Note:
Questa
allucinante one-shot è
stata una specie di violenza mentale da parte di Eterea, che non
tiene mai la bocca chiusa e mi strappa alla vita sociale e agli studi
lanciando malandrine ispirazioni. A lei e a tutte le Muse fissate
quanto me con Once Upon A Time dedico quest'insana
follia/speranza/allucinazioni, perché sapete tutti quanto
ami Archie
Hopper.
Ripeto
qui nel caso non sia chiaro: SPOILER più
o meno grossi della puntata 02x10, The
Cricket Game – se non
l'avete vista siete dei pazzi, perché era da un bel po' che
la
seconda stagione non mandava così tanti feelings.
Altre
note? Uhm, sì, ecco, c'è un accenno Red/Jiminy
così spudorato che, francamente, non dovrei nemmeno
chiamarlo
accenno, ma chissenefrega.
I personaggi non appartengono a me, ovviamente, giacché non
scrivo a scopo di lucro: sono tutti della ABC, dei fratelli Grimm, di
Collodi, di Barrie e di tutta quella gagliarda ciurma di burloni che
hanno creato quella cosa meravigliosa che chiamiamo letteratura per
l'infanzia.
*
“Com'ero
buffo, quand'ero un burattino!”.
da
Le
avventure di Pinocchio, Collodi.
Sii te
stesso
La cosa giusta verrà da
sè
Hook
non era mai stato un uomo particolarmente paziente. Non lo era prima
di diventare Hook e di certo non lo sarebbe
diventato in
seguito, ma Cora era stata piuttosto illuminante. Rumpelstiltskin
aveva riacquistato l'antico potere e per quanto il capitano fosse
avvezzo alle imprudenze, non si sarebbe mai scagliato contro un
simile nemico senza un'arma degna del conflitto. Lo aveva
già fatto
una volta – e mille volte nei suoi incubi, dove il dolore
sembrava
sfrigolare sotto il suo uncino come un eterno monito.
“ Ci vorrà un po' di
tempo...” gli aveva assicurato Cora. “Ma alla fine
questo grillo
canterà”.
Le
aveva creduto d'istinto: Archie Hopper – Jiminy
Cricket,
un tempo –
non sembrava certo un nemico all'altezza del capitano Hook.
Aveva
vinto le guerre
contro gli indiani della temibile Giglio Tigrato, contro le sirene,
contro i Bambini Sperduti... e ora che Peter Pan giaceva nel suo
corpo di immortale ragazzino negli abissi degli oceani
dell'Isola-Che-Non-C'è non c'era più nessuno che
potesse
fronteggiarlo. C'era un'unica battaglia che non aveva ancora potuto
vincere, e l'uomo con il volto sanguinante e lo sguardo spento in
ginocchio ai suoi piedi era l'ultima chiave in grado di condurlo al
trionfo.
“ Ci
vorrà del tempo...”.
Ma
Hook, di tempo, ne
aveva già lasciato correre abbastanza. Non era un uomo
paziente,
lui... e quell'insetto si faceva di minuto in minuto sempre
più
fastidioso. Fece un drammatico sospiro e iniziò a
passeggiare avanti
e indietro per la stiva. Alla luce delle fiamme accese da Cora, il
suo uncino sembrava luccicare. Il sangue scivolava lentamente lungo
la sinuosa curva di ferro e gocciolava sul legno della nave.
«Ti
va se ci proviamo ancora una volta... Jiminy Cricket,
giusto?»
sibilò con un sorriso mellifluo. «Rumpelstiltskin
può usare la
magia, io no. Come faccio?».
La
schiena di Jiminy Cricket tremava ad ogni respiro. Sulla sua camicia
azzurra, nel punto in cui era stata cucita la manica, si stava
espandendo una scura chiazza rossiccia. Un'altra era comparsa sul
fianco sinistro, pochi centimetri sopra la cintura, e il bavaglio
calato fino al mento era ormai impregnato del sangue che colava dalla
bocca, dal naso e dalla tempia. Una delle lenti dei suoi occhiali era
andata in pezzi.
Eppure
ancora taceva, ancora continuava a fissarlo con quello sguardo
così... penoso. Aveva paura di lui,
certo: Hook era
bravissimo a leggere il terrore negli occhi della gente, ma il modo
in cui quell'insetto lo osservava andava oltre la paura.
Compassione.
Il
suo silenzio iniziava seriamente a indispettirlo, quando l'uomo
decise di aprire la bocca. Le sue prime parole suonarono più
simili
a un rantolo di dolore, ma Hook era così felice di sentirlo
finalmente cantare da non desiderare di mettergli
fretta.
«U-una...».
Hook
si inginocchiò davanti a lui con un sopracciglio inarcato.
Il cuore
gli stava andando a mille. Presto il proprio uncino avrebbe
assaggiato la gola di Rumpelstiltskin... c'era quasi, era a un
passo... quasi riusciva a immaginarlo cadere straziato suoi suoi
stivali.
«Una
volta...».
Se
solo quel grillo ci avesse meno tempo...
«Una
volta ero Jiminy Cricket... il g-grillo che p-parlava»
mugugnò
flebile. Le sue labbra erano arricciate in un sorriso timido. Quando
sollevò il viso sul proprio aguzzino, nei suoi occhi si era
aggiunta
una scintilla divertita. «Ma ora... ora non lo sono. Io non
p-parlo».
Fu
troppo. La punta dell'uncino scintillò come il bagliore di
una
pistola e si conficcò in profondità nella sua
coscia. Jiminy
Cricket cacciò un grido di completa agonia e si
accasciò su se
stesso, con le braccia ancora legate al gancio che lo sorreggeva e le
lacrime che si mescolavano al sangue. Tremava come una foglia, ma
ancora taceva.
Come
diavolo era possibile che un insetto fosse così testardo?
«Farsi
del male è davvero così divertente?»
gli disse con voce stanca
Hook, rigirandosi l'uncino insanguinato davanti al viso. «Io
non
credo. Parla e basta, amico: così risparmiamo tanto le tue
sofferenze quanto il mio tempo».
«P-perché
vuoi sapere...» iniziò, ma poi emise un altro
lungo gemito e le
parole si sciolsero nell'aria. «Rumpelstiltskin...
p-perché?».
