La mattinata passò
tranquillamente, mentre c’intrattenevamo in attività tipiche da
campeggiatori: guardare animaletti, abbracciare alberi e altre
sciocchezze di questo tipo. In realtà le stavo raccontando per filo e
per segno com’era andata la ricognizione e tutte le informazioni che
doveva conoscere. Verso mezzogiorno Josephine aveva ricevuto una
chiamata ed era rimasta al telefono per almeno un quarto d’ora. Mi
raccontò che Yelena aveva trovato la spia. Era risalita agli aggressori
del fast food e con un po’ di pazienza aveva trovato il loro contatto
nel clan, un giovane vampiro molto tranquillo che non si era mai fatto
notare. Aveva detto a Josephine che la talpa non sapeva nulla della
nostra gita, ma che aveva pensato personalmente a tagliare ogni
possibile filo di collegamento, sistemando lui e la banda di cultisti
che ci aveva attaccato.
Zuccherino era una tipa tosta che sapeva
il fatto suo, ma non ero sicuro che la situazione fosse così semplice.
Per quanto Glavcoso fosse tranquillo riguardo minacce esterne, non
potevo credere che la sua rete di osservazione si limitasse a un misero
pedone nel clan di Greta. O forse sì. Avevo visto quanto fosse poco
professionale la rete di sicurezza del paese, per cui non ci sarebbe
stato nulla di strano se anche quella informativa fosse stata così.
Alla fine non era importante, il nostro obiettivo era rubare l’uovo e
poi svignarcela il prima possibile; non m’importava nulla di eventuali
informatori nel clan di Greta.
Fino a prima della chiamata di Yelena
non ero sicuro se agire quella notte, oppure attendere qualche giorno
ed effettuare qualche altra ricognizione - magari per trovare
l’ingresso nella taverna - ma dopo quella notizia non ero più molto
convinto della cosa. Restare là altro tempo aumentava la probabilità di
vederci spuntare davanti un altro gruppo di simpatici omini armati fino
ai denti e non volevo ripetere l’esperienza. Non che non sia abituato a
combattere - figuriamoci, è il mio lavoro - ma preferisco sempre farlo
secondo le mie preferenze e possibilmente quando il mio avversario non
sa che stia per colpirlo. Al diavolo l’onore e le cavolate di questo
genere, si tratta di essere efficiente e svolgere bene il proprio
compito.
Ho abbastanza paura quando mi puntano
addosso un fucile. È normale. Se non hai paura in certe situazioni o
sei un bugiardo o non hai tutte le rotelle a posto. È la paura che ti
fa reagire correttamente in quelle situazioni; è la paura che ti affina
i sensi e ti permette di fare correttamente quelle azioni che hai già
fatto mille volte durante le esercitazioni.
Inaspettatamente, anche Josephine
concordava con me e voleva finire il lavoro il prima possibile: l’aveva
persino detto a Yelena. Non mi suonava molto bene. Perché mai lei,
dipendente di Greta, avrebbe dovuto aver fretta con la possibilità di
mandare al diavolo il lavoro? Aveva dei motivi personali? Era una cosa
da tenere a mente.
Verso sera avevamo deciso a grandi linee
il piano d’azione. Era molto facile: entrare il più silenziosamente
possibile, trovare l’uovo e andare via; il tutto senza farci né sentire
né vedere. Naturalmente c’era da tenere conto dei sicuri problemi che
sarebbero saltati fuori. Come passare la sicurezza? Come trovare
l’uovo? Avremmo dovuto improvvisare e ciò significava incappare
sicuramente in qualche ostacolo non preventivato.
Il tramonto giunse veloce e ci
preparammo all’azione. Sistemammo tutto ciò che non ci serviva negli
zaini da viaggio, tenendo due piccoli zainetti a spalla per trasportare
armi, munizioni e l’altro equipaggiamento. All’ora stabilita ci
muovemmo verso il paese, percorrendo all’incirca la stessa strada che
avevo fatto la notte precedente. Ci fermammo all’albero “fulminato” per
nascondere i documenti e ripartimmo.
Portai Josephine verso la chiesa e le
dissi di aspettarmi riparata dietro un muretto. Volevo dare un’occhiata
alla taverna e non era necessario che ci fossimo entrambi. Anche quella
notte, gli ultimi clienti erano fuori a bere e fumare. Stavolta erano
in compagnia del proprietario, che non aveva né un bicchiere né una
sigaretta. Sembrava essere là solo per parlare e infatti gli altri
erano raccolti intorno a lui. Dopo qualche minuto rientrò nel locale e
gli uomini lo seguirono uno dopo l’altro, bevendo l’ultimo sorso di
birra, gettando a terra le cicche e spegnendole col piede. Li contai
mentre superavano la porta: sei più il proprietario.
Era una cattiva notizia: avremmo potuto
trovarli nei sotterranei. Altre rogne di cui tenere conto.
Le luci dentro la taverna si spensero e
la strada rimase illuminata solo dal lampione là di fronte. Resistetti
alla tentazione di dare un’occhiata più da vicino. Vista la novità era
meglio sbrigarsi e agire il prima possibile. Tornai indietro a
recuperare Josephine.
Era ancora seduta dietro il muretto a
cui l’avevo lasciata e stava guardando la chiesa.
«Qualche movimento interessante?»
domandai.
Scosse la testa. «Tu hai visto qualcosa?»
«Potrebbero esserci almeno sei uomini là
sotto.» Sorrisi. Mi piaceva annunciare certe belle notizie.
Lei fece spallucce, come a dire di non
essere preoccupata, ma vedevo la tensione dipinta sui suoi lineamenti.
Era una professionista e sapeva quello che stava facendo.
«Andiamo.» mormorai.
Entrammo tranquillamente nella chiesa e
scendemmo nella cripta senza problemi. Arrivati alla porta metallica,
analizzai nuovamente l’incantesimo e vidi che non era stato cambiato
rispetto alla notte precedente. Le dissi di aspettare indietro e
cominciai a lavorare col Leatherman.
