PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE
NOTA INTRODUTTIVA: Questa fanfiction è un’AU. È uno dei
miei primi tentativi, quindi spero che vi piaccia. Mi è stata ispirata dalla
lettura dello stupendo romanzo di Daphne Du Maurier “Rebecca la prima moglie”,
da cui è stato anche tratto un film di Alfred Hitchcock. Nella prima parte la
storia è piuttosto simile, ma vedrete che presto se ne discosterà in parecchi
punti. Aspetto con ansia i vostri commenti! Buona lettura!
DISCLAIMER: I personaggi di Capitan Tsubasa non appartengono
a me, ma al loro creatore Yoichi Takahashi, e non vengono qui utilizzati a
scopo di lucro.. La protagonista Kathleen e gli altri personaggi originali sono
invece creazione della sottoscritta.
CAPITOLO PRIMO
Non dimenticherò mai la prima volta che misi piede a Villa
Hutton. Non avevo mai visto, in tutti i miei venticinque anni di vita, una casa
altrettanto bella…che dire bella, era magnifica. Immaginatevi un’immensa
costruzione di pietra e mattoni, delle più belle sfumature del bianco e del
beige, a picco sulla scogliera e circondata da un giardino immenso e
lussureggiante. Un vero e proprio angolo di paradiso immerso nel verde.
Rimasi a bocca aperta, senza fiato, mentre l’automobile
percorreva l’interminabile vialetto di ingresso, un ordinato vialetto di terra
battuta circondato da piante e cespugli fioriti, e si avvicinava all’ingresso
dell’abitazione.
Una lunga scalinata in pietra terminava con un largo atrio
sul quale erano allineate almeno quindici persone, in rigorosa uniforme da
domestici, proprio di fronte ad un enorme portone di legno massiccio sul quale
erano raffigurate delle immagini che non riuscivo a distinguere.
“Questa è la mia casa, ora”, mi dissi, stentando quasi a
crederci. Lanciai uno sguardo ad Oliver, che era seduto accanto a me in silenzio,
e notai che aveva un’espressione quasi infastidita dipinta sul volto, mentre
scrutava attentamente la fila di persone che ci attendeva di fronte alla sua
casa.
-Questa dev’essere stata un’idea della signora Martin-,
disse in tono torvo, lasciando trasparire chiaramente tutto il suo disappunto.
Cominciai a sentirmi angosciata, come se solo in
quell’istante realizzassi che avrei dovuto affrontare immediatamente tutto il
plotone dei domestici, senza aver avuto neanche il tempo di dare una prima
occhiata all’abitazione. Iniziai a sudare freddo, mentre mi sforzavo di
respirare lentamente e di prepararmi dentro di me a sorridere e a cercare di
dare la miglior impressione possibile a tutte quelle persone. Mi sembrava che
mi stessero fissando quasi minacciose, e istintivamente la mia mano cercò
quella di Oliver per stringerla.
-Ho paura-, mormorai, con labbra tremanti.
Oliver mi lanciò un’occhiata rassicurante e sorrise. –Dovrai
affrontarli tutti adesso, Kat. Avrei preferito evitartelo, ma è andata così-. Tacque
per un istante e la sua espressione divenne più seria. –Ricordati che ora sei
tu la padrona qui. Non farti intimorire da nessuno-, mi raccomandò.
Era facile da dire per lui, molto meno facile da fare per
me. La mia vita era cambiata radicalmente nel giro di una settimana, in un modo
che non mi sarei mai e poi mai aspettata. La nuova vita che mi stavo
apprestando a cominciare a Villa Hutton non aveva nulla a che spartire con
quella che avevo condotto fino a quel momento. Ero animata dalle migliori intenzioni
e, soprattutto, sorretta dall’amore. L’amore intenso che provavo per mio
marito. Ero convinta di aver finalmente trovato il paradiso di cui mio padre mi
aveva tanto parlato quando ero bambina…come potevo immaginare che quella casa
così splendida sarebbe stata per me un vero e proprio inferno?
Mi trovavo in Normandia da quasi un anno quando conobbi
Oliver Hutton. Prima di allora avevo vissuto negli Stati Uniti, dove ero nata e
cresciuta in una semplice e modesta famiglia del West. Mio padre era vicario,
mentre mia madre insegnava in una scuola elementare. Poi, un anno prima, i miei
genitori erano tragicamente morti in un incidente e io mi ero ritrovata sola al
mondo. Per mia fortuna, o forse sarebbe più onesto dire per mia sfortuna, visto
come venivo trattata, la zia Audrey, una cugina ricca di mia madre, mi aveva
accolta in casa sua. Non come una figlia, sia ben chiaro, ma assumendomi come
istitutrice di sua figlia Elizabeth, una bambina viziata e, per dirla tutta,
piuttosto antipatica. La zia Audrey detestava gli Stati Uniti e, appena
seppelliti i miei genitori, mi ero trasferita in Normandia insieme a loro.