«Questi
non sono certo affari che ti riguardino, grillo».
«Vendetta»
mormorò Jiminy con un sorriso triste.
La
sua voce si era quasi persa nel frastuono della tempesta che stava
scuotendo la cittadina di Storybrooke. Era poco più di un
sussurro
mangiato fra i denti, eppure colpì Hook con più
forza di quanto non
avrebbe dovuto. Succedeva in continuazione: “vendetta”,
e all'improvviso il volto di Milah si affacciava davanti ai suoi
occhi, il suo sguardo che si accendeva di eccitazione nel sentirlo
pianificare le avventure che avrebbero vissuto per ogni mare, e poi
era fra le sue braccia, il volto esangue, e la sua voce si spegneva
sempre nello stesso modo.
“ Ti
amo”.
Jiminy
Cricket osservò attento la sua reazione. Il dolore che lo
stava
attanagliando era lancinante, ma doveva trovare il modo di porre fine
a quella follia – doveva distrarsi dalla coscia, dal fianco e
dalla
spalla che stavano andando in fiamme. Non ricordava di aver mai
provato un dolore del genere, nemmeno quando Pinocchio lo aveva
colpito con quel grosso martello o quando la Volpe lo aveva
stritolato fra le fauci. Era un dolore così diverso,
quello...
sentire il sangue colargli lungo il viso, i polmoni soffocati e ogni
centimetro del suo corpo chiedere pietà era una sensazione
così
umana...
una volta il guinzaglio di Pongo si era attorcigliato attorno alle
caviglie e si era ritrovato steso sul marciapiede davanti allo studio
nel giro di un secondo. Una contusione da nulla e un grosso
bernoccolo, aveva detto il dottor Whale, e alla fine si era risolto
tutto con una fragorosa risata da Granny's.
Archie
Hopper non
ricordava di aver mai sanguinato e Jiminy aveva trascorso
così tanti
anni nel corpo di un grillo da essersene dimenticato. Faceva male.
Faceva più male di quanto non avrebbe mai potuto immaginare,
eppure
doveva fare qualcosa. Aveva gli occhiali, due gambe e i capelli
rossi, ora, ma rimaneva sempre la voce della coscienza. Lo era, c'era
poco da mentire.
Quando
aveva cercato di
abbandonare Storybrooke, Red lo aveva quasi ammazzato.
“ Tu sei la coscienza
del regno, Archie, un membro del concilio di Snow e
Charming!”
aveva ruggito furiosa. “Come diavolo ti è saltato
in mente di
superare i confini della città!? Avresti dovuto immaginare
che la
gente ti avrebbe seguito!”.
“ Io non sono più
Jiminy Cricket!”.
Lo
schiaffo gli aveva
colpito prima l'onore e poi la guancia. Il tono deluso della voce di
Red aveva fatto il resto.
“ No, non lo sei... ma
un tempo eri la creatura più ragionevole che conoscessi.
Chiamami
quando la becchi in giro, perché ho bisogno di
lei”.
Era
stata rude e
violenta come un pugno in faccia, ma aveva capito. Aveva tradito se
stesso tante volte in quegli ultimi ventotto anni, ma ora era tutto
diverso: ora c'era Jiminy Cricket, c'era l'ombra di ciò che
era
stato, c'era la sensazione di non essere poi così tanto
lontano
dalla persona che avrebbe voluto essere. Dopo tutto ciò che
era
accaduto, c'era di nuovo la speranza di potercela fare... la speranza
di poter tornare a essere l'uomo che aveva vissuto nel corpicino di
un grillo che parlava.
«La
vendetta ti
renderà ciò che hai p-perduto?».
Hook
si voltò di
scatto, gli occhi ridotti a due fessure e la bocca serrata in
un'unica linea severa. Si passò la lingua sul labbro
inferiore e
scosse il capo con aria supponente.
«No,
ma stai certo che
mi darà qualcos'altro».
Jiminy
alzò il capo.
Alla luce delle fiamme il suo volto sembrava sempre più
cereo, il
sangue continuava a insozzargli la camicia, ma il suo sguardo era
penetrante. Hook fece una smorfia: avrebbe tanto voluto schiacciarlo,
lui e la sua aria da ragionevole primo della classe.
«E
cosa vincerai,
c-capitano? Sono... sono assai c-curioso».
«Il
cuore di
Rumpelstiltskin infilzato nel mio uncino» sibilò
furioso il pirata,
con il braccio monco teso verso l'uomo in ginocchio. «Ecco,
la mia
vittoria: un cuore per un cuore».
Per
qualche secondo
nella stiva non risuonò che il rumore della pioggia sul
legno della
nave. Quando tornò a parlare, la voce di Jiminy Cricket
aveva un
suono triste e distante quanto il temporale.
«Devi...
devi averla
amata davvero... molto».
Hook
trasalì.
«Qual
è il punto
debole di Rumpelstiltskin? Dove lo trovo?».
«La
vendetta r-rende
ciechi q-quanto l'amore...» mormorò piano Jiminy,
strizzando gli
occhi con espressione sofferente. «Certo,
finché... finché v-viene
alimentata pare ci sia un... un senso per ogni cosa, non è
vero?
Strappare ciò che ci è s-stato strappato...
distruggere chi ci ha
d-distrutto... e una volta vinto, capitano... che farete di una
v-vita priva di scopo?».
«È
questo il
punto!» gridò con ferocia Hook, calciando il
cerchio arrugginito di
una vecchia botte di legno. «Io non ho niente
a causa sua!
Rumpelstiltskin mi ha tolto ogni cosa, ogni speranza,
ogni...» si
fermò e fece un respiro profondo, chiudendo gli occhi e
tremando
appena. «Lui mi ha tolto tutto. Non mi interessa cosa
farò dopo...
mi interessa cosa posso fare adesso».
«Capisco»
annuì
Jiminy. «Ma quando... quando “adesso”
diventerà “dopo”?
P-posso provare a immaginare cosa potrebbe accadere?».
«No,
non puoi».
«S-solo,
capitano.
Solo in un m-mondo che non conosci... dal quale non p-puoi scappare.