Il luogo era silenzioso come il giorno
prima e quando aprii la porta non trovai nulla di diverso. Feci un
cenno a Riccioli d’Oro e cominciai a scendere. Mi fermai a tre quarti
della rampa, in ascolto. Si sentivo le voci degli uomini nella stanza
alla fine della scala. Mi voltai e guardare Josephine, che stava un
paio di gradini indietro, e mi fece un cenno di assenso: anche lei
aveva sentito. Procedetti a scendere fino a quando non arrivai alla
fine della scala. La luce incostante di un televisore uscita dalla
stanza di guardia, aggiungendosi e quella delle lampade a fluorescenza.
Mi avvicinai all’entrata con le spalle poggiate al muro,
mentre Josephine faceva altrettanto sulla parete opposta.
Josephine si teneva all’esterno per
avere una migliore visibilità del locale, mentre io mi preparavo a fare
irruzione. Alzò due dita della mano e indicò verso la parte lontana
della stanza. Estrassi la pistola e tolsi la sicura. Gliela mostrai e
scosse la testa, poi arretrò e venne al mio fianco.
Bene, c’erano due uomini e, a prima
vista, non sembravano armati. Si trattava solamente di essere veloci e
precisi nel metterli fuori combattimento. Respirai profondamente e mi
preparai a fare irruzione. Certe volte prima si comincia, meglio è.
Nel momento in cui sentii le voci
iniziare uno scambio più acceso, entrai velocemente nella
stanza. I due non si accorsero di me fino a quando non ero
sopra di loro. Erano seduti su un divano malconcio e quello che
guardava dalla mia parte mi lanciò un’occhiata stranita. Non gli diedi
il tempo di domandarsi cosa ci facessi là perché lo colpii in faccia
con il calcio della pistola e gli saltai addosso per continuare a
colpirlo. Josephine fece altrettanto con l’altro.
Il volume del televisore era abbastanza
alto da nascondere i lamenti dei due sfortunati. Quando fui sicuro che
entrambi avessero perso i sensi mi tolsi lo zaino e tirai fuori il
nastro per pacchi e, dopo aver fatto rotolare l’uomo a terra, cominciai
a passarglielo intorno ai polsi.
«Cerca qualcosa da metter loro in
bocca.» dissi a Josephine. Quando si vuole zittire qualcuno è meglio
ficcargli qualcosa nella bocca per evitare che il suono prodotto dalle
corde vocali si amplifichi. E anche perché con un fazzoletto o uno
straccio che rischia di finire in gola e soffocarli, le persone tendono
a stare tranquille.
Mentre finivo di legare le caviglie,
Joesphine mi passò qualcosa. Strappai lentamente il nastro per evitare
di fare troppo rumore e presi l’oggetto: era una calza. Diedi uno
sguardo all’altro uomo e vidi che era a piedi nudi.
«È la prima cosa che mi è
venuta in mente.» disse Josephine, col sorriso sulle labbra.
Annuii, compiaciuto. Era un’ottima idea.
Aprii la bocca del povero malcapitato e ci ficcai la calza. Poi feci un
paio di giri di nastro intorno alle labbra. Ripetei l’operazione col
secondo uomo e poi mi feci aiutare da Josephine a trasportarli dietro
il divano, in modo che non fossero visibili dal corridoio.
Il primo ostacolo era stato superato.
«Bene.» dissi, mentre mi rimettevo lo zaino in spalla. «Ora si tratta
di girare per i sotterranei e sperare di trovare qualcosa che ci aiuti
nella ricerca.»
«Detto così non sembra un buon piano.»
«Non lo è.» ammisi. «Ci serve qualcuno
da torchiare per scoprire qualcosa.»
Indicò i due gentiluomini che aveva
appena relegato nel mondo dei sogni. «Loro non andavano bene?»
Mi avvicinai all’ingresso e diede
un’occhiata all’ingresso. Nessuno in vista. «Al massimo avrebbero
potuto darci informazioni sui programmi televisivi. Forza, andiamo.
Niente magia, mi raccomando.»
«Me l’hai ripetuto una dozzina di
volte.» replicò irritata. «Non sono una stupida.»
La ignorai e cominciai a percorrere il
corridoio. Nella prima parte non c’erano altre stanze e dopo qualche
metro s’intersecò con un ulteriore corridoio. Continuai ad andare
avanti e trovai alcune stanze vuote. Erano dei magazzini, pieni di
scatole che contenevano cibo, bevande e indumenti. Nulla che potesse
interessarmi. Più in là c’erano un bagno e una cucina, vuoti anch’essi.
Tornai indietro e studiai l’altro corridoio.
Era pieno di porte, come se i suoi lati
fossero formati da decine di piccole stanzette. Mi avvicinai alla prima
porta e provai ad aprirla.
Era chiusa.
Anche la seconda e la terza che provai
erano chiuse. Continuai ad andare avanti e al quarto tentativo ne
trovai una aperta.
«Che diavolo è?» mormorò Josephine alla
vista della stanza.
Il motivo di tanto stupore era
l’arredamento, che sembrava quello della stanza di un collegio. Un
lettino, una scrivania e un armadio a due ante. Lo aprii e vidi che
c’erano solo abiti femminili.
«Sicuro che siamo nella tana del drago?»
chiese.
«Mi pare ovvio.» Le mostrai il contenuto
dell’armadio. «Glavcoso non colleziona donne? Evidentemente non le
tratta nemmeno male.» Anche se ciò non combaciava con i vestiti
stracciati e insanguinati che avevo visto la notte precedente.
«Escludendo il fatto che le rapisce e le imprigiona sottoterra.»
aggiunsi.
Josephine aprì il cassetto della
scrivania e ci rimestò un po’, come se non sapesse bene cosa cercare.
«Non c’è tempo per cercare il diario
segreto della principessa.» dissi, mentre uscivo dalla stanza.
Stavo cominciando a farmi un’idea di
come fosse strutturata la tana. Era molto simile proprio a un campus:
con stanze per le donne e bagno e cucina comuni. Chissà quanti livelli
c’erano.