Occupavamo due grandi suite in uno dei più lussuosi alberghi di Le Havre,
proprio sulla spiaggia. La zia e suo marito risiedevano in una di esse, mentre
io dividevo l’altra insieme ad Elizabeth, che aveva appena compiuto quattordici
anni e mi trattava continuamente dall’alto in basso, ricordandomi in ogni
attimo che io non ero altro che una parente povera che si trovava lì grazie
alla benevolenza dei suoi genitori. Quanto la detestavo!
Fu una vera e propria mano santa per me l’influenza che
colpì quell’insopportabile bambina all’inizio di quell’ormai lontano mese di
maggio. Il dottore, accorso immediatamente a visitarla, poiché zia Audrey era
molto ansiosa per quel che riguardava la salute della sua unica figlia, disse
che avrebbe avuto bisogno di almeno una settimana di assoluto riposo per
potersi riprendere, e la zia sospese le nostre lezioni. Una mattina stavo
oziando sulla terrazza dell’albergo, sorseggiandomi tranquillamente una
spremuta d’arancia, quando vidi arrivare un’elegante automobile nera, la più
bella automobile che avessi mai visto, e da essa scesero uno chauffeur in
uniforme che si mise subito a scaricare tre grosse valigie e un uomo dall’aria
distinta e triste allo stesso tempo. Appena sceso dall’automobile, l’uomo diede
un’occhiata verso l’alto e i nostri sguardi si incrociarono per un istante.
Provai un tuffo al cuore, un’emozione fortissima che non avevo mai sentito
prima. Mi domandai chi fosse quell’uomo così bello ed elegante, e per quale
ragione avesse un’espressione così malinconica, così venata di sofferenza.
Indossava un paio di pantaloni grigi e una polo bianca, aveva dei magnifici
capelli neri, curati e lucenti, e gli occhi più scuri che avessi mai visto. Era
così affascinante…Fui la persona più felice del mondo quando, la stessa sera,
vidi che si sedeva a cenare in un tavolo poco distante da quello al quale stavo
cenando assieme agli zii (Elizabeth, fortunatamente, cenava in camera sua). Era
solo ed indossava gli stessi abiti con cui l’avevo visto quel pomeriggio.
Mangiava svogliatamente, sembrava completamente preso da altri pensieri. Non
riuscivo a fare a meno di osservarlo, il mio sguardo era come calamitato da
lui.
-Peter, guarda. C’è Oliver Hutton-, sussurrò la zia Audrey
al marito, accennando con lo sguardo proprio al mio uomo misterioso. Per poco
non mi strozzai con la mousse che stavo mangiando, mentre esultavo dentro di
me. La zia lo conosceva, avrei potuto sapere chi era! Per la prima volta in
vita mia, ringraziai il cielo di avermi dato zia Audrey.
Lo zio Peter guardò nella direzione indicata dalla moglie.
–Sì, è proprio lui. Che strano vederlo qui!-, disse poi, pulendosi
elegantemente la bocca con il tovagliolo.
Non riuscii più a trattenere la mia curiosità. –Lo
conoscete, zia?-, domandai, cercando a tutti i costi di mantenere un tono il
più possibile indifferente.
Zia Audrey mi guardò meravigliata, poi annuì. –Certamente.
Si chiama Oliver Hutton ed è un ricco proprietario terriero inglese. Alcuni
anni fa, quando lo zio lavorava in Inghilterra, abbiamo partecipato ad un paio
di ricevimenti presso la sua villa…oh, una casa magnifica, che tu, mia cara,
non potresti nemmeno immaginare. E lui era veramente un uomo molto distinto,
uno splendido padrone di casa. Per non parlare di lei, sua moglie-, mi
spiegò, con il solito tono sostenuto con il quale si rivolgeva a me, studiato
appositamente per rendermi consapevole della mia inferiorità, della mia
estraneità al loro mondo dorato.
Sentii un macigno piombarmi sul petto. Dunque era sposato…mi
meravigliai io stessa del disagio che avevo provato a questa notizia. Cosa mi
importava? Nemmeno lo conoscevo. Tuttavia, non potei fare a meno di domandarmi
dove fosse sua moglie, dato che era arrivato inequivocabilmente solo.
-Già…una donna fantastica, la signora Hutton. Poveretta…non
si meritava una fine così tragica-, proseguì lo zio Peter, senza accorgersi
dell’interesse con cui ascoltavo ogni sua parola.
Fine? Dunque la signora Hutton era morta. Ecco perché Oliver
era solo…ecco perché aveva un’espressione tanto triste. Poverino…sentii il
cuore stretto dalla compassione, mentre lo osservavo mangiare lentamente un
dolce nel suo cantuccio solitario.
-E’ morta?-, domandai timidamente.
La zia annuì. –Sì, poverina. Un anno fa, più o meno. È
uscita di notte con la sua barca ed è stata sorpresa da una terribile tempesta.
È scomparsa insieme al suo battello. Non sono stati più ritrovati né la barca,
né il corpo. Un colpo spaventoso per Oliver. Egli adorava sua moglie-, disse,
asciugandosi gli occhi che le erano diventati lucidi.