Un mondo nel quale n-nessuno ti offrirà il suo aiuto, se non
f-fai
appello alla tua c-coscienza».
«Ipocrita»
ribatté
pungente Hook, inclinando il capo. «Parli di redenzione e
coscienza
nel tentativo di difendere Rumplestiltskin, la
più mostruosa
delle creature che abbia mai vissuto».
Jiminy
scosse la testa.
«Nessuno
di noi è
nato per essere mostruoso».
«Oh,
ci risiamo... e
tutti abbiamo un lato buono, no?».
«Tutti
noi».
Hook
inspirò
profondamente e alzò la mano e l'uncino in segno di resa.
Riprese a
camminare avanti e indietro per la stiva, sempre più
irrequieto e
spazientito.
«Te
lo chiederò
un'ultima volta, Jiminy: come posso annientare
Rumplestiltskin?».
Il
vago sbuffo che si
levò dalle labbra dell'uomo ricordava una risatina
soffocata, ma si
trasformò presto in un violento colpo di tosse. Jiminy
Cricket si
ripiegò su stesso per l'ennesima volta. Quando
ritrovò la forza di
parlare, la sua voce risuonò con più decisione di
quanta non avesse
avuto dacché Cora lo aveva trascinato via dal suo studio.
«Nello
s-stesso modo
in cui annienterai te stesso» sussurrò debole.
«Uccidi
Rumplestiltskin, capitano... v-vendicati... e non ti resterà
che un
u-uncino sporco e un mondo v-vuoto in cui vivere».
«Ora
basta!»
urlò rabbioso. «Cosa ne sai tu
di vita e vendetta!? Cosa ne
sa uno stupido grillo dell'amore!?».
Al
di sopra delle lenti
rotte, gli occhi di Jiminy Cricket sembravano brillare di
comprensione. Non aveva più timore di lui. E il dolore...
perfino il
dolore raggiungeva i suoi nervi con fitte sempre più
ovattate.
Temeva di essere sul punto di svenire – buon Dio, quanto
sangue
poteva aver perduto? - eppure quello era il suo posto. Quello era
ciò
che sapeva fare.
Parlare.
Peccato
che il dolore
lo stesse facendo parlare a sproposito.
«Un
g-grillo non può
amare, quindi?».
Hook
soffiò con aria
supponente.
«Non
dire
sciocchezze».
«Non
aggiungerò
altro, se preferisci».
Hook
non aveva idea di
cosa diavolo stesse parlando, e non era granché interessato
ad
ascoltare i piagnistei di un grillo mezzo moribondo. Voleva
Rumplestiltskin, voleva la sua vendetta, voleva abbandonare quel
posto assurdo chiamato Storybrooke il più in fretta
possibile...
eppure la curiosità era diventata morbosa di minuto in
minuto.
«Tu
hai amato? Sul
serio?» domandò con una nota beffarda.
«E chi hai amato? Una
lucciola?».
Questa
volta Jiminy
Cricket rimase in silenzio. Hook gli assestò un potente
calcio nello
stomaco. L'altro rantolò, con gli occhi sgranati per il
dolore
improvviso. Gli occhiali scivolarono dal naso e si infransero a
terra. Jiminy rimase piegato, con le braccia legate sopra la testa e
la fronte a poche decine di centimetri dalle assi del pavimento.
Boccheggiò per diversi minuti, con ogni fibra del proprio
corpo
intenta a tremare.
«Ti
ho fatto una
domanda».
Jiminy
capì solo in
quel momento di aver commesso un madornale errore.
«Tu
non hai voluto
p-parlarne... p-perché dovrei volerlo io?».
Hook
gli afferrò con
rudezza i capelli e lo costrinse a sollevare il viso. La punta del
suo uncino grattava fastidiosamente la gola di Jiminy, che emise un
rantolo soffocato.
«Tu
che dici?».
Jiminy
deglutì a
stento.
«F-fallo.
Io n-non
dirò niente» sentenziò con orgoglio.
«N-non tradirò di nuovo la
mia regina».
«Hook,
basta così»
risuonò una voce sibillina dall'alto.
Cora
scese nella stiva
con movimenti lenti ed eleganti, come una pantera intenta ad
ispezionare con cura la propria preda. Hook si allontanò da
Jiminy
Cricket e fece le spallucce.
«Affoghiamo
il grillo
e prendiamone un altro» suggerì con franchezza.
La
donna inarcò
divertita un sopracciglio e rivolse al capitano un sorriso
comprensivo – poco dissimile a quello che avrebbe potuto
destinare
a un bambino capriccioso.
«Mio
caro Hook, quanta
intemperanza. Hai solo toccato...» disse, chinandosi per
osservare
interessata i segni che l'uncino avevano lasciato sul corpo di
Jiminy, «...i punti sbagliati».
Jiminy
cercò di
evitare le dita di Cora, ma era troppo malridotto e le corde troppo
strette attorno ai suoi polsi. L'unghia del suo pollice si
piantò
nel suo mento mentre la donna gli sollevava il viso.
«I-io
non p-parlo».
«Strana
cosa, detta da
te» lo prese in giro con tono mellifluo. «Temo che
lo farai presto,
ad ogni modo. Dimmi, Jiminy Cricket... qual è il nome di
quel tuo
amico che lavora in quel bugigattolo poco dopo il porto? Mastro
Geppetto, non è vero?».
L'uomo
impallidì del
tutto.
«N-no...
tu n-non...».
«Oh,
no!» lo
interruppe lei, portando drammaticamente una mano al petto.
«Certo
che non lo farei... credi potrei mai fare qualcosa di male a un
povero e innocente falegname, Hook?».
Hook
sollevò lo
sguardo dallo straccio con cui stava ripulendo il proprio uncino e
fece un sorriso sghembo.
«Certo
che no... stai
tranquillo, Jiminy».
«La
vita è così
ingiusta e inaspettata» continuò Cora con
leggerezza. «C'era un
sacco di gente in lacrime al tuo funerale, credo ti sarebbe piaciuto.
E chi poteva pensare che una simile disgrazia potesse capitare
proprio al buon Jiminy Cricket? Che ne sarà del suo povero
migliore
amico, ora? Senza più figlio... senza più
coscienza... oh, il
dolore potrebbe rivelarsi tremendo. Insostenibile. Mortale».