«Hai un’idea di quante donne facciano
parte della collezione di Glavcoso?»
«Qualche centinaio, forse di più.»
rispose, incerta.
«Diamine.» borbottai. Tanti livelli da
esplorare.
Esplorammo tutto il corridoio, ma tutte
le stanze erano vuote o chiuse; il livello sembrava essere disabitato.
Alla fine del corridoio trovammo una scala. Alzai le spalle,
sconsolato, pensando che di questo passo saremmo finiti in Australia.
Il livello inferiore sembrava essere più
vivo rispetto all’altro, almeno stando ai suoni che arrivavano dalla
scala. Quando arrivai a metà sentivo chiaramente dei gemiti e dei
respiri affannati: qualcuno là sotto si stava divertendo.
L’architettura era identica a quella del
livello superiore: alla fine della scala partiva un corridoio che
s’intersecava a croce con un altro; probabilmente le altre tre braccia
erano piene di stanze, mentre in quello iniziale c’era solo una stanza
di guardia. L’unica differenza era l’utilizzo che ne stava facendo il
supposto guardiano, niente TV in quel caso.
Ero appoggiato al muro opposto alla
porta e, mentre mi avvicinavo, la scena mi si stava rivelando in tutta
la sua sconcezza. C’era un uomo nudo in ginocchio sul letto e si stava
dando da fare. Dava le spalle alla porta e dalla mia posizione potevo
vedere le gambe di una donna sotto le sue. E un altro paio di piedi ai
suoi lati. Il fortunello stava intrattenendosi con due signorine. A chi
tutto e a chi niente, diamine.
Peccato per lui che la sua fortuna
stesse per esaurirsi. Feci un cenno a Josephine ed entrai. Dal ritmo
delle spinte e dal respiro affannato sembrava essere al limite. In due
passi fui su di lui, gli presi i capelli e tirai violentemente
all’indietro, sbilanciandolo e facendolo cadere dal letto. Gridò
qualcosa, ma prima che potesse alzare le mani lo colpii al naso con il
calcio della pistola. Un fiotto di sangue schizzò, sporcandogli il
viso. Lo colpii una seconda volta e mentre cercava di parlare
gli infilai la canna della pistola nella bocca. Lo spinsi a terra e gli
misi un ginocchio sullo sterno.
«Pensa alle due donne.» ordinai a
Josephine. La vidi che cercava di calmarle con gesti rassicuranti
parlando sottovoce e aggiunsi: «Che cazzo stai facendo! Stordiscile e
imbavagliale!» Non era una bella cosa e mi spiaceva trattarle in quella
maniera, ma non eravamo là per fare i buoni samaritani. In situazioni
del genere non c’è tempo da perdere, bisogna subito mostrarsi forti e
spietati, senza dare agli altri il tempo di pensare di potersi
ribellare. Perché se si ribellano le cose si complicano e diventa una
questione di vita o di morte. Bisogna essere veloci e violenti.
Guardai il mio prigioniero. «Parli
inglese?» domandai, applicando un po’ di pressione alla pistola.
«Rispondi con un cenno della testa. Se fai qualche movimento che non mi
piace ti faccio saltare la testa.» Anche se non avesse capito le
parole, il tono e il linguaggio del corpo erano abbastanza chiari.
L’uomo annuì, gli occhi dilatati per il
terrore e il sangue che gli colava dal naso, insozzandogli tutto il
viso.
«Ora ti toglierò la pistola dalla bocca
e ti farò alcune domande a cui dovrai rispondere . Sinceramente.»
Altro cenno di sì.
«Se crederò che mi stia mentendo, ti
ammazzo. Se provi a ribellarti, ti ammazzo. Se fai qualsiasi cosa che
non ti ho ordinato, ti ammazzo. Chiaro?»
Chiaro.
Sfilai l’arma dalla bocca, tenendola
sempre puntata su di lui. Alle mie spalle sentivo gli strappi del
nastro per pacchi. «Dov’è l’uovo?»
«Che uovo?» balbettò.
«Non fare l’idiota. Dov’è l’uovo?»
«Non lo so. Non lo so.» ripeté con le
lacrime agli occhi. «Glavnyognya non parla con nessuno dei suoi
affari.» Parlava un inglese abbastanza sciolto, ma si sentiva il
pesante accento tedesco.
Probabile, visto la professionalità dei
suoi sgherri. «Dov’è la sua stanza?»
«Al quinto livello.»
Diamine.
«È la che tiene i suoi tesori?»
intervenne Josephine, mentre stava trascinando sotto il letto le due
sfortunate signorine.
«È possibile. Non lo so, non lo so, vi
prego.»
«Chi sei?»
Pronunciò uno di quei complicati nomi
tedeschi e non avevo nessuna voglia d’impararlo. «Troppo complicato. Ti
chiamerò Harry.» Non replicò e aggiunsi: «Cosa fai
qua?»
«Sono l’apprendista di Gregor.» Anticipò
la mia domanda e aggiunse: «È il mago che serve Glavnyognya.» Mi guardò
stupito, come se avesse finalmente realizzato qualcosa. «Come avete
fatto ad entrare senza far scattare l’allarme?»
Stava riprendendosi dallo shock e
cominciava a ragionare. Evidentemente il sangue aveva ripreso a
circolare verso il cervello. Ignorai la sua domanda e gli chiesi: «Ci
sono altre protezioni magiche?»
«No, gli allarmi sono le uniche cose che
Gregor mi ha fatto congiurare. Ha detto che non lo pagava abbastanza
per tenere attiva una rete di controllo.»
Più probabilmente non ne era capace.
Comunque, era un’ottima notizia: potevamo usare la magia liberamente.
«Quanti uomini ci sono?»
«Due all’ingresso e solitamente cinque o
sei nei livelli inferiori»
«Sono dei professionisti o sono là solo
per fare quello che stavi facendo tu?»
«Non lo so. Sono sempre molto zelanti
nel mostrare che possono sparare.»
