardo alla nipote mentre affondava il coltello nella grassa fetta
di arrosto che aveva nel piatto.
«Li
rinchiuderei tutti in delle riserve e darei il via libera alla Caccia.
Allo scadere del tempo, chi è riuscito a ucciderne di
più si porta a casa i sopravvissuti, come schiavi.»
Il silenzio
calò per un attimo sulla tavola.
«Sai
una cosa, Bellatrix? Non è affatto male come
idea.» Orion la contemplò incuriosito, portando
alle labbra il secondo calice di vino stagionato. «Tu sì
che sei una Black, non c’è
dubbio.»
Sirius
alzò lo sguardo per la prima volta. Non bisognava essere un
genio per capire a chi fosse destinata la frecciatina di suo padre. Chi fosse
la causa del suo scontento e della sua amarezza. La sua colossale
delusione. Ma Orion non lo degnò di uno sguardo. Dopo aver
ammiccato in segno di approvazione a Bella, abbassò gli
occhi sul piatto e continuò a sezionare il suo arrosto con
metodo, come se niente fosse.
Schiumante di
rabbia, Sirius spostò lo sguardo dall’altra parte
del tavolo e inciampò negli occhi di Bella. Lo stava
guardando. Gongolava. Anzi, era pura goduria quella che le illuminava
da dentro i lineamenti. Si stava divertendo un mondo a provocarlo, a
farlo sentire male, ci avrebbe messo la mano sul fuoco. La conosceva,
ormai. E più la conosceva, più la odiava.
L’aveva sempre odiata. Da quel lontano giorno in cui lei non
si era fatto scrupolo di buttare giù dalla scopa un bambino
di cinque anni e prendersi gioco di lui. Col tempo, sembrava aver
raggiunto vette inimitabili di sadismo e perfidia. Era un concentrato
di pura malvagità, sua cugina. Glielo leggeva negli occhi,
puntati su di lui a trafiggerlo come spade avvelenate, godendo della
sua rabbia, alimentando quella rabbia, come vento sul fuoco. No, se non
se ne andava subito avrebbe fatto qualche sciocchezza.
Sirius si
alzò di scatto, facendo stridere sgradevolmente la sedia sul
pavimento. Forchetta e coltello caddero rumorosamente nel piatto.
Gettò con rabbia il tovagliolo sul tavolo, allontanandosi
senza voltarsi indietro, i pugni chiusi, le spalle contratte e tremanti
d'ira.
«Ehi,
tu! Dove credi di andare?» abbaiò sua madre,
fissandolo con gli occhi sbarrati, incredula di fronte a cotanta
mancanza di rispetto.
«Torna
subito qui e comportati come si conviene a mio figlio! Te lo ordino!»
sbraitò suo padre, alzandosi a sua volta.
Sirius non
rispose e non si fermò. Sapeva che avrebbe pagato caro il
suo gesto, ma al momento non gli importava. Dovette richiamare a
sé ogni briciola di autocontrollo per trattenere le parole
sarcastiche e velenose che gli si affollavano dentro. Quelle avrebbero
sicuramente causato un danno ben peggiore.
«Orion,
siediti. Lascialo perdere. La pagherà più
tardi.» Walburga mise una mano sull’avambraccio del
marito, ammonendolo con lo sguardo a non dare ulteriore spettacolo.
La tavola
sembrava essersi raggelata di colpo. Mentre Orion si lasciava ricadere
pesantemente sulla sedia, suo cognato Cygnus gli lanciò uno
sguardo accigliato.
«Il
ragazzo ha qualche problemino, a quanto vedo.»
«Intemperanze
giovanili» minimizzò Druella. «Gli
passeranno.»
«Oh,
no. Io non credo» proseguì Cygnus, cupo.
«Walburga, Orion, penso che dobbiate usare un po’
più le maniere forti col ragazzo. Raddrizzarlo finchè
si è in tempo.»
«So
perfettamente come educare mio figlio, Cygnus, ti ringrazio»
commentò feroce Orion. Afferrò il calice di vino
con tale violenza che se ne versò un bel po’
addosso, imprecando mentre una grossa chiazza purpurea si allargava
sulla camicia di un bianco immacolato.
«Kreacher!
Portami subito un panno pulito! Muoviti, inutile essere!»
«Ci
penso io, zio Orion. Non c’è bisogno di scomodare
quel mostriciattolo.»
Bella si
alzò dal suo posto, facendo frusciare la lunga gonna nera
dietro di sé. Voltò le spalle alla tavola e
uscì dal salone senza far rumore. Ma non si diresse in
cucina. Aveva sentito Sirius salire le scale e immaginò che
si fosse diretto in camera sua. Fu lì che andò.
Sirius era
sdraiato sul letto a pancia in aria, le braccia incrociate dietro la
nuca, lo sguardo puntato al soffitto. La vista di Bella sulla soglia
minacciò di fargli perdere anche l’ultima
scintilla di autocontrollo che gli era rimasta.
«Che
diavolo vuoi?» ringhiò, balzando a sedere e
gettandole un’occhiata di fuoco. «Fuori dalla mia
stanza!»