Era
inchiodato al muro.
Abbassò la testa e chiuse gli occhi, cercando di placare il
dolore
del corpo e quello della possibilità che quella folle
trovasse
davvero Geppetto. Lo avrebbe fatto – oh, certo che lo avrebbe
fatto. E dopo di lui, sarebbero arrivati a Henry, a Emma... a
Red.
C'era
solo una cosa che
poteva fare.
«Belle»
mormorò con
voce rotta. «Che Dio mi perdoni, il suo nome è
Belle».
*
Neal
Cassidy credeva
alla favole da oltre dieci anni, eppure non aveva mai pensato che
avrebbe avuto un ruolo nella più assurda di tutte. Sotto la
pioggia
di Storybrooke, Pinocchio camminava al suo fianco con la testa bassa
e il cappuccio sollevato, ed era la persona più improbabile
a
calzare i panni del burattino che Neal avesse mai incontrato.
«Se
Emma ha spezzato
la maledizione, perché questa cittadina esiste
ancora?».
August
fece le
spallucce e infilò le mani nelle tasche.
«Non
lo so. Non so
nemmeno come abbia fatto la magia a tornare».
Attraversarono
la
strada che circondava la scuola in fretta. Neal non vedeva l'ora di
mettersi al coperto: nonostante l'ombrello, era fradicio fino
all'ultima punta dei capelli.
«Sei
sicuro?» chiese
di nuovo, guardando perplesso l'orologio del municipio. «A me
sembra
tutto così comune, qui...».
L'altro
lo scrutò di
sottecchi al di sotto del cappuccio e si toccò un paio di
volte il
naso.
«Ehi,
guardami: io non
sono fatto di legno».
«Questo
non significa
che tu non stia mentendo... Pinocchio».
Si
fermarono di colpo
sul ciglio del marciapiede e August rimase in silenzio per diversi
secondi. Neal si sentì improvvisamente preda dei sensi di
colpa.
«Okay,
scusa, non
volevo dire che... sono spaventato, va bene? Io amavo Emma,
e
poi tu sei arrivato con questa storia allucinante delle favole e
della maledizione. Hai sconvolto tutta la mia vita, August».
«Hai
avuto dieci anni
di tempo per accettarlo».
«Forse
non sono stati
abbastanza».
«Forse,
ma di sicuro
non c'è più tempo» fu la vaga risposta.
Alzò un braccio e gli
indicò l'imbocco di una piccola stradina. «La casa
di Snow White è
la quinta sulla sinistra. Lei saprà dirti dov'è
Emma».
Neal
si mosse dopo
qualche istante, accorgendosi solo in quel momento che August aveva
già girato i tacchi e stava prendendo tutt'altra direzione.
«Ehi!
Ehi! Dove
diavolo pensi di andare, adesso!?» esclamò nella
pioggia.
August
si voltò verso
di lui e alzò la mano in segno di saluto.
«Emma
non sarà per
niente contenta di vedermi» gridò di rimando.
«E c'è una cosa che
devo fare prima che mi ammazzi».
L'altro
uomo lo osservò
svanire nel buio della sera. Sollevò il bavero della giacca
per
ripararsi dal freddo e sbuffò infastidito.
“ Le cose non si
stanno muovendo com'era previsto si muovessero” gli aveva
raccontato August durante il viaggio. “Non so cosa stia
succedendo,
ma non va bene per niente”.
“ E io che c'entro?”.
“ Sono la tua
famiglia. Tutti dovrebbero tornare dalla propria famiglia, prima o
poi”.
Neal
gli aveva rivolto
uno sguardo interrogativo.
“ E tu? Nella favola
ce l'hai, un padre. E pure un grillo domestico”.
Il
silenzio di August
era stato piuttosto eloquente e i suoi occhi si erano velati di
nostalgia. Neal non aveva più fatto accenno a grilli o
burattini: quella storia doveva essere più triste di quanto
non ricordasse.
*
Aveva
creduto di
trovarlo nel garage che aveva adibito a bottega nei ventotto anni
trascorsi nei panni di Marco, ma la saracinesca era chiusa e il suo
furgone non c'era. Chiamò un paio di volte il suo nome, ma
non
rispose nessuno.
Mentre
s'incamminava
tristemente verso Granny's, iniziò a calciare per gioco una
lattina
di Coca-Cola. Era quasi arrivato all'angolo della via, quando un
grosso dalmata si lanciò con foga sul pezzo di alluminio.
August
trasalì e fece un salto indietro.
“ È il cane di
Jiminy” realizzò in un istante. Era
così convinto di imbattersi
nell'uomo con i capelli rossi e gli occhiali che aveva spiato a lungo
da non poter mascherare la propria delusione nel ritrovarsi davanti
Red. Era avvolta in una sciarpa rossa piuttosto bagnata. I suoi occhi
sembravano gonfi di pianto.
«Porca
miseria»
imprecò lei non appena lo ebbe riconosciuto.
«Sei... tornato».
August
aprì la bocca e
fece per parlare, ma l'espressione minacciosa sul volto di Red lo
fece desistere. La giovane strinse a sé Pongo, si
umettò le labbra
e gli puntò contro l'indice.
«Tu
non eri rinchiuso
a Storybrooke, ma sapevi di Storybrooke».
«Red,
io--».
«E
sai chi sono...».
Lei
lo fissò
perplessa.
«Chi
sei davvero,
August?».
Lui
fece un profondo
respiro.
«Pinocchio».
L'espressione
della
giovane non avrebbe potuto essere più sbalordita. Rimase per
un po'
con le labbra dischiuse, fissandolo sconcertata. Pongo aveva ripreso
a strattonare il guinzaglio, ma Red sembra intenzionata a ignorarlo.
«P-Pinocchio?»
ripeté.
Lui
annuì lentamente.
Aveva avuto ragione: c'era davvero qualcosa di strano. La maledizione
si era spezzata, sì, ma tutti loro erano rimasto a
Storybrooke e Red
era impallidita, incapace di parlare. August la guardò
portarsi una
mano alla bocca, abbassare il capo e tentare invano di soffocare un
singhiozzo. Red si strinse d'istinto il guinzaglio al petto.