Oliver aveva già colpito profondamente la mia mente
romantica di fanciulla giovane e ingenua, destinata probabilmente a rimanere
zitella a causa della povertà, e il racconto della tragedia che era capitata a
sua moglie non fece che accrescere il mio interesse. Morivo letteralmente dalla
voglia di conoscerlo, di parlare un po’ con lui, ma non mi azzardavo a
chiederlo agli zii. Temevo che potessero subodorare qualcosa, e zia Audrey
sicuramente non ci avrebbe pensato due volte a dirmi che un uomo come Oliver
Hutton era decisamente al di fuori della mia portata.
Ma non ci fu bisogno dell’aiuto di zia Audrey, perché fu il
destino stesso a correre in mio aiuto, la mattina dopo.
Ero sul campo da tennis insieme alla zia Audrey. Detestavo
il tennis e solitamente evitavo di giocarci, limitandomi ad assistere alle
partite che la zia giocava insieme ad Elizabeth. Ma con Elizabeth ammalata, la
zia non aveva nessuno con cui giocare e quindi mi aveva praticamente costretto
a tenerle compagnia nel suo svago preferito. Ci stavamo appunto riposando al
termine di una partita, quando vidi Oliver Hutton, al quale non avevo fatto
altro che pensare per tutta la notte, fare il suo ingresso in campo con indosso
una divisa bianca, che lo rendeva maledettamente affascinante. Arrossì e non
osai avvicinarmi, mentre la zia Audrey avanzò verso di lui con un’espressione a
dir poco svenevole, tendendogli con sussiego una mano.
-Signor Hutton! Lei non immagina che piacere vederla qui-,
esclamò pomposa.
Oliver la guardò con una punta di imbarazzo, evidentemente
aveva qualche difficoltà a riconoscerla. Tuttavia, da vero gentiluomo, mascherò
la sua perplessità dietro un cortese sorriso, e ricambiò affabilmente la sua
stretta di mano. –Il piacere è mio, cara signora-, rispose, mentre potevo
immaginare dalla sua espressione che si stesse lambiccando il cervello nel
tentativo di ricordare dove diavolo avesse visto quella donna.
-Si ricorda di me, spero! Sono Audrey Lancaster, io e mio
marito abbiamo partecipato ad alcuni dei vostri ricevimenti, quando vivevamo in
Inghilterra-, proseguì la zia, senza battere ciglio al pensiero che Oliver
Hutton potesse non ricordarsi minimamente di lei.
-Oh, certo, certo, signora Lancaster! Che piacere
rivedervi-, mentì lui senza il minimo sforzo, oltrepassando la zia per accedere
finalmente al campo da tennis.
Naturalmente, Audrey non aveva intenzione di demordere, e
continuò a trotterellare al suo fianco. –Siete qui in vacanza?-, domandò, e io
pensai che aveva davvero poco tatto a rivolgere una domanda del genere ad un
uomo che aveva da poco perduto sua moglie.
Come avevo previsto, infatti, il bel volto del signor Hutton
si adombrò. –Più o meno. Avevo bisogno di allontanarmi da casa per un po’, per
riprendermi-, disse gelido, abbassando lo sguardo e fingendo di controllare le
condizioni della racchetta.
La zia sembrò essersi accorta della sua gaffe, e assunse
immediatamente un’espressione contrita e dispiaciuta. –Certo, che stupida!
Avete ragione! Perdonatemi, signor Hutton, non vi ho neanche fatto le mie più
sentite condoglianze! Sono stata davvero addolorata per la scomparsa di vostra
moglie-, disse, e io sentii un brivido percorrermi la schiena. Certo che zia
Audrey, nonostante le sue arie da gran dama, non possedeva proprio la benché
minima delicatezza.
Oliver divenne sempre più scuro in volto e abbozzò un
sorriso di circostanza. Mi chiesi quanto sforzo gli costasse quel gesto.
–Grazie, signora Lancaster. Ora scusatemi…non sono più molto avvezzo a stare in
società in quest’ultimo periodo, e vorrei dedicarmi al tennis-, rispose
freddamente, e la zia si irrigidì, comprendendo di aver fatto un passo falso
che poteva compromettere irrimediabilmente i suoi rapporti col signor Hutton.
Oliver si allontanò a passi lenti, e proprio in quel momento
il suo sguardo cadde su di me, che mi ero prudentemente tenuta a distanza dalla
zia Audrey. Gli sorrisi timidamente e, con mio grande stupore, egli ricambiò il
mio sorriso. Sentii il mio cuore battere furiosamente, come se volesse
esplodere nel mio petto.
-E’ vostra figlia?-, domandò indicandomi, rivolto alla zia
Audrey.
Vidi la zia assumere immediatamente un’aria esterrefatta,
anche se mai avrebbe ammesso la sua disapprovazione davanti a lui. Evidentemente
era costernata da come un uomo ricco e raffinato come Hutton avesse potuto
scambiare me, la parente povera, addirittura per sua figlia! –No-, rispose
tutta sdilinquita, -Mia figlia, povera cara, è a letto con l’influenza. Questa
è Kathleen, una mia nipote che ho assunto come istitutrice dopo che è rimasta
orfana-. Mentre mi presentava, mi guardava con aria di sufficienza, come a
voler trasmettere anche al signor Hutton la certezza della mia inferiorità,
della mia estraneità alla sua famiglia. Oliver evidentemente non parve pensarla
come lei, dato che mi si avvicinò e mi porse la mano. Gliela strinsi con gioia,
guardando trionfante la zia che sembrava a dir poco allibita.