Bella
ridacchiò. «Modera i toni, cuginetto. Questo tuo
caratteraccio ti farà finire in qualche brutto guaio, prima
o poi…» Si appoggiò con noncuranza allo
stipite della porta, incrociò le braccia e lo
guardò senza smettere di ghignare. «Che
c’è? Il paladino dei diritti dei Babbani
è stato offeso nella sua sensibilità?»
«Esci
di qui» ringhiò Sirius a denti stretti,
ricambiando il suo sguardo con furia. «Mi hai
sentito.»
«Io
non prendo ordini da nessuno!» Gli occhi di Bella
lampeggiarono con ira. Si staccò dalla porta, facendo
qualche passo avanti. «Tantomeno da un vile traditore del suo
sangue come te!»
Sirius
balzò in piedi come una molla. La rabbia era incisa su ogni
tratto del suo viso. «Preferisco mille volte essere un
traditore piuttosto che uno di voi. Il vostro sangue mi fa
schifo!» sibilò, livido.
Il volto di
Bella si indurì in una maschera di furia, a quelle parole.
«Non osare insultare il sangue dei Black!»
strillò, avvicinandosi minacciosa. «Tu…
stupido piccolo ingrato, non capisci… Quei Babbanofili con
cui te la fai ti hanno fatto il lavaggio del cervello…
Oppure no? Sei sempre stato… anormale. Ho sempre
saputo che non eri un vero Black. Tuo padre ha ragione, sei una
vergogna per questa famiglia. Il disonore più grande che
possa esistere.»
Gli
voltò le spalle, con l’intenzione di piantarlo
lì in asso. Ma Sirius non era così disposto a
lasciarle l’ultima parola. L’afferrò per
un gomito; dentro di lui ruggiva il desiderio di farle rimangiare tutto
quello che aveva detto, di lavarle via dalla faccia quel ghigno
soddisfatto… Si era dimenticato con chi aveva a che fare.
Una frazione di secondo e si ritrovò la bacchetta di legno
di noce di sua cugina puntata al cuore. Lei gli era così
vicina da avvolgerlo con la sua nuvola di minacciosi capelli corvini.
Aveva uno sguardo omicida.
«Cosa
credi di fare?» gli sussurrò, con voce mortalmente
bassa. «Se pensi che i tuoi modi da cavernicolo abbiano
qualche effetto su di me ti sbagli di grosso. Sei solo un ragazzino
spaccone che finge di essere un ribelle per attirare
l’attenzione. Non è forse così, Sirius?»
Erano
rarissime le volte in cui lo chiamava col suo nome. Lo
pronunciò in un sibilo di scherno, sputandogli addosso una
lettera dopo l’altra, intrise del più profondo
disprezzo.
«Invece
tu sì che sei una Black, vero, Bellatrix?»
sogghignò a denti stretti Sirius, sostenendo il suo sguardo,
a pochi centimetri di distanza, la bacchetta di lei ancora puntata sul
suo cuore. «Ti dai tante arie, credi di essere migliore di
tutti. E allora avanti, comportati da Black. Uccidimi, se ne hai
il coraggio.»
Con sua
sorpresa, un sorriso incurvò verso l’alto un
angolo delle labbra di lei.
«Non
sai quanto mi piacerebbe. Ma non ora. Verrà il momento in
cui ti ucciderò, cugino. Ti prometto che lo farò.
La mia faccia sarà l’ultima cosa che vedrai prima
di finire all’Inferno, parola di Bellatrix Black.»
Quelle
parole, pronunciate con tale odio, con tale ferocia, lo scossero. Per
un attimo, scrutando nel profondo di quegli occhi nerissimi, Sirius si
sentì sul punto di annegare. Sostenne il suo sguardo,
cercando di individuare un barlume di luce nelle sue pupille, ma non
c’era niente, assolutamente niente nel suo sguardo. Nessun
lume di bontà. Solo pura malvagità.
Si riscosse
in fretta. Con un ghigno mascherò il profondo turbamento che
provava dentro. Se c’era una cosa che aveva imparato, era mai
mostrarsi deboli e impauriti con Bellatrix.
«Se
andrò all’Inferno, ci vedremo lì, cara
cugina. Sarò il tuo tormento per
l’eternità.»
Le
lasciò il braccio. Bella fece un passo indietro.
«Non
credo che ci rivedremo lì. Anzi, sai una cosa? Non credo
proprio che morirò.» C’era una luce
strana nei suoi occhi mentre lo diceva. «La morte
è solo una debolezza umana. Lui la
sconfiggerà. E io sarò al suo fianco.»
Sirius la
fissò accigliato e interdetto. «Che stai
blaterando? Cosa vuoi dire?»
Un sorriso
estatico aleggiava sul volto di Bella, trasfigurandola
dall’interno. Sembrava che un fuoco le si fosse acceso
dentro, facendo splendere ogni centimetro quadrato della sua pelle,
mandando lampi attraverso gli occhi indemoniati.