«Pinocchio...»
disse
di nuovo, mentre gli occhi si riempivano di lacrime.
August
deglutì a
stento. C'era qualcosa... Dio, era successo qualcosa.
«Non
sono lacrime di
gioia, quelle» mormorò, appoggiandole una mano sul
braccio
sinistro. La scrutò preoccupato, poi Pongo abbaiò
di nuovo. Inarcò
un sopracciglio e aggiunse, tremante: «Red...
perché il cane di
Jiminy è con te? Dov'è lui?».
*
Red
lo aveva seguito
nella folle corsa attraverso le strade di Storybrooke con Pongo alle
calcagna. Di tanto in tanto gridava il suo nome – quello vero,
quello che per poco non scordava – ma August era diventato
sordo.
Non sentiva la pioggia, non sentiva il vento, non ricordava nemmeno
dove aveva abbandonato il proprio ombrello.
C'era
stato un tempo in
cui si era divertito a farsi rincorrere da Red fra gli androni e i
lunghi corridoi del castello di Snow White e James. A differenza
degli altri castellani, sempre troppo impegnati nelle loro faccende,
lei era piuttosto incline a partecipare ai suoi giochi. In un paio di
occasioni, lei e Jiminy avevano improvvisato un teatrino di
marionette di carta. Pinocchio rideva per ore guardando le dita di
Red camuffate da grossi draghi cercare di mangiare il piccolo grillo.
“ Jiminy
è morto”.
Forse
August non aveva
nemmeno sentito l'ultima parola. Forse l'aveva capito e basta, aveva
sentito “Jiminy” ed ogni nervo del suo corpo era
precipitato nel
caos.
Varcò
la soglia di
Granny's con l'irruenza di un carro armato, fradicio e ansante, con
l'espressione stravolta e la gola arida.
“ Non è vero”
continuava a ripetersi. “Non è morto, non
è morto, lui non può
morire, lui è Jiminy, lui non può
morire...”.
Alla
sua vista tutti i
presenti si erano bloccati. La vedova Lucas era in piedi davanti al
bancone e stringeva fra le mani grassocce un vassoio pieno di tazze
fumanti; Grumpy e Doc si erano alzati in piedi nel medesimo istante,
il primo aggressivo e il secondo preoccupato; e poi c'era lui,
seduto a un tavolo con le spalle rivolte all'ingresso. Geppetto
teneva la testa china fra le mani e non si era mosso di un solo
centimetro.
«Granny's
è chiusa»
sentenziò burbero Grumpy, facendo un passo verso di lui.
Red
sbucò dietro a
August con il fiato corto. Pongo gli girò attorno e si
affrettò ad
accucciarsi ai piedi di Geppetto. L'anziano uomo gli
accarezzò
tristemente la testa.
La
vedova Lucas guardò
confusa la nipote, ma la giovane si limitò a togliersi la
sciarpa e
a lasciarsi scivolare sulle poltroncine più vicine. Si
passò una
mano fra i lunghi capelli e appoggiò la fronte al tavolo,
immobile e
abbattuta.
August
avanzò nel
locale e d'un tratto ci fu solo silenzio.
«...babbo?».
Geppetto
si girò con
incredibile lentezza. Aveva il volto rigato di lacrime quanto quello
di August – eppure il giovane non se ne era reso conto. Si
alzò traballante e
Doc dovette affrettarsi a sorreggerlo per evitare che scivolasse sul
pavimento. Il suo sguardo era sconvolto. Pareva fosse invecchiato di
mille anni nell'arco di un secondo.
«Pinocchio?».
August
si morse le
labbra e non fu più in grado di sostenere lo sguardo del
padre.
Iniziò a scuotere la testa, incapace di parlare.
«Pinocchio...»
mormorò
di nuovo Geppetto,
arrancando verso di lui e sollevando tremante le mani. Gli
sfiorò
appena la felpa, si mangiò ogni centimetro del suo viso da
uomo con
crudele avidità. «Il mio ragazzo...».
«Non
è vero» negò
con forza lui, le unghie conficcate nei palmi. «Non
è vero, non è
vero, non è vero...».
Geppetto
gli posò una
mano sulla spalla e August si sorresse a lui. Il pianto lo travolse
come un fiume in piena.
«È
colpa mia... è
tutta colpa mia».
L'abbraccio
di suo
padre si fece più deciso e bisognoso. La sua mano callosa
salì ad
accarezzargli piano la nuca.
«Non
è colpa tua...
non è colpa di nessuno...».
“Jiminy è morto”.
Quando
riuscì a
realizzare davvero ciò che quelle
parole significavano, cadde
in ginocchio sul pavimento di Granny's in preda allo strazio,
dondolato da suo padre come se fosse tornato bambino – come
se non
fosse niente più di un burattino inanimato.
*
Non
si accorse che Red
era uscita dal locale se non dopo parecchio tempo.
Aveva
smesso di
piovere, ma l'aria era ancora umida e fredda e il vento che soffiava
era impietoso. La ragazza si era seduta su uno dei tavolini estivi.
Non sulla panca, no: proprio sul tavolino.
August
si avvicinò
piano a lei e le toccò appena un ginocchio. Red
arrangiò un
sorriso triste, ma continuò a guardarsi le punte delle
scarpe a
tennis.
«Non
sei cambiata
nemmeno un po'» iniziò lui. «A parte
quei ciuffi rossi... sono
carini».
«È
così strano
vederti... adulto. Di', ricordi quando scappasti
dalle cucine
e ti buttasti nelle acque del lago? Eri così preso dalla tua
piscina
improvvisata che mi sono dovuta immergere fino alla pancia per
convincerti a uscire».
«Mi
ricordo» annuì
mesto lui, arrampicandosi sulla panchina e sedendosi accanto a lei.
«Jiminy continuava a sbraitare dalla riva. Detestava
l'acqua... e
come dargli torto? C'era mancato poco che affogassimo
tutti».
Rimasero
in silenzio
per qualche secondo.
«Non
ho fatto in tempo
a dirglielo, Pinocchio».
Lui
scosse la testa.
«Cosa?».