Pivelli. «Qual è il modo più veloce per
scendere?»
«C’è solo una scala, nel corridoio a
sinistra. Non ci sono altri modi per scendere. Tutti i livelli sono
identici.»
«Perché in quello di sopra non c’è
nessuno?»
«Perché le stiamo trasferendo nel
livello più basso.»
«Così vicine alla superficie erano
tentate a fuggire?» chiese Josephine.
«Esatto.»
Sentii Josephine borbottare
un’imprecazione. «Quanto è bravo con la magia il tuo padrone?» chiesi.
«Abbastanza da friggerti il culo. Il mio
maestro è stato…»
Lo bloccai aumentando la pressione sullo
sterno. «Non me ne frega nulla del tuo maestrino, pivello, voglio
sapere del drago.»
Si mise a ridere. Bisognava dargli
credito: pochi hanno abbastanza coraggio da mettersi a ridere con una
pistola puntata in faccia. Oppure era troppo stupido per rendersi conto
che facevo sul serio. «Glavnyognya disprezza la magia e non si fida dei
maghi. Non si fida di nessun umano, ci considera alla stregua
d’insetti. Ha assoldato Gregor solo per avere una minima sicurezza
magica.»
«Soldi proprio ben spesi.» commentai.
«Bene. Grazie per le informazioni, Harry.» Lo colpii con forza alla
testa e perse i sensi. «Josephine, il nastro.»
Stava guardando fuori dalla porta. «Non
credo ci sia tempo per legarlo, il corridoio sta iniziando a riempirsi.»
Imprecai e spinsi l’uomo sotto il letto,
almeno per conservare le apparenze. «Chi sono?»
«Solo ragazze.» rispose.
C’era poco da fare. Bisogna muoversi
spediti verso il quinto livello e sperare di non incappare in qualche
uomo della sicurezza. «Cerca di comportarti come se appartenessi a
questo luogo. Dobbiamo non dare nell’occhio per il maggior tempo
possibile e scendere.» Più facile a dirsi che a farsi.
Josephine annuì, ma non sembrava
convinta.
«Sono certo che le prigioniere non
conoscano ogni uomo che serve il drago, per cui se mi vedono camminare
in mezzo a loro non si metteranno certo a pensare
“Sicuramente è un ladro o una spia!”. Hai visto come la sicurezza sia
fallata, no?»
«D’accordo. E io?»
Sorrisi. «Tu sei la nuova acquisizione
dell’harem.»
La presi non troppo gentilmente per un
braccio e la feci camminare avanti a me. Percorremmo il corridoio a
passo tranquillo, come se la nostra presenza là fosse naturale.
Qualcuna delle ragazze ci guardò senza interesse, ma nessuna ci fissò
come se fossimo dei mostri rari. Nessuna di loro mi sembrava essere in
cattive condizioni. Tutte indossavano abiti succinti e più che un
campus sembrava uno strip club. Probabilmente il potere acquisito dal
drago dipendeva anche dalla qualità della collezione, per cui le teneva
ben curate. Mi chiedevo come gli altri gruppi magici del luogo
permettessero una cosa del genere.
«Non c’è niente che possiamo fare.»
disse Josephine, sottovoce, come se avesse intuito i miei pensieri. «Se
riusciamo a trovare l’uovo e ricattare Glavnyognya, possiamo fermare
tutto questo.»
«Non si tratta di fermare, ma di
smantellare.» replicai. Stavamo scendendo le scale che portavano al
quarto livello e per ora nessuno ci aveva dato problemi.
«Potresti farlo tu.»
«Non mi pagano abbastanza.» Le feci
cenno di fare silenzio. Eravamo arrivati al quarto livello e l’aria che
tirava era diversa rispetto al piano superiore. C’era meno movimento e
qualche ragazza faceva capolino dalla sua stanza e ci guardava con un
misto di paura e speranza. Mi diressi senza perdere tempo verso la
scala per scendere e mi accorsi che c’era un uomo a controllarla. Era
vestito casual, con un paio di jeans e una t-shirt dal collo a v, e
teneva uno stecchino fra i denti. Particolare non trascurabile: dalle
spalle gli pendeva una tracolla fissata a un SMG.
Sbuffai. Fine della corsa. L’uomo andava
eliminato, ma volevo evitare che cominciasse a sparare in mezzo alle
ragazze. E soprattutto eventuali rumori che mettessero in allarme tutto
il mondo.
Agitai una mano per salutarlo e mi
guardò dubbioso, prima di ricambiare. Probabilmente stava cercando di
ricordare chi fossi. Strattonai Josephine, poi scossi le spalle e
sorrisi. Stavo per superarlo, quando mi mise un braccio davanti per
fermarmi.
Disse qualcosa in tedesco che poteva
essere “dove credi di andare?” come “tu chi diavolo sei?”, ma non era
importante.
Ecco un consiglio in caso anche voi vi
troviate nella stessa situazione dell’omino che mi stava davanti. Se
volete fermare una persona e avete una mitraglietta al collo, usate
quella a distanza di sicurezza e non perdete tempo a fare domande
inutili.
Se Johnny Stecchino mi avesse tenuto a
distanza con l’arma - come avrebbe fatto qualsiasi guardia capace - non
si sarebbe ritrovato con la gola squarciata dagli aculei di ghiaccio
che avevo evocato sulle mie dita.
«Conosci qualche incantesimo di
mimetizzazione?» chiesi a Josephine, mentre adagiavo il cadavere a
terra, cercando di non sporcarmi di sangue. Alcune delle ragazze ci
guardavano e altre erano uscite dalle proprie stanze. Mi
girai verso di loro e, sfoderando il mio sguardo più minaccioso, dissi:
«Tornate a fare quello che stavate facendo se non volete fare la stessa
fine!» Anche se non capivano l’inglese, il tono era abbastanza chiaro.
Dovetti risultare abbastanza spaventoso,
perché tutte corsero via e si allontanarono da me, chiudendosi nelle
proprie stanze.