-Molto piacere, Kathleen. Mi chiamo Oliver Hutton-, disse,
con un sorriso talmente suadente che mi sentii sciogliere. Penso che fu proprio
in quel momento che mi innamorai di lui, completamente, perdutamente,
irrimediabilmente. Se solo avessi potuto sapere quali sciagure mi avrebbe
portato questo amore, sarei fuggita mille miglia lontana da lui! Invece rimasi,
felice come una pasqua davanti alle attenzioni che questo affascinante
gentiluomo mi rivolgeva.
La zia Audrey volle a tutti i costi giocare una partita a
tennis con Oliver, e lui accettò probabilmente, e non lo dico con vanità, per
continuare ad osservarmi. Mentre giocava con mia zia, lo vedevo lanciarmi
lunghe occhiate e mi sentivo al culmine della felicità. La mia fantasia si era
già spinta mille volte oltre, e continuavo a immaginare il momento in cui il
signor Hutton mi avrebbe invitato a cenare al suo tavolo e avrebbe cominciato
timidamente a corteggiarmi. Poi mi ricordavo che lui aveva da poco perduto sua
moglie in maniera tragica e mi sentivo in colpa per i miei sogni ad occhi
aperti, così stupidamente infantili. Bastava però un’altra occhiata di Oliver
per cancellare i miei sensi di colpa completamente, e farmi cominciare
nuovamente a sognare. Giocava meravigliosamente a tennis, agile, scattante,
elegante. Al suo cospetto zia Audrey, che pure era una discreta giocatrice,
pareva un goffo sacco di patate.
Ero presa ad osservare con attenzione Oliver che ribatteva
impeccabilmente un servizio, quando udii un forte gemito e il rumore di
qualcosa che cadeva a terra. Vidi Oliver accorrere nella metà campo avversaria,
e immediatamente mi accorsi che la zia era distesa sul terreno dolorante, e si
stava massaggiando una caviglia con le guance rigate di lacrime.
-Zia Audrey, state
bene?-, domandai, accorrendo anch’io presso di lei.
Vidi la zia scuotere il capo con veemenza. La sua espressione
era furiosa, ma il dolore era talmente forte da impedirle di parlare, e
nonostante tutto lo ringraziai, perché sapevo che quando la zia era di cattivo
umore solitamente mi aspettava tutta una serie di rimproveri. Mi sarei sentita
terribilmente umiliata ad essere rimproverata davanti al signor Hutton.
-Deve trattarsi di una distorsione-, disse Oliver dopo
averle dato un’occhiata alla caviglia, -Aiutatemi a tirarla su, Kathleen-, e mi
sentii avvampare al solo udire il mio nome pronunciato dalla sua voce così
calda e carezzevole.
Annuii, anch’io come zia Audrey incapace di parlare, e feci
come mi aveva detto. Pochi minuti dopo la zia era seduta su una poltrona della
hall e Oliver le aveva fasciato la caviglia. Il malumore era passato e ora lei
lo stava guardando con evidente ammirazione.
-Come va adesso, signora?-, le domandò cortesemente, dopo
aver dato gli ultimi ritocchi alla fasciatura.
La zia sorrise estasiata. –A meraviglia. Siete stato
meraviglioso-, rispose.
Oliver abbozzò un sorriso. –Mi è capitato spesso, sapete.
Patricia…mia moglie…si faceva male spesso, giocando a tennis-, e si rabbuiò
immediatamente dopo aver pronunciato quel nome. Dall’intensità del suo sguardo
capii che stava pensando a lei, e provai una fitta di dolore al petto.
Patricia…dunque era così che si chiamava sua moglie. Doveva essere ancora molto
legato al suo ricordo, se solo pronunciarne il nome bastava a sconvolgerlo così
tanto.
-Bene, ora devo andare. Ci rivedremo questa sera a cena.
Tanti auguri di pronta guarigione, signora Lancaster-, disse Oliver dopo
qualche istante di silenzio, baciando cavallerescamente la mano di mia zia. Il
suo sguardo poi si rivolse a me, e mi sorrise. –Arrivederci, signorina
Kathleen-, mi disse in tono dolce, e io mi sentii mio malgrado avvampare.
-Arrivederci-, balbettai imbarazzata, sperando che zia
Audrey non si accorgesse del mio turbamento, o sarebbero stati guai seri.
A cena però il signor Hutton non scese e io mi sentii
sinceramente addolorata nell’immaginarlo solamente nella sua stanza, con la cena
che si era fatto portare dal ristorante, mentre mangiava in silenzio e pensava
a Patricia, oppure sfogliava l’album dei ricordi che aveva portato con sé e
piangeva guardando mille immagini felici di sua moglie, immagini che non
sarebbero mai più ritornate. Trascorsi la seconda notte insonne da quando lo
avevo conosciuto, pensando continuamente a lui e chiedendomi che cosa stesse
facendo in quel momento. La mattina dopo saltai la colazione e, approfittando
del fatto che la zia Audrey aveva la caviglia immobilizzata, mi recai da sola
al campo da tennis. Nulla da fare, era deserto.