Il
sorriso di Red era
vago e distante, ma i suoi occhi erano ancora arrossati e le gote
rigate di lacrime.
«Che
ho sempre
apprezzato il fatto che in questi ventotto anni fosse rimasto il solo
a trattarmi come un'adulta. Che...» scosse il capo e
sbuffò
imbarazzata, «...che mi divertivo a trascorrere il mio tempo
con lui
anche prima, quando era un grillo e tu lo
rinchiudevi negli
orologi del castello in continuazione, e che io... che Ruby,
che l'altra, che lei sapeva perfettamente come Archie Hopper beveva
il caffè. Doppio, con una sola bustina di zucchero e una
spruzzatina
di panna. Ed era l'unico che lo ricopriva di caramello... non ho mai
visto niente di tanto disgustoso, ma... e io non gliel'ho mai detto.
Non gli ho mai detto nulla. Prima che Emma distruggesse la
maledizione, non ci avevo nemmeno fatto caso, e dopo ho pensato...
che avrei avuto tempo e che c'erano così tanti problemi
e
che...» Red si bloccò di colpo e chiuse con forza
le palpebre, ma
il pianto ormai dilagava sul suo viso stremato. «E ora
è tardi,
Pinocchio... e io ancora non ci credo, ma Jiminy è sul
serio... sul
serio...».
August
le sfiorò
appena la nuca, permettendole di appoggiare la fronte alla sua
spalla. Mentre assisteva alla disperazione di Red levarsi in violenti
singhiozzi, alzò il capo fra i nuvoloni scuri che andavano
svanendo.
L'alba era vicina.
“E ora è troppo
tardi”.
Era
tutta colpa sua.
*
Il
sole stava ormai
sorgendo e Red si era addormentata sulla sua spalla. August
cercò di
spostarla con cautela e di sollevarla, ma lei cacciò un
flebile
borbottio infastidito e iniziò a storcere il naso. Lui si
fermò, ma
ormai Red si stava svegliando.
«Lo
sento...» mugugnò
con voce impastata.
August
aggrottò la
fronte e scosse perplesso il capo. Red si alzò, si
stropicciò gli
occhi e fece un lunghissimo respiro. La sua espressione si fece d'un
tratto serissima.
«Pinocchio...
lo
sento».
«Red,
non--».
La
ragazza scattò in
piedi come una molla e iniziò a gironzolare su se stessa in
preda a
una crescente agitazione. Puntava il naso in aria, annusava attenta e
muoveva la testa a destra e a sinistra come un piccolo segugio con la
sciarpa rossa. Quando finalmente rivolse la propria attenzione a
August, il suo sguardo sembrava brillare.
«Jiminy».
Lui
sbatté un paio di
volte le palpebre, poi si avvicinò a lei, le strinse
gentilmente le
spalle e la fissò con tristezza.
«Red,
stavi dormendo».
«No»
ringhiò lei con
feroce testardaggine. «No, Pinocchio, io lo sento... lo
sento!».
Scattò
come un fulmine
lungo la strada che conduceva al municipio prima ancora che August
realizzasse cosa stava cercando di dirgli. Il ragazzo la
chiamò a
gran voce, le corse dietro per un paio di passi e si bloccò
sul
marciapiede, mentre l'ombra di Red si perdeva nella foschia del
mattino. Era davvero veloce. August si passò una mano fra i
capelli,
ancora confuso, e guardò oltre le finestre di Granny's.
Geppetto era
seduto al bancone con un bicchiere vuoto fra le mani e lo sguardo
apprensivo della vedova Lucas puntato sul volto stravolto.
La
vocina acuta di
Jiminy Cricket gli risuonò d'improvviso nella testa:
“Sii sempre
impavido, leale e altruista”. L'attimo dopo stava
già sfrecciando
alle costole di Red, annaspando nel tentativo di raggiungerla. Era
davvero troppo, troppo veloce.
«Red!»
gridò con
tutto il fiato che aveva in gola. «Red!».
«Il
porto! Il
porto!».
La
ragazza aveva già
superato il municipio e lo aspettava sotto un lampione, agitando
frenetica le braccia. August le arrivò accanto e si
piegò in due.
«Porca
miseria... Red,
dove stai andando?».
«Il
porto» ripeté
con forza lei, piantandogli le dita in una spalla. C'era una luce di
estasiata gioia sulla sua faccia arrossata. «È al
porto. Lo sento.
È odore di libri vecchi, di caramello, di... di
Archie. È
l'odore di Archie, Pinocchio, te lo giuro».
Voleva
crederle con
tutto se stesso, ma c'era una parte di lui che doveva essere davvero
diventata insofferente alle menzogne. Jiminy era morto, l'avevano
visto tutti. L'avevano seppellito il giorno prima nel cimitero di
Storybrooke... come poteva Red avvertire il suo odore nell'aria?
«La
pioggia» riprese
a spiegare nervosamente lei, afferrandogli entrambe le mani.
«È
piovuto per giorni e ora... senti il vento, Pinocchio, soffia dal
porto!».
August
si massaggiò lentamente le tempie.
«Okay.
Red, io
non credo che--».
«È
vivo» sentenziò franca lei, prima di volgergli le
spalle e gettarsi nuovamente in
quella corsa senza respiro. «È vivo!».
E
lui le corse dietro,
e per un attimo credette sul serio di essere
tornato il
bambino che giocava con lei fra le mura del castello. La folle
speranza di Red era contagiosa e presto si trovò ad
accelerare il
passo per non perderla di vista, spinto dal pensiero che, dopotutto,
Red aveva un ottimo olfatto. Red le sentiva davvero, certe cose.
Superarono a perdifiato la zona mercantile e si ritrovarono
all'imbocco delle barche nel giro di dieci minuti. August era
ansante, ma Red continuava a saltare da una parte all'altra del molo,
guardandosi attorno febbrile, annusando l'aria salmastra...
«È
qui».
August
sospirò e diede
un'occhiata intorno. C'erano solo sei o sette piccole imbarcazioni
ancora ormeggiate: i pescatori dovevano essere a largo già
da ore.
Red portò le mani ai lati della bocca e iniziò a
chiamare a gran
voce il suo nome. L'altro la bloccò di colpo e la
strattonò con
forza.