Mi voltai nuovamente verso Riccioli
d’Oro e il fu Johnny Stecchino, ma il cadavere era scomparso.
Fischiai. «Alla faccia della mimetizzazione.» Si vedeva giusto un po’
di sangue accanto a dove doveva trovarsi una gamba.
«Forza, non durerà per molto.» disse
Josephine, cominciando a scendere per le scale.
La seguii non prima di darmi un’occhiata
alle spalle. Nessuno, bene.
Il quinto livello era strutturato
diversamente. Il corridoio dopo la scala s’immetteva dopo qualche metro
in un’ampia sala, in cui si trovavano tre porte. Quella a cui ci
trovavamo di fronte era più corretto definirla portone e sembrava
essere ben chiusa. Le altre, che si trovavano ai lati, erano identiche
a quelle che si trovavano negli altri livelli. Non c’era nessun indizio
per effettuare una scelta sensata, per cui mi diressi verso quella a
sinistra. Il grande portone davanti non m’ispirava per nulla.
Sembrava proprio l’ingresso per un grande salone in cui Glavcoso si
rilassava nella sua forma naturale ed era qualcosa che proprio non ci
tenevo a vedere.
La porta era aperta e dava su una grande
stanza, arredata come un ufficio. Una grande scrivania in mogano
dominava la sala e i muri erano letteralmente coperti da librerie
cariche di volumi di ogni specie. Un portatile chiuso si trovava al
centro della scrivania, affiancato da un hard disk esterno, una pila di
cartelle e documenti sparsi per tutta la superficie. Un’elegante
lampada di porcellana torreggiava su un lato ed era l’unica sorgente di
luce della stanza.
Josephine non aveva perso tempo e si era
messa a frugare nei cassetti della scrivania.
«Calma.» le dissi. «Non sappiamo nemmeno
se siamo nella tana del drago o nell’ufficio di un CEO.»
«Dobbiamo trovarlo! Non c’è tempo per le
tue buffonate.» replicò acida.
Scossi le spalle e continuai ad
esaminare la stanza. In un lato semi-nascosto dalla lampada c’era uno
di quei mappamondi in legno, antichi e che valevano una fortuna. Gli
scaffali delle librerie erano pieni di piccoli soprammobili e gran
parte sembravano essere di valore. Sicuramente quella non era la stanza
di uno sgherro qualunque. Sull’unica parte di muro non occupata da
librerie era appeso un arazzo, in cui riconobbi quello che mi avevano
mostrato in foto qualche giorno prima all’albergo. Sicuramente era
l’originale. Eravamo nell’ufficio di Glavcoso, c’era poco da dubitarne.
Intanto, Josephine aveva finito di
controllare i cassetti e si stava dedicando ai soprammobili. Io,
invece, mi sedetti sulla poltrona di pelle davanti alla scrivania.
Oltre al fatto che era così comoda da rendere vana qualsiasi
similitudine con una nuvola, mi permetteva di vedere la stanza come la
vedeva ogni giorno il drago.
«Dove terrei la cosa a cui tengo di
più?» mi chiesi, sottovoce.
Mi venne la tentazione di accendere il
computer, ma mi fermai. Non c’era tempo per provare a superare la sua
sicurezza e magari non trovare nulla d’interessante. Il mucchio
scomposto di documenti m’incuriosiva. Allungai la mano per prendere
qualcuno, ma sentii come una scarica elettrica percorrermi il braccio.
Mi voltai verso Josephine e dissi:
«Forse l’ho trovato.»
Stava chiudendo lo zaino e la sua
risposta fu meno felice di quanto mi sarei aspettato. «Ok, allora
possiamo andare via.»
«Frena i cavalli, tesoro. Ho detto che
forse l’ho trovato.»
Chiusi gli occhi e mi concentrai sul
fluire dell’energia magica. Quando avevo controllato due giorni prima,
la radiazione di fondo della zona era caotica, ma in quella stanza
sembrava regnare una calma assoluta, come se fossimo nell’occhio del
ciclone. Nonostante ciò, il livello di energia era elevatissimo:
congiurare incantesimi in quella stanza avrebbe portato a risultato
molto interessanti. Peccato non ci fosse il tempo di provare.
Quello che m’interessava in quel momento
era il picco di energia che mi aveva dato la scossa. Spostai un po’ di
fogli e lo trovai.
L’uovo del drago.
Era là sulla scrivania, che fungeva da
fermacarte, tenendo fermi alcuni documenti. Un classico nascondiglio da
“lettera rubata”. Probabilmente Glavcoso aveva letto il racconto.
Diavolo, vista l’età probabilmente con Poe ci aveva pure parlato.
Rimasi un po’ deluso. Mi aspettavo una
via di mezzo fra un diamante e un uovo Fabergé, ma sembrava un ciottolo
raccolto da un ruscello. Era un oggetto piccolo e anonimo, ma
sprigionava un’energia tale da impedirmi di prenderlo in mano senza
tremare. Doveva essere per forza l’uovo, che altro oggetto magico
poteva emanare così tanta energia? Lo feci scivolare con calma dentro
la tasca inferiore della zaino.
Spinsi indietro la poltrona e mi alzai.
«Filiamocela.»
Tornammo nella stanza centrale, ma la
fortuna che fino a quel momento ci aveva accompagnato si era esaurita.
Oppure i nostri angeli custodi avevano sbagliato strada e si erano
persi nell’harem sotterraneo. Fatto sta che la strada da cui eravamo
arrivati era occupata da un gruppo di uomini armati. Fecero fuoco, ma
le pallottole rimbalzarono sullo scudo che avevo evocato, disperdendosi
per tutta la sala. Evocai un globo di fuoco e lo lanciai verso di loro,
mentre mi buttavo a terra per schivare i proiettili.