Sentii il mio cuore sprofondare in una cupa amarezza, e a
capo chino mi stavo nuovamente avviando verso l’albergo, quando udii qualcuno
pronunciare il mio nome. Mi voltai di scatto, e quasi esplosi dalla felicità
nel rendermi conto che era stato proprio Oliver a chiamarmi. Accorsi verso di
lui sentendomi leggera come una farfalla.
-Siete sola stamani? Come sta vostra zia?-, mi domandò,
mentre io notavo che indossava la tenuta da tennis e teneva in mano la sua
racchetta.
-Sì, sono sola. La zia sta meglio, ma ha ancora la caviglia
immobilizzata e non può giocare. Mia cugina Elizabeth è ancora a letto con
l’influenza e io mi sto annoiando a morte-, risposi in tono brioso, cercando di
far fruttare tutta la sfrontatezza dei miei venticinque anni appena compiuti.
Oliver sorrise. –Anch’io sono solo e mi sto annoiando. Che
ne dite di una partita a tennis insieme?-, mi domandò.
Inutile dire che accettai immediatamente, anzi, era proprio
con quello scopo che ero scesa sul campo da tennis nonostante l’indisposizione
di zia Audrey. Avevo sempre detestato il tennis, ma ora sentivo di adorarlo se
mi dava la possibilità di trascorrere del tempo in compagnia di Oliver Hutton.
Al termine della partita, andammo nel bar dell’albergo per bere qualcosa
insieme. Fu così che cominciò tra di noi un piacevole rapporto d’amicizia, e da
quel giorno passammo un sacco di tempo assieme. Mentre la zia Audrey ed
Elizabeth si riprendevano dai rispettivi malanni e lo zio Peter si dedicava ai
suoi affari, io e Oliver giocavamo a tennis insieme, pranzavamo e cenavamo
insieme, chiacchieravamo insieme e facevamo lunghe passeggiate. Il tempo
passava ed io mi sentivo sempre più innamorata di lui. Anche se non avevo mai
amato nessun uomo prima di allora, mi bastarono pochi giorni per dare nome a
quell’ardente sentimento che nutrivo per il signor Hutton, a quel desiderio
struggente di essere continuamente al suo fianco. Lo amavo da impazzire ed ogni
momento trascorso insieme a lui era per me felicità allo stato puro. Era un
uomo interessante, piacevole, insieme potevamo conversare di mille cose. Solo
di una cosa non parlammo mai: di sua moglie, Patricia. Io non osavo chiedere
nulla e lui non sfiorò l’argomento nemmeno una volta. Conscia del fatto che per
lui si trattava sicuramente ancora aperta, mi rassegnai di buon grado alla
presenza di questa zona d’ombra nel nostro rapporto. Ero disposta ad accettare
qualunque cosa pur di restare al suo fianco, e pregavo soltanto che Oliver si
innamorasse di me almeno un pochino. Non m’importava che mi amasse quanto aveva
amato Patricia e nemmeno che mi amasse quanto lo amavo io. Bastava solamente un
pochino. L’attenzione e la simpatia che lui manifestava nei miei riguardi
tenevano accesa in me la fiammella della speranza, anche se Oliver non ebbe mai
verso di me il benché minimo atteggiamento romantico.
La situazione era comunque per me molto positiva, quando la
zia Audrey mi diede una notizia che gradii alla stregua di una tegola in testa.
Invitandomi una sera nella sua stanza, circa una settimana dopo il suo
incidente sul campo da tennis, mi spiegò che ormai Elizabeth era guarita e che
gli affari dello zio in Normandia erano terminati, quindi che mi preparassi
perché era imminente il nostro trasferimento a Parigi, dove zio Peter era
atteso per un incarico molto importante. Mi sentii morire, poiché realizzai
immediatamente che non avrei mai più rivisto Oliver. Non ebbi però il coraggio
di dire nulla alla zia, che sicuramente non avrebbe pensato neanche per un
istante di buttare all’aria i suoi piani per fare un favore a me, e neanche
potevo sperare di non andare via con loro, perché non avevo altro modo di
mantenermi. La zia mi dava vitto, alloggio e un piccolo stipendio come
istitutrice di Elizabeth, e senza di lei io non avrei avuto nemmeno un tetto
sopra la testa. Non potevo certo rimanere da sola in Normandia, anche se lo
avrei desiderato con tutto il mio cuore.
Quella sera, come di consueto, cenai con Oliver, ma non ebbi
il coraggio di dire nulla nemmeno a lui. Temevo di scorgere nei suoi occhi
indifferenza di fronte a quella notizia che per me rappresentava una vera
catastrofe, perché mi separava per sempre da lui. Egli però dovette aver capito
che ero diversa dal solito, perché seguitava a fissarmi con espressione
interrogativa.
-Cosa avete?-, mi chiese infine, dopo aver tentato invano di
farmi uscire dal mio ostinato mutismo.
Mi strinsi nelle spalle. –Niente-, risposi, in modo
tutt’altro che convincente.
Oliver era scettico. –Sentite, Kathleen, credo di conoscervi
abbastanza bene ormai. Stasera avete qualcosa. Siete troppo diversa dal
solito-, insistette.