«Sei
pazza? Qualcuno
potrebbe sentirti!».
«È
proprio quello che
mi auguro!» ribatté lei piccata, liberandosi dalla
sua stretta. «Voglio che mi senta Archie!».
«O
chi l'ha fatto
sparire?».
Red
rimase spiazzata,
ma poi assottigliò minacciosa gli occhi. August credette di
vedere
l'ombra del lupo guizzare per un momento nelle sue pupille.
«Lo
sbranerò. Giuro,
Pinocchio... lo sbranerò».
August
non lo dubitava.
La ragazza riprese la sua ricerca insensata lungo la banchina. Era
buffo vederla fiutare tutt'attorno come un cagnolino, ma nessuno
avrebbe potuto dire che non era un metodo efficace. Si fermò
d'improvviso davanti a una passerella vuota, confusa. Poi
sollevò un
indice a mezz'aria e indicò il vuoto.
«Qui».
«Qui?»
ripeté
perplesso August, grattandosi la nuca. «Red, qui non
c'è niente».
«C'è
Archie».
La
sua testardaggine
iniziava a diventare insostenibile e August si sentì uno
sciocco per
averle dato ascolto. Non avrebbe dovuto illudersi. Era già
un uomo,
ormai, era giunto il momento di piantarla di raccogliere per strada
tutte le fantasie da ragazzino che gli cascavano davanti. Jiminy era
morto e lui non c'era.
Non aveva nemmeno avuto il tempo di salutarlo, di chiedergli perdono,
di ascoltare per un'ultima volta i suoi consigli. Era morto e non
sarebbe tornato. Avvertì le lacrime tornare a pizzicare gli
occhi,
così strizzò le palpebre e fece un profondo
respiro.
Red
si era incamminata
lungo la passerella e lui decise di seguirla. Non sarebbe stato
facile convincerla a tornare indietro.
Poi
accade una cosa
strana. Red si inginocchiò sul legno umido e
allungò una mano verso
l'acqua; l'espressione sconcertata sul suo viso era piuttosto
eloquente.
«Cosa
c'è?».
Lei
lo fissò con la
bocca aperta in una muta esclamazione di sorpresa.
«Credo
ci sia una... barca».
D'improvviso
nel molo
risuonò un violento boato. La terra parve tremare e August
si
ritrovò a terra. Alzò lo sguardo su Red: la
giovane sembrava
essersi attaccata a una corda invisibile. Il frastuono dei gabbiani che
si alzavano spavantati in volo era assordante.
«Che
diavolo è
stato!?» esclamò lei.
«Non
ne ho idea»
rispose in fretta. «Stai bene?».
«Sì,
sono--».
La
seconda esplosione
risuonò ancora più tremenda e violenta della
prima. Questa volta
anche Red scivolò sulla passerella.
«Corri
a cercare
Emma!» le gridò August, rimettendosi in piedi e
aiutandola
ad alzarsi a sua volta. «In fretta!».
«Vieni
con me!».
«Tu
sei più veloce.
Io...» si interruppe e alzò gli occhi al cielo:
una grossa nube
viola si stava alzando dai palazzi che circondavano il molo.
«Oh,
porca vacca... quella è magia grossa. Red,
corri».
«Tu--».
«Io
mi nascondo da
qualche parte e vi aspetto. Tu corri! Va' a cercare Emma!».
Red
lo fissò per
qualche istante, annuì decisa e ripercorse a lunghissime
falcate la
strada che li aveva condotti lì. Lui attese di vederla
svanire oltre
la curva. Era sul serio la creatura più
veloce che avesse mai
visto. Il terzo colpo spezzò in due l'aria. August si
ritrovò
inginocchiato davanti all'assurda barca invisibile che aveva trovato
Red. Allungò cauto un piede, ma con suo sbalordimento la
suola
dello stivale toccò una superficie rigida e sicura.
Guardò in
basso: era come volare sull'acqua. Iniziò a risalire
piano, con le mani ben strette alla fune che c'era davvero, ma non
poteva essere vista.
Riuscì
a vedere la
barca solo una volta salito a bordo, ma non era una barca: era una
nave vera e propria, quella, come quelle che credeva di aver lasciato
nel mondo delle fiabe, con gli alti alberi di legno e le bandiere
rozze ammainate, i cannoni pronti a sparare e una bella sirena
intagliata a prua. Guardò l'albero maestro e
sgranò gli occhi: una
bandiera dal teschio nero sventolava fiera nel vento del Maine.
«Oh,
diavolo...»
mormorò fra sé.
La
nave sembrava
deserta. Stava valutando quanto fosse rischioso per lui restare a
bordo, quando l'ennesimo scoppio fece sobbalzare ogni cosa. August si
abbassò in fretta, accucciandosi sui gradini che portavano
alla
stiva. Nel tentativo di rialzarsi, la suola bagnata del suo stivale
scivolò sul legno e il ragazzo precipitò
indietro, rotolando per
quasi metà dell'altezza della scala. Quando
riaprì gli occhi era
immerso nell'oscurità. Si mise in piedi a tentoni: aveva il
sedere
un po' dolorante ed era certo che ci fosse un bel bernoccolo in
procinto di spuntare sulla sommità della sua testa, ma a
occhio e
croce non si era fatto particolarmente male. Frugò nelle
tasche dei
jeans ed estrasse un minuscola torcia portatile. Non faceva
più luce
di un fiammifero, ma era meglio che camminare nel buio più
completo.
La
stiva sembrava
pressoché vuota. C'erano delle casse abbandonate in un
angolo e un
mucchio di funi annodate, ma non c'erano né merci
né provviste né
qualcosa che facesse pensare a una ciurma di corsari affamati. Non
c'era nemmeno del rum.
La
grata del sottostiva
era aperta e August si avvicinò lentamente. La flebile luce
vagò
nell'oscurità per qualche istante, prima di fermarsi sulle
assi del
fondo. Il ragazzo affilò la vista e trattenne il respiro:
non ne era
del tutto sicuro, ma credeva potesse essere sangue. Seguì la
scia
rossiccia fino a quando non illuminò il corpo inerme e privo
di
conoscenza di un uomo con i polsi legati a un grosso gancio sopra
la testa.