Indietreggiò lentamente, continuando a guardarlo con
quell’aria di superiorità e scherno, poi
girò sui tacchi e uscì dalla stanza, lasciandolo
lì impalato, con un orrendo presentimento addosso che gli
faceva accapponare la pelle.
4. The Black in White
Londra
Luglio
1975
[Sirius]
Sirius aveva
quindici anni quando vide Bella per l’ultima volta, prima che
si trovassero schierati uno contro l’altro, nemici giurati di
una guerra aperta. Fu in occasione del matrimonio della cugina, pochi
mesi prima che lui stesso tagliasse definitivamente i ponti con la sua
famiglia e scappasse di casa.
Il
matrimonio, ovviamente, era stato combinato dalle rispettive famiglie:
Black e Lestrange. Sirius non aveva mai avuto occasione, né
voglia, di incontrare prima di allora il suo futuro cognato. Sapeva
solo che era un rispettabilissimo Purosangue, che la sua famiglia
apparteneva a una delle più ricche e antiche stirpi di
sangue magico della Bretagna e che portava una nomea assai poco
lusinghiera, sebbene non ci fossero prove concrete a supporto di quelle
voci. Solo voci, appunto.
Avrebbe
preferito fare qualsiasi cosa
– anche ripulire cacche di drago con Hagrid, o andare a
caccia nella Foresta Proibita – piuttosto che presenziare
alla cerimonia. Ma, quando si era opposto, sua madre aveva avuto una
vera e propria crisi di nervi che l’aveva lasciata tramortita
e ansante come un mantice su una poltrona. Suo padre gli aveva sibilato
che, se avesse fatto morire di crepacuore sua madre,
l’avrebbe legato in cantina e scorticato vivo con le sue
mani. Ma non erano state le minacce di suo padre o gli insulti di sua
madre a farlo capitolare. Ormai non lo toccavano più. O
quasi.
***
Stava seduto
in camera sua a leggere un manuale Babbano sulla manutenzione delle
motociclette, quando la porta si era aperta. Un rapido sguardo
distratto aveva incorniciato Regulus sulla soglia ed era tornato alla
carta con ostentata indifferenza.
«Che
cosa c’è?» Non si era sforzato di
mascherare l’aggressività nella voce.
Regulus non
aveva risposto. Non era insolito, da parte sua. Si era limitato a
guardarlo con espressione indecifrabile, con vaga aria di rimprovero e
silenziosa accusa, prima di abbassare gli occhi.
«Se
ti hanno mandato loro, puoi pure
dirgli che non ho nessuna intenzione di farmi comandare a bacchetta.
Non possono obbligarmi a fare ciò che non voglio. Se ci
provano me ne andrò da questa casa per sempre.»
«Non
sono qui per loro.» Regulus teneva le mani affondate nelle
tasche, il mento basso. Gli lanciò una delle sue occhiate da
sotto in su e tornò a fissarsi le scarpe.
«Ah,
no? E per quale motivo, allora?» Sirius aveva chiuso con un
colpo secco il libro, tenendolo in grembo mentre fissava cupo suo
fratello.
Regulus aveva
mosso qualche passo nella stanza. Si era avvicinato alla finestra e
aveva guardato fuori, continuando a tacere. Sembrava improvvisamente
molto interessato al paesaggio esterno, come dimentico della presenza
del fratello e del motivo per cui era lì. Sirius
notò che si teneva a debita distanza da lui e che evitava
accuratamente di guardare, anche solo per sbaglio, le foto di ragazze
in bikini che tappezzavano la stanza. Con somma
soddisfazione, si accorse di quanto stonasse suo fratello, piccolo,
scuro, nervoso, silenzioso, in mezzo al tripudio allegro di oro e
porpora degli striscioni di Grifondoro, che erano il suo vanto e la sua
gioia. Si sentiva Grifondoro fino in fondo, a differenza di Regulus,
che sembrava terribilmente un pesce fuor d’acqua in
quell’ambiente a lui apertamente ostile.
«Allora?
Hai intenzione di farmi perdere altro tempo o devo farti una fattura
per scioglierti la lingua?»
Regulus
sembrò riscuotersi. Finalmente distolse lo sguardo dalla
finestra. Ma non lo puntò su di lui, bensì su un
punto imprecisato del tappeto. Lì, almeno, non
c’erano poster Babbani o spille rosso e oro.
«Devi
venire al matrimonio di Bella.»
«Ah,
sì? E come pensi di convincermi?» Sirius fece un
sorriso storto, guardando suo fratello dall’alto in basso.
«Con la forza?»
All’improvviso
Regulus alzò gli occhi, fissando diritto nei suoi, con una
determinazione che ben poche volte Sirius gli aveva visto e che lo
lasciò per un attimo sconcertato e sorpreso.
«Tu vieni al
matrimonio» ripetè lentamente Regulus, scandendo
ogni sillaba. «Poi, potrai fare tutto quello che vuoi. Anche
andartene di casa. Maledirci, se vuoi. Sarai libero. Nessuno ti
fermerà.»
Si diresse
verso la porta, strascicando i piedi. Stava quasi per scomparire al di
là della soglia quando la voce di Sirius lo fermò.