La palla di fuoco esplose con una forza
inaudita e del tutto inaspettata. Avevo usato abbastanza energia per
generare un proiettile pericoloso quel tanto bastava per far capire
loro che dovevano fare attenzione, invece era esploso come una palla di
C4. L’onda d’urto e di calore che ne seguì mi bruciò le sopracciglia e
le punte dei capelli. Alzai lo sguardo e lo spettacolo che mi si
presentò non era certo per stomaci sensibili. Gli uomini, quello che
rimaneva di loro, erano sparsi a pezzi per il corridoio e sui muri,
diventati completamente neri, mentre una pozza di liquido si era
formata dove il pavimento pendeva. Il puzzo di carne bruciata era
insopportabile e sentivo la cena risalire dallo stomaco.
Josephine era sdraiata poco dietro di me.
«Tutto a posto?» gridai. Le orecchie mi
ronzavano a causa dell’esplosione e sentivo a malapena la mia voce.
Non sentii risposta e mi rialzai
lentamente, per aiutarla.
«Che diavolo hai fatto?» mi chiese,
alzando la testa. Il ronzio stava diminuendo.
Le porsi una mano e l’aiutai a tirarsi
su. «Non ne ho idea. Dev’essere l’energia latente che c’è in questo
posto. Ha potenziato l’incantesimo.» risposi. Era l’unica spiegazione
possibile, a meno che non fossi improvvisamente diventato un arcimago
da guinness dei primati. Comunque non era certo il momento di
applicarsi in teoria magica. Mi diressi verso il corridoio,
ma dalla scala apparve un altro gruppo di uomini.
Estrassi la pistola e feci fuoco,
prontamente imitato da Riccioli d’Oro. Non era il caso di usare la
magia senza sapere bene come l’ambiente ne avrebbe modificato il
comportamento. Il fuoco intenso tenne a bada i nemici, che tornarono
indietro sulla scala. Quella via d’uscita era bloccata, a meno che non
decidessimo di combattere a tutto quartiere, opzione che volevo
evitare. Per quanto tempo avremmo potuto giocare a Dungeon &
Dragons, prima che arrivasse il vero drago?
«Dall’altra parte, Jo.» gridai. Premetti
il tasto di rilascio del caricatore e inserii quello nuovo. «Speriamo
che l’altra porta sia aperta.»
La fortuna ricominciò ad aiutarci. Non
solo la porta era aperta, ma portava a una scala a chiocciola che
saliva. Tolsi l’MP5 dallo zaino e mi affacciai nella sala. Gli uomini,
ne contai tre, si stavano avvicinando. Sparai un paio di raffiche per
far capire loro che non era una buona idea muoversi allo scoperto e poi
chiusi la porta. Posai la mano sulla serratura e cominciai a congiurare
un incantesimo trappola, ma mi fermai. Non sapendo come avrebbe
interagito con l’energia latente, era meglio non rischiare che mi
scoppiasse in faccia.
«Andiamo!» gridò Riccioli d’Oro, mentre
cominciava a salire le scale.
La seguii di corsa.
La scala saliva e saliva senza
interruzione. Avevo smesso da un pezzo di contare i gradini ma ero
certo che avessimo superato già un paio dei livelli che avevamo
attraversato prima. Ci volle un po’ perché arrivassimo a una botola sul
soffitto.
«È chiusa dall’altra parte.» disse
Josephine, dopo aver provato a spingere.
«Fammi passare.» replicai. «Ora provo
col mio passepartout.»
Posai una mano sulla botola accanto al
punto in cui doveva trovarsi il passante dall’altra parte. Non ero
certo di essere abbastanza lontano dalla zona di casino magico, ma
dovevo comunque rischiare. Non potevamo tornare indietro e lo spazio
era troppo stretto per rischiare di sparare alla serratura. “Neil
McRoberts, ucciso da una pallottola di rimbalzo” non era il massimo
come epitaffio.
Rilasciai un po’ di energia e feci
saltare la serratura. La botola rimbalzò per la piccola esplosione e ne
approfittai per sfruttare il momento e aprirla con facilità.
Salii e poi tesi una mano a Josephine.
Ci trovavamo in una specie di magazzino illuminato da una lampada a
fluorescenza. Da un lato c’erano delle botti di legno e più indietro,
posate sul muro, parecchie scatole di cartone. Una scala portava a una
porta. Stavo cominciando a odiare le scale, Glavcoso poteva pure
“tecnologizzarsi” un poco e mettere qualche ascensore.
«Dieci a uno che siamo nella taverna.»
dissi.
Uscimmo da quella che sembrava essere
una cantina e ci trovammo, infatti, nel locale. Esattamente nel momento
in cui entrammo, le luci si accesero e da una porta alla sinistra uscì
un uomo. Era quello che avevo identificato come il proprietario.
Vederlo così da vicino metteva in risalto quanto fosse alto: superava i
due metri. Con due falcate si mise fra me e l’uscita.
Feci un passo avanti con sicurezza,
tenendo in bella mostra la mitraglietta. «Suvvia, amico, siamo di
fretta.» dissi. «Fuori dalle palle.»
Avanzai ancora, ma l’uomo non dava
l’impressione di volersi spostare. I suoi occhi neri mi fissavano
dall’alto in basso con disprezzo. Un brivido mi corse lungo la schiena.
C’era qualcosa che non andava e ne ebbi la conferma quando mi mossi per
spostarlo con una spallata, ma l’unico effetto fu un forte dolore
all’articolazione, come se avessi provato a sfondare un muro.
«Hai qualcosa di mio.» La sua voce era
bassa e profonda, come se uscisse da una caverna.
Sospirai. Eravamo nei guai. L’unica
persona del paese che non avrei mai voluto incontrare e ci ero andato a
sbattere addosso.
Una sferzata di vento potentissima ci
sollevò da terra e ci fece volare verso la vetrata dell’ingresso.
L’impatto non fu dei migliori e caddi di peso sul marciapiede,
accompagnato da una pioggia di vetro. Sentivo il sangue che mi scendeva
sul viso e sulle braccia, ma non era importante. Dovevo alzarmi.
«Forza, Neil!» gridò Josephine tirandomi
su con forza. In mano aveva la sua bacchetta da direttore d’orchestra.