Sospirai, e mi disposi a raccontargli tutto senza farmi
troppe illusioni sulla sua reazione. Dovevo ammettere che era piuttosto
improbabile che Oliver scoppiasse in lacrime alla notizia della mia partenza e
mi implorasse di restare al suo fianco, anche se aveva mostrato di provare
simpatia per me. In tono mesto, gli dissi che tra pochi giorni sarei partita
per Parigi con la famiglia di mia zia, poiché gli affari di mio zio in
Normandia erano terminati. Egli mi ascoltò in silenzio, senza battere
minimamente ciglio, e sentii una stretta al cuore.
-Capisco…-, disse infine, sorseggiando del vino. Ecco, non
gliene importa niente, pensai, sentendomi sommergere dall’amarezza. Tra pochi
giorni ci saremmo salutati e io non lo avrei mai più rivisto. Magari ci saremmo
scambiati gli indirizzi e promessi di riscriverci. Io gli avrei mandato una
lettera al mio arrivo a Parigi, e chissà, forse avrei atteso invano una sua
risposta mentre i miei giorni proseguivano sempre uguali, insieme alla zia
Audrey ed Elizabeth. Lui invece, dove sarebbe stato lui? Sicuramente a casa
sua, a Villa Hutton, circondato dalle cose che erano appartenute a Patricia e
dai suoi ricordi…o forse avrebbe continuato a viaggiare, finché il dolore per
la perdita di sua moglie non si fosse mitigato nel suo cuore.
Mentre io ero immersa in questi foschi pensieri, Oliver
appoggiò il bicchiere sul tavolo e mi guardò dritto negli occhi. Arrossii di
fronte all’intensità di quello sguardo.
-Siete felice con vostra zia, Kathleen?-, mi domandò quasi
bruscamente. Il suo sguardo era tranquillo, pressoché impassibile.
Sospirai. –Che importa? Non ho altra possibilità. Non posso
scegliere la vita che preferisco-, dissi tristemente, pensando a quanto sarebbe
stato bello poter dire addio per sempre ai Lancaster e cominciare una nuova
vita, finalmente libera. Una nuova vita, magari insieme ad Oliver Hutton…ma
tutto ciò era destinato sicuramente a rimanere solo un bel sogno.
-Sbagliate. Un’altra possibilità la avete eccome-,
insistette.
Mi accigliai. –E quale? Non ho denaro per mantenermi, signor
Hutton, questa è la triste verità. L’alternativa a stare con la zia è finire
sotto un ponte-.
Egli scosse il capo e mi prese una mano. Sobbalzai
violentemente. La sua espressione era determinata, ma in fondo anche dolce.
Sentii un profondo languore invadere tutto il mio corpo e la mia anima, ed
istintivamente ricambiai la sua stretta.
-Potreste venire a villa Hutton insieme a me-, disse, dopo
un periodo di silenzio che a me parve interminabile.
Una parte di me esultò, e per un attimo fui sul punto di
rispondere immediatamente di sì. Andare a Villa Hutton avrebbe significato
rimanere con lui per sempre. Mi imposi di rimanere con i piedi per terra, e
assunsi un’espressione fredda e distaccata. –Avete bisogno di una segretaria o
qualcosa di simile?-, domandai con circospezione.
Oliver scoppiò in una fragorosa e spontanea risata. Era la
prima volta che lo vedevo ridere così di gusto, e non sapevo se sentirmi
contenta oppure offesa. –Ma no, sciocchina. Vi sto domandando di sposarmi-,
precisò, accarezzandomi piano le mani.
Il mio cuore si fermò per un istante, e rimasi letteralmente
paralizzata sulla sedia. Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Non potevo
aver veramente udito quel che avevo pensato di udire. Era sicuramente uno dei
miei soliti sogni ad occhi aperti e presto sarebbe arrivato qualcuno, magari
uno dei camerieri, a svegliarmi, e mi sarei resa conto senza ombra di dubbio
che Oliver Hutton non mi aveva affatto proposto di sposarlo. Sbattei
violentemente le palpebre una, due, tre volte, ma il viso di Oliver dolce e
sorridente non scomparve. O cielo, era tutto vero! Era vero! Oliver Hutton mi
aveva davvero chiesto di diventare sua moglie! Sua moglie! Era sì il mio solito
sogno ad occhi aperti, ma questa volta si stava realizzando! Mi sentii
travolgere da un’ondata di felicità, e solo l’espressione seria di Oliver mi
trattenne dal buttargli le braccia al collo. Lo guardai sprizzando gioia da
tutti i pori ed annuii, incapace di parlare perché un nodo mi serrava la gola.
-Accettate?-, domandò lui, continuando a sorridermi.
-Certo!-, esclamai, sentendomi la ragazza più felice e
fortunata della terra, e già immaginando nella mia mente la vita meravigliosa
che mi attendeva al suo fianco, a Villa Hutton. Se solo avessi saputo!
-Perfetto. Dopo cena verrò nella suite a parlare con vostra
zia-, disse Oliver con aria soddisfatta, e ricominciò a mangiare come se nulla
fosse.