«Perché
dovrei maledirvi?» C’era una sfumatura di
curiosità nella sua voce.
Regulus si
girò verso di lui, col solito sguardo indecifrabile, il
volto ridotto a una maschera di imperturbabilità.
«Perché
ci odi, no?»
Sparì,
lasciandolo ammutolito. Per una volta.
***
E
così Sirius c’era andato.
C’era
stato qualcosa, nelle parole di suo fratello, che inspiegabilmente
avevano ammansito la belva nel suo cuore. Anche se a malincuore,
odiando se stesso e tutti coloro che lo circondavano, era andato al
matrimonio della sua maledetta cugina.
Lui e Regulus
indossavano completi neri impeccabili, elegantissimi, che evidenziavano
la somiglianza tra loro, a parte il fatto che Sirius aveva la mascella
serrata e le narici dilatate, e sembrava un drago pronto a incenerire
il primo che gli avesse rivolto la parola, mentre il fratello minore se
ne stava immobile a crogiolarsi nell’abituale apatia, senza
mostrare alcuna emozione particolare.
Da quel
giorno in cui era venuto in camera sua, Regulus non gli aveva
più rivolto la parola. Niente di insolito, comunque. I due
fratelli erano abituati a ignorarsi a vicenda.
Sirius aveva
visto per la prima volta il promesso sposo di sua cugina. Rodolphus
Lestrange era alto, con capelli e occhi neri che si accordavano
perfettamente a quelli di un Black. Avrebbero quasi potuto scambiarlo
per il loro fratello maggiore. Ma i suoi lineamenti, il suo portamento
tradivano la sua origine esotica. Aveva la classe innata e la
nonchalance tipicamente francesi. Quando lo sentì scambiare
qualche parola con lo zio Cygnus, scoprì che parlava un
inglese perfetto, senza alcun accento. A prima vista, non gli
sembrò un individuo pericoloso. Era calmo. Composto. Quasi
indifferente. Non gli fece alcuna impressione particolare. Ma, per aver
accettato di sposare sua cugina, doveva non essere tanto a posto con la
testa nemmeno lui. Uno che si legava per tutta la vita a Bellatrix
Black non poteva essere sicuramente un santarellino o un mago con la
coscienza pulita.
Come
richiamata dai suoi pensieri, ecco che apparve sua cugina. Cygnus si
era affrettato ad affiancarla, porgendole il braccio. La
osservò cupo avanzare lungo la navata, la schiena
perfettamente diritta, l’incedere altezzoso e freddo di una
regina di ghiaccio. Peccato che Bella fosse sempre stata tutto
fuorchè fredda. Chissà se il futuro marito sapeva
a cosa andava incontro… Poverino, Sirius non lo invidiava
certo. Quasi quasi cominciava a stargli simpatico, lo sventurato.
Riportò
lo sguardo su Bella. Tutti gli occhi erano fissi su di lei, come un
gigantesco riflettore. Era lei la regina del palcoscenico. Tuttavia,
guardandola in faccia, Sirius ebbe una spiacevole impressione:
c’era la più totale indifferenza sul volto di
solito così esageratamente vivo di sua cugina, la stessa
indifferenza che aveva visto anche nello sguardo di Rodolphus.
Sembravano due attori chiamati a recitare una parte che non li
appassionava particolarmente, ma in cui si erano calati con cortese,
educato distacco.
Quando fu ai
piedi dell’altare, il braccio di Rodolphus si
sostituì a quello di Cygnus senza che né lui
né Bella facessero una piega. Si voltarono entrambi verso
l’officiante senza nemmeno guardarsi negli occhi. Sirius non
potè non provare un senso di pena a quella vista. Come
facevano quei due a ignorarsi in quel modo quando stavano per unire le
loro vite per sempre? Sembravano due perfetti estranei. C’era
talmente tanta freddezza tra loro che Sirius se ne sentiva gelato anche
a distanza.
Mentre li
osservava giurò a se stesso che nessuno lo avrebbe costretto
a sposarsi contro il suo volere. Piuttosto, avrebbe preferito morire.
Ma
Bella… non poteva credere che l’avessero
costretta, che davvero non avesse avuto scelta. Possibile che quel
Rodolphus non le piacesse neppure un po’?
Si riscosse
improvvisamente da questi pensieri quando la musica partì.
Si diede mentalmente dello stupido: ora si inteneriva nei confronti di
sua cugina? Quella pazza sanguinaria che non aveva fatto mistero di
volerlo uccidere, anni prima…
La musica gli
faceva venire il voltastomaco. Troppo dolciastra, nauseante, come un
budino andato a male.
Con un
ghigno, vide che la stessa espressione schifata era apparsa sul volto
di Bella. Doveva sentirsi come una tigre in gabbia, immaginava.
Costretta in un abito che odiava. Era vaporoso, con un lungo velo e uno
strascico ancor più lungo. Così candido, faceva
un enorme contrasto con i capelli e gli occhi neri. E con le labbra, di
un rosso acceso. Per il resto, il pallore della sua carnagione era tale
da confondersi quasi con il colore dell’abito. Non
poté trattenere un altro ghigno. Bella odiava il bianco e
poteva solo vagamente immaginare quanto poco sopportasse di indossarlo.