«Il drago.» balbettai a stento, mentre
una fitta di dolore mi face tremare. Esaminai le labbra e ci trovai un
pezzo di vetro piantato. Lo rimossi, mentre guardavo imbambolato il
barista che usciva dal locale con un fucile in mano. Mi guardai intorno
alla ricerca della mia arma, ma non la vidi da nessuna parte.
«Dai!»
Josephine mi strattonò e cominciai a
correre insieme a lei. L’importante era arrivare dall’altro lato della
strada e scomparire nelle viuzze. Quando si fugge in un ambiente
urbano, non è importante tanto la distanza in linea retta quanto il
numero di angoli che si mettono fra se stessi e l’inseguitore.
Ma chi stavo prendendo in giro. Ci stava
inseguendo un dannato drago. Poteva volare. Poteva incendiare tutto il
fottuto paesello e la foresta.
Sentii il rumore dello sparo, prima che
potessi pensare a proteggermi. Istintivamente chinai la testa, ma il
proiettile mi perforò il polpaccio. Persi l’equilibrio e caddi
malamente a terra. Provai ad attutire la caduta con le mani, ma ciò non
fece altro che far scendere in profondità le schegge di vetro che avevo
nei palmi. Mi voltai e vidi che Glavcoso teneva il fucile puntato
contro Josephine, che lo fronteggiava di petto, con uno scudo magico
davanti a lei. L’incantesimo di difesa sembrava una semisfera di
cristallo che circondava la donna. Poiché in genere non si
spara ai polpacci della gente, supposi che ero stato preso da una
pallottola di rimbalzo. Che fortuna.
Riccioli d’Oro stava fronteggiando il
drago, ma persino io, dalla mia precaria posizione, vedevo che tremava.
Anche Glavcoso doveva essersene accorto perché rideva. Alzò il fucile -
un vecchio Mosin-Nagant che probabilmente era stato usato durante la
Grande Guerra Patriottica - e sparò ripetutamente contro lo scudo
magico. La donna riuscì a mantenerlo attivo, ma cadde su un ginocchio
per lo sforzo.
Il dolore mi stava uccidendo e avevo
difficoltà a concentrarmi, però mi ricordai che dovevo avere ancora la
pistola infilata nei jeans. Rotolai di lato e la estrassi. Glavcoso era
concentrato su Riccioli d’Oro e non mi stava considerando, per cui non
mi fu difficile prendere la mira con calma e scaricare tutto il
caricatore sul drago. Mi trovavo a una decina di metri da lui e della
dozzina di proiettili che sparai solo un paio lo colpirono. Nemmeno
l’impensierirono, ma lo distrassero abbastanza da permettere a
Josephine di abbassare lo scudo e di attaccarlo con la bacchetta.
Un’onda viola d’energia magica lo colpì
in pieno petto e lo scaraventò nuovamente dentro l’edificio. Mi
sollevai a fatica, reggendomi sulla gamba sana, evocai una palla di
fuoco e la lanciai dentro il locale, le cui parti in legno
s’incendiarono.
«Dammi una mano.» gridai, mentre cercavo
di allontanarmi zoppicando. Mi voltai per vedere se avesse sentito, ma
vidi solamente un qualcosa sfrecciare fuori dall’edificio in fiamme, un
qualcosa così veloce che non ne intuii nemmeno le fattezze. Mi colpì
alla schiena e volai avanti, cadendo sul bordo del marciapiede e
battendo all’altezza delle ginocchia. Fu come se me le
avessero allegramente prese a martellate.
Sentii un urlo, poi diversi spari e
infine un corpo che sbatteva sull’asfalto. Piegai di lato la testa e
vidi Glavcoso che tirava Josephine per i suoi bei riccioli, portandola
verso la taverna. Si era completamente disinteressato a me e
probabilmente voleva aggiungere Josephine alla sua collezione. Magari
pensava che avessi abbastanza ossa rotte da non potermi più alzare e
che avrebbe recuperato l’uovo appena posata la donna.
Si sbagliava. Con le ultime forze
rimastemi mi alzai in piedi e inserii nella pistola l’ultimo caricatore
rimastomi. Mi mossi verso Glavcoso in quella che era una via mezzo fra
una corsa e una gara di salto su un piede, ma il drago era troppo pieno
di sé per pensare che un misero umano potesse rialzarsi dopo che
l’aveva colpito.
«Ehi, lucertolone.» dissi, quando mi
trovavo un passo dietro di lui.
Glavcoso si girò e si trovò sul naso la
canna della pistola.
La testa dell’uomo rinculò brutalmente
all’indietro, quando le pallottole gli sfondarono il cranio. Cadde a
terra come un frutto maturo, ma continuai a sparare fino a quando il
carrello dell’arma non rimase immobile, in attesa di un altro
caricatore. Buttai la pistola e guardai la poltiglia che era rimasta al
posto della faccia di Glavcoso.
Avevo ucciso un drago? Era stato troppo
facile. Comunque, non c’era tempo per pensare a quelle quisquilie,
bisognava fuggire. Josephine era ridotta piuttosto male - aveva il naso
rotto e un braccio le pendeva molle sul fianco - ma sembrava in grado
di camminare, sicuramente molto meglio di me.
Un rumore di motori riempi la notte. Mi
voltai in direzione del suono e feci appena in tempo a vedere due SUV
neri con le luci spente, prima qualcuno mi prendesse per il collo.
«Mi hai fatto arrabbiare, insetto.»
tuonò Glavcoso, muovendo il poco di mandibola che gli era rimasta.
Mi scagliò a terra e si trasformò.
Mi aspettavo una trasformazione stile
Malefica della Bella Addormentata, invece fu una cosa netta,
improvvisa. Prima c’era l’uomo con la faccia spappolata e un secondo
dopo era apparso un colosso di scaglie e artigli, alto quanto un
edificio di due piani. Ero scosso da un misto di terrore primordiale e
ammirazione smisurata per quella creatura. Mi sollevai sui gomiti:
tremavo incontrollabilmente e lo stomaco mi si era accartocciato.