August
ebbe
l'impressione di essere appena riemerso da una nuotata tremenda, di
aver finalmente ripreso fiato... di essere uscito dalla pancia della
balena ancora una volta.
Si
fiondò nel
sottostiva, si inginocchiò davanti a Jiminy e
abbassò il bavaglio
che gli copriva la bocca. Respirava appena. Fece per posargli una
mano sulla spalla, ma quando si accorse della grossa macchia rossa
sulla sua camicia stracciata si bloccò con il braccio a
mezz'aria.
«Jiminy?»
mormorò
spaventato, scuotendolo delicatamente. «Jiminy, per favore,
svegliati...».
Dalle
labbra dell'uomo
risalì un rantolo impercettibile.
«Jiminy,
va tutto
bene» tentò di rassicurarlo, ma le parole
sembravano tremargli
nella gola. L'immane pace che aveva provato nel trovarlo
laggiù
vivo era stata fin troppo effimera. Sotto il corpo
di Jiminy
si era allargata una considerevole pozza di sangue e la sua camicia
ne era zuppa. «Va tutto bene, sono io, sono tornato, adesso
ti
riporto a casa... torniamo a casa tutti e due, Jiminy, te lo
prometto».
August
non aveva mai
avuto modo di parlare a lungo con Archie Hopper – era
segretamente
intimorito da ciò che avrebbe potuto pensare tanto quanto lo
era di
suo padre. Non aveva mai udito sul serio la sua voce umana,
ma
era certo che quella voce strascicata e sommessa fosse ben lontana
tanto da quella di Jiminy Cricket quanto da quella dello
psicoterapeuta.
«--occhio».
«Come?».
L'uomo
alzò
faticosamente la testa e aprì piano gli occhi. Alla luce
bianca
della torcia elettrica, il suo volto sembrava ancora più
pallido e
cadaverico. I suoi occhi erano stanchi, ma in quel momento sembrarono
scintillare di incontenibile gioia.
«Pinocchio».
August
si mordicchiò
il labbro inferiore e annuì un paio di volte. Poi si
alzò in piedi
e liberò i suoi polsi legati dal gancio che lo teneva
appeso. Jiminy
gli ricadde addosso come un peso morto, ma lui fu lesto a
sorreggerlo. Si sosteneva a stento in piedi. August si passò
il
braccio meno malandato sulle spalle e lo alzò di forza.
«Coraggio,
Jiminy...
torniamo a casa».
«G-Gold...
devi
avvisare Gold... loro vogliono... non ho potuto fare
altrimenti...».
«Risparmia
le forze,
ti prego. Va tutto bene... Red è corsa a cercare aiuto. Emma
starà--».
«S-sta
bene? Red...
lei sta bene?».
«Sì»
rispose con incredibile sicurezza August. «È lei
che ha scoperto
dov'eri finito. Dice di averti... sentito».
Jiminy
arricciò le
labbra in una smorfia affettuosa.
«S-sapevo...
s-sapevo
che saresti tornato».
August
si aggrappò al
corrimano della piccola scala di legno. Le sue nocche sbiancarono e
le sue guance arsero improvvisamente di umiliazione. Non
trovò nulla
da dire.
La
sua presa si fece
più sicura mentre appoggiava il piede sul primo gradino. Per
quanto
Jiminy faticasse a parlare, il suo tono non sembrava poi
così tanto diverso
da quello del piccolo insetto che lo aveva tirato fuori dal Paese dei
Balocchi. Temeva di averlo perduto per sempre già una volta,
quando
lo aveva cercato invano fra i boschi e i prati di Storybrooke: poi lo
aveva incrociato per caso da Granny's, mentre si affrettava a
raggiungere il proprio studio.
Non
lo aveva
riconosciuto immediatamente – e come avrebbe potuto,
d'altronde?
“ Oh, santo cielo”
gli aveva detto Archie Hopper, sistemandosi gli occhiali sul naso e
rivolgendogli un sorriso gentile. “Lei deve essere il famoso
scrittore su cui tutta la città spettegola”.
August
gli aveva
stretto la mano con crescente curiosità.
“ Credevo di essere
noto come lo straniero”.
“ È un termine
piuttosto barbaro in una società civile, non
trova?”.
Red
– Ruby,
la cameriera con l'eye-liner e la minigonna, quella che aveva
distrutto il ricordo della coraggiosa fanciulla al servizio di Snow
White che August conservava – si era sporta dal bancone in
quel
momento e si era allungata per afferrare un ombrello nero agganciato
al bordo. August aveva distolto lo sguardo dalla scollatura della sua
camicetta.
“ Archie!” aveva
gridato lei con voce squillante, brandendo l'ombrello a mezz'aria.
“Te lo dimentichi sempre!”.
Sembrava
un siparietto
provato un'infinità di volte – e a conti fatti, lo
era sul serio.
Ruby gli aveva lanciato l'ombrello e Archie lo aveva afferrato al
pelo, faticando un po' a coordinarsi fra la borsa di pelle stretta in
una mano e gli occhiali che gli stavano scivolando dal naso.
Quando
August aveva
riconosciuto l'ombrello, Archie Hopper era già diretto verso
il
proprio studio.
«Quando
mi hanno detto
che eri morto, ho pensato che sarei impazzito».
«Sono
un grillo
magico, Pinocchio... ho un s-sacco di vite omaggio, io».
August
ridacchiò
appena e scosse il capo.
«Henry
Mills mi ha
p-parlato di te» riprese Jiminy. «Mi ha detto
ciò che hai fatto».
«Oh...
mi dispiace.
Io...».
«Pinocchio...»
lo chiamò ancora, e c'era qualcosa di disperato nel modo in
cui
continuava a ripetere il suo nome. Pinocchio,
Pinocchio, Pinocchio...
sembrava che nemmeno lui riuscisse ancora a crederci sul serio.
«C-cercare di rimediare ai propri errori è molto
più difficile che
non commetterne affatto».
«Avevo
dato la mia
parola...».
«E
ora sei qui»
concluse in un soffio Jiminy, con quel sorriso lieve ancora sulle
labbra. «Sei qui...».
Sei
tornato a casa,
ragazzo mio.
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