Per non parlare del bouquet di rose bianche che stringeva in mano,
così forte come se volesse strangolare qualcuno. Bella
odiava i fiori. Odiava il loro profumo zuccheroso. Odiava la musica.
Odiava la felicità. Probabilmente, odiava l’uomo
al suo fianco. Di sicuro, quello era il giorno più brutto
della sua vita.
Ben
le sta. Se lo merita. È perfida.
Ma, mentre lo
pensava, si accorse di non pensarlo veramente. Era terribile, Bella,
sì, ma non avrebbe augurato nemmeno a lei di dover
condividere tutta la vita con uno sconosciuto per cui non provava
nulla. Era una schiavitù simile a quella di un Elfo
Domestico, quella imposta dalle leggi dei Purosangue.
Per la
seconda volta si ricordò mentalmente di buttarsi
giù da una rupe, se qualcuno avesse tentato di fare lo
stesso con lui.
La cerimonia
sembrò non finire mai. Sirius cominciò a sentire
caldo. La cravatta lo stringeva al collo. Il sangue gli pulsava nelle
tempie.
L’odore
dei fiori era talmente forte e penetrante da soffocarlo. Avrebbe
più di tutto voluto uscire, respirare un po’
d’aria fresca, ma l’occhiata che gli
lanciò sua madre gli fece capire che non era il caso di
causare una scenata in quel momento.
Beh, almeno
avrebbe movimentato un
po’ l’atmosfera, pensò maligno. Avrebbe
rovinato il matrimonio di Bella. Non che le sarebbe dispiaciuto,
immaginava.
Rimase al suo
posto, insolitamente docile, aspettando che il rito terminasse,
pensando nostalgico a del succo di zucca ghiacciato che avrebbe potuto
alleviargli l’arsura alla gola. E finalmente, dopo quella che
gli parve un’eternità - molto più di
qualsiasi lezione di Storia della Magia, che era la materia
più noiosa ed estenuante in assoluto - gli giunsero,
attraverso la nebbia ovattata che gli foderava il cervello, le parole:
«Può
baciare la sposa».
Si riscosse,
come se qualcuno gli avesse dato un pizzicotto, giusto in tempo per
vedere Rodolphus e Bella avvicinare i visi e le loro labbra
congiungersi. Si era aspettato un formale sfiorarsi delle labbra,
perciò fu oltremodo stupito quando invece la sposa
afferrò per il bavero lo sposo e cominciò a
divorargli la bocca davanti agli sguardi scandalizzati dei presenti.
Sirius
gettò un’occhiata di striscio agli zii e dovette
soffocare un ghigno: Druella e Cygnus sembravano pietrificati. Avevano
gli occhi sbarrati fissi sulla loro figlia e sul genero, talmente
assorbiti nella loro “attività” da
sembrare totalmente ignari dello scompiglio che stavano suscitando.
Nonostante
detestasse sua cugina, Sirius dovette riconoscere che, quando voleva,
sapeva come mandare i Black fuori dai gangheri. Era sempre la solita.
Provocatrice come sua abitudine. In quel momento non poteva non
stimarla per l’ennesimo schiaffo morale che stava dando ai
suoi genitori e a secoli di tradizione impeccabile.
Beh, forse non sarà
proprio un matrimonio infelice, allora…
ridacchiò dentro di sé. Gli sposini
avevano trovato qualcosa per ingannare il tempo, a quanto
pareva… Sciamarono tutti fuori dalla chiesa. Per ultimi
venivano gli sposi.
Sirius si
fece largo nella pioggia di riso e di congratulazioni urlate a gran
voce, fino a trovarsi alle spalle di sua cugina. Si sporse a
sussurrarle all’orecchio: «Auguri e figli maschi,
signora Lestrange».
Con un
sorriso sarcastico le voltò le spalle, fendendo la folla.
Gli occhi
assassini di Bella lo seguirono mentre si allontanava.
5. Where no
Hope’s left
Prigione
di Azkaban
Mare
del Nord
Dicembre
1981
[Sirius]
Quando ebbe
occasione di rivedere Bella, molte cose erano cambiate. Tutto era
cambiato. Sia lui che lei non erano gli stessi di prima. Le vite di
entrambi erano rovinate, spezzate, perdute.
Sirius era da
un mese ad Azkaban quando gli parve di udire una voce familiare.
Pensò fosse impazzito. Pensò che i Dissennatori
gli avessero tolto anche quel po’ di sanità
mentale che gli rimaneva, e che ora sentiva voci nella sua testa. In
particolare una voce.
Gli suonava familiare, eppure non riusciva a collegarla a un nome, a un
volto. Era una voce di donna. Gli causava una stretta alla viscere,
senza potersene spiegare il perché.
Mosso dalla
curiosità, strisciò fino alle sbarre della cella.