Per un attimo provai un pizzico di delusione. Lui non mi
aveva parlato di amore, non aveva fatto alcuna dichiarazione romantica…nemmeno
aveva tentato di baciarmi. Mi aveva chiesto di sposarlo e aveva semplicemente
aggiunto che avrebbe chiesto ufficialmente la mano alla zia. Cercai di
stemperare la mia delusione dicendomi che la vita reale non era come i romanzi
d’amore che tanto amavamo leggere io e mia madre, quando ancora vivevo negli
Stati Uniti, ma non potevo non sentirmi defraudata di qualcosa. Volevo essere
razionale e mi ripetevo che non c’era nulla di strano, Oliver aveva almeno
dieci anni più di me ed era già stato sposato (ecco, il ricordo di Patricia si
insinuava nuovamente nel mio cuore come una lama arroventata), non era certo il
tipo da romantiche proposte di matrimonio in ginocchio. Lo amavo e lo avrei
sposato, e avremmo vissuto insieme a Villa Hutton, per sempre felici e contenti
come i principi e le principesse delle favole. Una favola, mio Dio…una favola…
Avrei dato qualunque cosa per vedere la faccia di mia zia
Audrey quando Oliver le avrebbe annunciato il nostro prossimo matrimonio, ma il
mio futuro marito mi negò anche questo piacere. Arrivati davanti alla porta
della suite, disse che sarebbe entrato lui per primo a parlare con la zia, ed
io sarei entrata solamente dopo. Rimasi una buona mezz’ora da sola sul
pianerottolo, tormentandomi al pensiero di cosa avrebbe detto Oliver, di quale
sarebbe stata la reazione di zia Audrey. Quali parole avrebbe usato? “Voglio
sposare Kathleen, siamo molto innamorati”? Queste, queste sarebbero state le
parole che avrei voluto sentire. Ma chissà perché, nel mio cuore sentivo che
non le avrebbe affatto usate. Chissà perché voleva sposarmi..forse perché ero
buona, docile, simpatica, e avrei potuto tenergli buona compagnia. Forse perché
era stanco della vedovanza.
I miei pensieri furono interrotti dal rumore secco di una
porta che si apriva, ed Oliver uscì dal pianerottolo con aria soddisfatta.
–Tutto a posto, tua zia ha dato il suo consenso. Vorrebbe parlarti un attimo-,
mi disse tranquillamente, come se avesse appena concluso brillantemente una
trattativa di affari.
Mi accinsi ad entrare nella stanza di zia Audrey, ma prima
mi voltai verso il mio fidanzato (che turbamento mi suscitava chiamarlo con
questo nome!) e lo guardai intensamente. –Perché vuoi sposarmi?-, gli chiesi,
usando per la prima volta il tu nel rivolgermi a lui.
Oliver rifletté per un istante, quasi soppesando le parole.
–Perché mi piaci, Kathleen. Sei la prima persona che mi suscita sentimenti
positivi da quando… da molto tempo-, si corresse bruscamente.
Chinai lo sguardo. Sapevo che avrebbe voluto dire “da quando
Patricia non c’è più”, ma non aveva osato per rispetto nei miei confronti.
-Il pensiero di vederti partire e di rimanere senza di te mi
era insopportabile, per questo ti ho chiesto di sposarmi-, proseguì, e mi
guardò con dolcezza.
Non era una vera e propria dichiarazione d’amore, pensai con
un pizzico di delusione, ma per il momento dovevo accontentarmi. Avevo tutta
una vita per farlo innamorare perdutamente di me, l’importante allora mi
sembrava aver raggiunto quel “pochino” al quale avevo tanto aspirato.
Sorrisi al mio futuro marito ed entrai nella stanza. La zia
mi stava aspettando mollemente sprofondata in poltrona, e non appena mi vide mi
squadrò con espressione severa.
-Sei sicura di quel che fai?-, mi domandò bruscamente.
Annuii, cercando di non far trasparire in alcun modo le
insicurezze che seguitavano a torturarmi. –Sì. Lo amo molto, zia-.
Zia Audrey sospirò con aria grave e per un attimo mi parve
sinceramente preoccupata per me. –Tu sei una bambina romantica e ingenua,
Kathleen, e nemmeno immagini quel che ti aspetta. Lui è più anziano di te ed è
già stato sposato-, mi rammentò.
Di nuovo il pensiero di Patricia. Lo allontanai, pur restando
consapevole che avrei dovuto combattere con quel fantasma per il resto dei miei
giorni. –Solo di dieci anni, zia. E sua moglie è morta-, ribattei con
testardaggine.
Un altro sospiro da parte della zia. –Lui vive in un mondo
molto diverso da quello nel quale sei cresciuta tu. Sarà molto dura per te
ambientarti-, proseguì.
La odiai con tutte le mie forze. Perché continuava a
rigirare il dito nella piaga, andando a toccare proprio i miei punti deboli?
Cercai di convincermi che era solo invidiosa per la grande fortuna che mi era
toccata, sposare un uomo così affascinante e ricco, proprio io, la parente
povera!
-Mi adatterò-, insistetti, sostenendo il suo sguardo con
fierezza.