Davano su uno dei lunghissimi, infiniti, angosciosi corridoi di
Azkaban, fatti di pietra viva, nera e lucida perché
stillante acqua, limacciosa, scavata nelle viscere stesse della terra.
Su quei corridoi, che si intersecavano gli uni con gli altri in un
labirinto da incubo da cui era difficile uscire, si affacciavano i
rettangolini di migliaia e migliaia di celle, che ospitavano
altrettanti corpi di dannati, come un alveare parecchio affollato.
Azkaban era
un posto terribile… Il più terribile che mente
umana potesse concepire. Il peggio del peggio.
Era enorme,
prima di tutto. Sufficientemente grande da contenere tutto il marciume
del mondo magico, sepolto vivo su quell’isoletta sperduta nel
gelido mare del Nord. Tutto lì era nero come giaietto,
compresa la terra. Tutto era intriso del puzzo di decomposizione e
morte. Tutto appassiva, sfioriva, imputridiva sotto il fiato
agghiacciante dei Dissennatori. Pattugliavano l’esterno e
l’interno della prigione. Passavano circa una decina di volte
al giorno davanti a ogni cella, scivolando silenziosi e orripilanti
lungo i corridoi, messaggeri di morte, fantasmi raggelanti. Il buio
vacuo sotto i loro cappucci risucchiava direttamente nel cuore
dell’inferno.
Ogni tanto si
fermavano davanti a una cella, sospesi a un passo dal pavimento, e
infilavano tra le sbarre una ciotola di ferro, il cui tintinnio
echeggiava sinistro. Pochi erano quelli che continuavano a nutrirsi
volontariamente.
Quando i
Dissennatori si avvicinavano alle sbarre, il malcapitato ospite si
ritraeva nell’angolo più lontano possibile da
esse, gemendo e singhiozzando, raccogliendosi le ginocchia al petto,
scosso dal tremito, finchè l’ombra non passava e
il cappio di terrore non si allentava.
Ma era un
incubo senza fine. Una tortura continua. Uno stillicidio che scandiva
l’agonia. Una morte lenta ma inevitabile.
Azkaban
echeggiava giorno e notte di urla. Urla disumane, atroci, da far
rizzare i capelli sulla nuca, urla di gente torturata dai propri
pensieri di infelicità e disperazione. E poi pianti
continui, lamenti, nenie, si fondevano in un unico canto di scoramento
e prostrazione, come l’uggiolio perpetuo di un cane bastonato
a morte.
C’era
dolore, c’era disperazione, c’era condanna.
Molti si
scagliavano con la testa contro le mura o le sbarre fino a
fracassarsela, trovando in tal modo liberazione dalla realtà.
Alcuni si
lasciavano morire di fame e di sete. Altri si impiccavano con le stesse
divise cenciose che indossavano. Quasi tutti recavano i segni di graffi
e morsi. Se li procuravano da soli, quando non c’era altra
via di uscita alla solitudine delle proprie teste che punire e
flagellare il proprio corpo. Alcuni tentavano di cavarsi gli occhi e,
non riuscendoci, si strappavano i capelli a ciocche. Tutti erano
scheletri viventi, tenuti insieme da chissà quale miracolo
divino che ingiungeva alle membra snervate di continuare a muoversi. Le
divise a righe bianche e nere ballavano addosso a quelle orride
marionette che, scalze, ognuna murata nella sua cella, condividevano la
medesima dolorosa rassegnazione.
Azkaban era
divisa in quattro ali: Nord, Sud, Est e Ovest. E poi c’era
l’ala di massima sicurezza, destinata ai criminali
più pericolosi, quelli che venivano tenuti sotto stretta
sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro. Sirius si
trovava in quest’ultima. Era il prigioniero numero 8371.
Gliel’avevano tatuato sul braccio. La sua matricola era anche
il numero della sua cella, che si trovava al secondo piano, corridoio
numero 3. Per giaciglio aveva solo il nudo pavimento di pietra umida.
Una minuscola feritoia si apriva in una parete: affacciava sul mare del
Nord, nero e agitato, illuminato di tanto in tanto da scoppi di lampi.
Pioveva
sempre su Azkaban.
Un temporale
dopo l’altro, di quelli che scuotevano le fondamenta, con il
vento che urlava e si gonfiava nella più piccola crepa dei
muri, penetrando fin nelle ossa. La furia degli elementi si accaniva
con particolare sadismo sulla prigione dei Maghi, al di sopra della
quale il cielo era sempre ingombro di nubi e l’aria livida e
opprimente.
Le ore di
luce erano scarsissime. La notte calava in fretta. Sembrava un
susseguirsi ininterrotto di buio senza speranza.
Era appunto
trascorso circa un mese – Sirius non ne era sicuro,
perché contare al buio le tacche che aveva inciso sul muro,
scheggiandosi le unghie, era alquanto difficile – quando
sentì quella voce. E, per la prima volta da quando era
entrato in quell’incubo, avvertì una sensazione
diversa dentro di sé. Un brevissimo palpito di vita.
Sirius si era
ormai abituato alle urla dei disperati che entravano per la prima volta
ad Azkaban, spesso per non uscirne mai più se non da morti.
Se solo avesse voluto, incollando il viso alle sbarre, avrebbe potuto
guardare in faccia quegli sfortunati, quando venivano costretti a
entrare nelle celle e lì venivano rinchiusi a doppia
mandata. Non riusciva a provare pietà per loro. Non riusciva
a provare nessun sentimento positivo. Azkaban gli risucchiava tutto,
lasciandosi dietro solo pelle e ossa, apatia e disperazione,
e la fredda rassegnazione che precede la morte.
Ma quel
giorno la curiosità fu più forte di lui.
Avanzò
carponi fino alle sbarre, trascinandosi sulle ginocchia lacerate.
Appoggiò la fronte al ferro gelido e sbirciò il
lungo corridoio, perlustrando a destra e a sinistra in cerca della
proprietaria della voce che, curiosamente, sembrava aumentare e
diminuire di volume, come se provenisse da una radio mal sintonizzata.
Era sicuro
che fosse una donna. La donna urlava. Ma non di paura o di dolore. Era
quello che aveva spinto Sirius a gettare un’occhiata, oltre
al fatto che quella voce gli ricordava qualcuno, anche se non sapeva
dire chi. Tutto il suo passato sembrava essere stato spazzato via,nel
momento in cui lo avevano gettato in quel buco, a morire come un topo.
Si
concentrò.
E poi un
suono che non aveva udito da molte vite, che mai, mai era stato udito
prima di allora lì ad Azkaban, risuonò in quel
covo di disperazione e di terrore.
Ma no, era
impossibile, se lo stava immaginando…
Ma quel suono
continuava ad echeggiare, rimbalzato ed amplificato contro le mura
scivolose e umidicce, rompendosi in mille echi e rimbombi nei corridoi
vuoti, sotto le volte abissali.
Era una risata.
Una risata che faceva gelare il sangue nelle vene. Perché
poteva appartenere solo a un folle.
Una lenta
consapevolezza si fece strada in lui. Forse sapeva di chi si
trattava… Si afferrò stretto alle sbarre, facendo
leva sulle braccia smagrite per sollevare di più il capo e
guardò giù.
Non poteva
vederli, ma in quel momento i cancelli spettrali di Azkaban si stavano
chiudendo silenziosamente, come fauci assassine, dietro un gruppo di
nuovi prigionieri. Questi vennero scortati difilato all’ala
di massima sicurezza. Quando furono all’imbocco del corridoio
numero 3, quello su cui aggettava la cella di Sirius, finalmente li
vide.
In mezzo ai
Dissennatori che li scortavano, Sirius contò quattro persone
incatenate le une alle altre. Erano a viso scoperto, perciò
poteva vederli bene.
Il suo
sguardo cadde su un piccoletto, un ragazzino, bianco come la morte, con
un ciuffo di capelli color paglia. Tremava così
violentemente che non riusciva a reggersi in piedi, tanto che due
Dissennatori lo avevano afferrato sotto le braccia per sostenerlo. Ma
la loro vicinanza sembrava terrorizzarlo ancora di più,
soffocargli le parole in gola. Non riusciva a emettere suono, ma
piangeva disperatamente e i suoi occhi erano sbarrati in incredulo
terrore. Al suo fianco c’era un uomo dai capelli neri che a
Sirius sembrava vagamente familiare. Quando spostò lo
sguardo su quello immediatamente a destra ricordò dove
l’avesse già visto. Uno era Rabastan e
l’altro Rodolphus Lestrange. E accanto a Rodolphus
c’era…
Sì.
Era lei. La risata
proveniva dalla sua bocca.
Mentre
avanzava diritta diritta tra le braccia della morte, Bellatrix rideva.
Perfino nell’istante che sanciva il suo ingresso nel girone
dei dannati, rifiutava il dolore.
La sua testa
era ben eretta sul collo come Sirius l’aveva sempre vista,
come al giorno del suo matrimonio. I suoi occhi sembravano smisurati e
folli, più di quanto fossero mai stati.
Più
tardi, sarebbe giunta notizia a Sirius del crimine che aveva portato i
quattro in cella. Avevano torturato fino alla pazzia l’Auror
Frank Paciock e sua moglie Alice.
Provò
un moto di autentico odio. Conosceva Frank e anche Alice. Erano stati
suoi compagni a Grifondoro. Erano tra le persone più miti e
gentili che avesse mai incontrato. Ricordando il viso tondo di Alice
Paciock e gli occhi serenamente pensosi di suo marito, il cuore gli
sprofondò.
Se la
immaginava, oh sì che se la immaginava Bella, troneggiare su
di loro bacchetta in pugno, scagliare una Cruciatus dopo
l’altra finchè non erano stati svuotati di ogni
barlume di coscienza. Probabilmente avevano dovuto fermarla,
trattenerla con la forza, per impedirle di annientare totalmente quei
due poveretti.
Era proprio
il genere di cosa che avrebbe potuto fare.
Una rabbia
sorda lo travolse, facendolo sentire vivo per la prima volta da quando
aveva messo piede lì dentro.