La zia abbassò lo sguardo, vinta. –Lo spero proprio,
bambina. Lo spero proprio-, disse, e poi mi congedò, annunciandomi che Oliver
aveva deciso che saremmo partiti il giorno successivo.
Fu senza il minimo dispiace che salutai zia Audrey, zio
Peter ed Elizabeth. Ero grata loro per avermi accolta dopo la morte dei miei
genitori, ma anche ben contenta di lasciarli, sicura che mi aspettava una vita
migliore. Solo più avanti avrei ricordato le parole di mia zia, e mi sarei resa
tristemente conto di quanto esse erano state profetiche.
Il nostro matrimonio fu celebrato a Dover due giorni dopo la
proposta di Oliver. Fu una cerimonia molto semplice, alla presenza solamente di
un giudice di pace e di sua moglie. Niente chiesa, niente invitati, niente
confetti, niente abito bianco. Niente di niente.
-Una cerimonia del genere io l’ho già avuta-, mi aveva detto
Oliver freddamente, quando gli avevo domandato se ci saremmo sposati col rito
religioso oppure no. Mi sentii profondamente ferita, sia perché egli pareva
considerarmi inferiore rispetto a Patricia, sia perché per me, figlia di un
vicario, sarebbe stato molto importante sposarmi in chiesa. Ma decisi di fare
buon viso a cattivo gioco, consolandomi col pensiero che sarei diventata la
moglie di Oliver, cosa che avevo desiderato dal primo momento che l’avevo
visto.
Ci fermammo per la notte in un lussuoso albergo di Dover,
mio marito aveva deciso che la mattina dopo saremmo subito ripartiti in
direzione di Villa Hutton, che, mi spiegò, si trovava in Cornovaglia. Niente
viaggio di nozze, dunque, pensai incassando l’ennesima delusione, dopo aver
sognato una meravigliosa vacanza in qualche spiaggia della Costa Azzurra, io e
lui da soli, felici come due sposini.
Attendevo con ansia la prima notte di nozze, ignorando che
mio marito aveva prenotato per noi due camere separate. Trascorsi ore ed ore a
prepararmi e farmi bella, indossando una camicia da notte bianchissima con una
profonda scollatura che avevo comprato in gran segreto in una boutique di
Dover, truccandomi sapientemente il volto e raccogliendo i capelli in uno
chignon per assumere un’aria più adulta. Durante i preparativi, fantasticavo su
come sarebbe stato magnifico essere stretta tra le forti braccia di Oliver,
baciata dalle sue labbra che avevo solamente potuto sfiorare al termine della
nostra cerimonia nuziale, a quanto sarebbe stato meraviglioso diventare una
cosa sola con lui e dormire abbracciati tutta la notte. Ma le ore passavano e
mio marito non arrivava. Trascorsi la notte insonne, girandomi e rigirandomi
tra le lenzuola di seta fresche e profumate e versando lacrime amare per quel
matrimonio che ora più che mai sembrava essere una farsa. Sarebbe stato sempre
così, per tutta la mia vita? La nostra sarebbe stata solamente un’unione di
facciata, e Oliver si aspettava da me soltanto che gli tenessi compagnia,
docile come un animale domestico?
La mattina dopo scesi a colazione pallida e tirata. Oliver
era già seduto al tavolo, tranquillo e fresco come una rosa, e stava
sorseggiando una spremuta d’arancia e sfogliando un quotidiano. Mi accolse con
un sorriso luminoso, e mi baciò dolcemente su una guancia. Mi sentii bruciare
dall’umiliazione…erano ben altre le attenzioni che avrei desiderato ricevere da
mio marito.
-Buongiorno, mia cara. Hai dormito bene?-, mi chiese
gentilmente, ma le sue parole mi suonarono come una squallida presa in giro.
Lo squadrai freddamente, cercando di controllare il tremito
della mia voce. –Ti ho aspettato invano tutta stanotte. Perché non sei venuto?
Era la nostra prima notte di nozze-, dissi in tono di rimprovero.
Mio marito mi sorrise senza scomporsi. Mi accarezzò piano
una guancia e poi mi strinse una mano, guardandomi con espressione affettuosa.
–Non volevo ferirti, tesoro. Ma voglio che la nostra prima notte di nozze
avvenga a casa, a Villa Hutton, non in un alberghetto qualunque-, mi rispose,
in tono pacifico ma determinato.
Sentii la mia rabbia sbollire lentamente davanti alla
dolcezza del suo sguardo e mi rilassai, cercando di comprendere le sue ragioni.
Magari era giusto così, mi ripetevo, e nel giro di un’ora ero praticamente
convinta che Oliver avesse pienamente ragione. Sarebbe stato molto più bello
unirci per la prima volta a casa nostra, il luogo dove avremmo trascorso il
resto dei nostri giorni insieme, dove si sarebbe svolta la nostra meravigliosa
favola. Cominciai a sentirmi impaziente di raggiungere Villa Hutton, certa che,
una volta giunti lì, la nostra esistenza in comune avrebbe cominciato a
scorrere liscia come l’olio e il nostro amore sarebbe definitivamente esploso.
Non potevo sapere allora quanto mi sbagliavo…
Fine primo capitolo