Quella notte
sentì le urla del ragazzino con i capelli color paglia che
era arrivato insieme a sua cugina. Le sue grida salivano come vapori
invisibili, perdendosi verso i soffitti remoti della prigione. Sirius
lo sentì invocare sua madre, a più riprese, ma la
pietà che aveva provato per lui vedendolo entrare si era
congelata quasi subito sotto il fiato di morte dei Dissennatori,
lasciandolo nuovamente vuoto e torpido.
Però
aveva smesso presto di agitarsi.
Straordinariamente
presto.
6. You can do
better. Really, Sirius?
Camera
della Morte
Ufficio
Misteri
Ministero
della Magia
Giugno
1996
[Bellatrix]
No. Stavolta
non ti permetterò di mettermi i bastoni tra le ruote, odioso
cugino. Stavolta vincerò io.
Sono a un
passo dal prendere la Profezia. La porterò al mio Signore e
lui mi ricompenserà oltre ogni immaginazione. Non sarete
né tu né l’insignificante Potter a
rovinarmi il momento che aspetto con ansia da così tanto
tempo. Stavolta non fallirò, lo sento.
Non mi ci
vuole molto per sbarazzarmi della Mezzosangue di mia nipote.
Farò i conti con lei in un altro momento.
Ti vedo
corrermi incontro e un ghigno mi si allarga sul viso.
Sì,
bravo, vieni qui. Vieni a giocare.
Proprio come
quando eri un moccioso presuntuoso e ti buttai giù dalla
scopa. Ma stavolta ti farò molto più male.
«Vuoi
giocare, cugino?»
La mia bocca
non smette di ridere.
Salazar!
quanto ho atteso questo momento. La resa dei conti. Io e te. Io e il
maledetto che mi ha rovinato la vita con la sua nascita.
Ma non
preoccuparti, ci penserò io a rispedirti
nell’inferno da dove sei venuto. Ho giurato di ucciderti
tempo fa, te lo ricordi? E Bellatrix Black non viene mai meno alla
parola data.
«Sei
venuto a salvare la pelle al tuo figlioccio, cugino? Potevi benissimo
risparmiartelo, non se la caverà stavolta il piccolo,
piccolo Potter.» Rido mentre devio la Maledizione che mi ha
scagliato con rabbia. «Piangerai quando il Signore Oscuro lo
ucciderà come un verme?»
Un getto di
luce scarlatta si infrange contro il Sortilegio Scudo che ho evocato
appena in tempo per proteggermi.
Bene, bene.
Non c’è dubbio che si stia scaldando, il
traditore. Le mie parole devono fargli più male di quanto
lasci trasparire.
«Oh,
aspetta…dimenticavo! Tu non assisterai allo spettacolo,
cugino, perché ti uccido. Adesso.»
Mi scaglia un
incantesimo dopo l’altro, costringendomi ad indietreggiare
sulla piattaforma al centro della stanza, in direzione di un
arco con un velo nero che si muove come dotato di vita propria.
Intorno a noi
la battaglia infuria più ruggente che mai, ma nessuno dei
due ci fa caso. Siamo troppo presi l’uno
dall’altra, troppo impegnati con ogni nostra energia a
spedirci maledizioni e fatture, cercando di farci più male
possibile. Ma siamo entrambi duellanti esperti: finora nessuno dei due
si è lasciato cogliere alla sprovvista.
Diciamo che
fino a questo momento l’ho lasciato attaccare, limitando a
difendermi, provocandolo con le parole e godendomi le sue reazioni
violente. Mi sto divertendo un mondo, non c’è che
dire.
Ma ora
è il momento di dargli una lezione. Di dimostrargli, ora
come allora, chi è il vero Black tra noi due. Chi
è veramentedegno.
Con la coda
dell’occhio scorgo un’alta figura vestita di grigio
piombare dall’alto sulla battaglia, e i miei compagni
più vicini urlare avvertimenti. Ma non m’importa.
Non m’importa chi è, che cosa sia venuto a fare.
L’unica cosa che vedo è il mio maledetto cugino,
che ha i miei stessi occhi, i miei stessi capelli, persino il mio
stesso ghigno stampato sulla faccia, schivare il fiotto di luce rossa
della mia bacchetta e deridermi.
«Avanti,
puoi fare di meglio!»
Se
c’è una cosa che odio è essere presa in
giro. Soprattutto da lui.
Gli sparo
addosso, fulminea, un secondo getto. So che non farà a tempo
a schivarlo, stavolta.
Il suo corpo
si solleva e ricade al di là del velo.
Poi
più niente.
"Vuoi ancora giocare con me,
piccolo Black?"
Te
l’ho promesso molti anni fa che il mio volto sarebbe stata
l’ultima cosa che avresti visto, prima di finire
all’Inferno. Bellatrix Black non tradisce mai le sue promesse.
L’urlo
di trionfo echeggia nella vasta stanza. Proviene dalla mia bocca.
Sono fuori di
me dalla gioia.
Ora non ridi
più, eh, cugino?
Fine
|