Piegai la testa e vomitai.
Nonostante la paura però non potevo fare
a meno di rimanere incantato davanti al drago. Le scaglie rosso sangue
riflettevano cupamente la luce. Gli artigli, lunghi quando spade, erano
tanto eleganti quanto letali. Lo schema delle scaglie e degli aculei
sui possenti arti e sulla coda creava un disegno ipnotico da cui era
difficile staccare gli occhi. Le ali erano estese al massimo e
catturavano il minimo accenno di vento, gonfiandosi come degli
spinnaker. Occhi di brace mi fissavano con odio e spregio.
Un ruggito potente e rumoroso quanto la
partenza di un razzo spaziale riverberò per tutto il paese e la foresta
e capii di essere arrivato al capolinea. Per quanto potessi essere
abile e forte al confronto di quell’essere ero un insetto, un brutto e
goffo scarafaggio che andava schiacciato. Qualsiasi cosa avessi potuto
lanciargli contro avrebbe avuto l’effetto di uno sputo su un carro
armato. Notavo però dei rivoli di sangue scendere lungo il ventre
molle, partendo da piccoli buchi che sembravano essere i fori
d’ingresso di proiettili.
Stava immobile erto sulle zampe
posteriori, probabilmente gustando la paura che trasudavo. Glavcoso,
anzi Glavnyognya - vista la mia posizione non avevo diritto di essere
sarcastico né di insultare quell’essere maestoso - era però troppo
arrogante e superbo. Perché perdere tempo con i cliché da boss finale
di un videogioco, quando poteva farci fuori in mezzo secondo?
Ok, avevo ripreso a insultarlo, ma
quello che successe dopo mi diede ragione.
Alla mia sinistra sentii dei tonfi sordi
di proiettili che uscivano da dei lanciagranate e poi vidi i suddetti
proiettili cadere ai piedi del drago. Mi sdraiai a terra a pancia in
giù, sperando di non venire colpito dalle schegge. Al diavolo, me
n’erano già capitate abbastanza e non volevo pure un green on blue -
militarese per “colpito da fuoco amico” - o supposto tale. In quel
momento chiunque stesse attaccando il drago era mio amico, il mio
migliore amico.
Mi coprii la testa con le braccia.
Le granate esplosero facendo irritare il
drago ancora più di quanto non lo fosse già. Subito dopo cominciarono
le raffiche di armi pesanti. Erano attacchi ritmati, eseguiti da gente
addestrata, non il suono continuo di un pivello che usava l’arma in
modalità automatica e sparava come se stesse usando uno spruzzatore.
Spostai un poco la testa. Il drago era
poggiato su tutte e quattro le zampe e notai che una di quelle
anteriori era completamente spappolata. I proiettili dei fucili lo
colpivano sul muso e sul ventre, come uno sciame di vespe impazzite.
Le raffiche s’interruppero
all’improvviso e quattro lupi comparvero nel mio campo visivo e
saltarono addosso al drago. Non erano lupi normali: erano grandi quasi
quanto un cavallo e, soprattutto, i draghi non fanno parte della loro
tipica dieta. Dovevano essere mannari del branco di Robert Von Kempf,
per cui l’orchestra di fucili d’assalto e lanciagranate probabilmente
era stata gentilmente offerta dalla signora Zimmermann.
Era arrivata la cavalleria. Se avessi
avuto un po’ di fiato mi sarei messo a fischiettare il Garry Owen.
Glavcoso si dimenava follemente,
cercando di scuotere via i lupi, aggrappati con zanne e artigli alle
sue zampe, alla coda e alla schiena. Intanto le raffiche di mitra
continuavano, dirette con precisione sul muso del drago, impedendogli
di concentrarsi nell’attaccare i lupi.
Mi guardai in giro e vidi Josephine,
sdraiata a terra poco lontano da me. Strisciai verso di lei.
«Tutto a posto?» domandai urlando
per superare il casino che ci circondava.
La smorfia di dolore che si dipinse sul
suo volto quando si voltò per guardarmi era una risposta fin troppo
chiara.
«Sono arrivati i rinforzi.» urlai per
rassicurarla, poi mi concentrai nuovamente sull’azione.
Il drago continuava a subire, ma non
sembrava intenzionato ad arrendersi. Uno dei lupi era a terra in un
pozza di sangue e con il ventre squarciato. Un altro era stato appena
colpito da una sferzata della coda e si era spezzato in due come un
ramoscello calpestato. Glavcoso non se la passava meglio. Giaceva
poggiato su un fianco, in un lago di sangue. Una seconda zampa era
fuori uso, un occhio era chiuso e il ventre era crivellato dai
proiettili.
Non avevo idea di come funzionasse il
metabolismo di un drago, per cui non sapevo se erano ferite pericolose
oppure se il suo fattore di rigenerazione gli avesse permesso di
curarsi in poco tempo. Ci voleva qualcosa di più incisivo che lo
mettesse fuori combattimento per abbastanza tempo da poter fuggire.
Mi accorsi che una piccola fiammella
azzurra guizzava fuori da un taglio al centro della pancia e mi
tornarono in mente le parole di Josephine di qualche giorno prima:
forse avevo modo di aiutare la cavalleria.
Controllai la gamba a cui ero stato
colpito. La pallottola aveva trapassato il polpaccio, ma fortunatamente
non aveva colpito né le ossa né un’arteria. Nonostante il dolore mi
stesse facendo impazzire non ero in pericolo di vita.
Almeno per ora, dato che ciò che avevo
in mente di fare poteva tranquillamente farmi guadagnare un Darwin
Award.
Mi sollevai su un ginocchio, pronto a
scattare come un centometrista. Tirai un paio di respiri profondi,
riempiendomi i polmoni d’ossigeno, e scattai. A essere pignoli non fu
proprio uno scatto. Zoppicavo tirandomi dietro la gamba ferita e stavo
accucciato per evitare il fuoco amico. Arrivato accanto al
ventre del drago mi gettai a terra e cominciai a strisciare mezzo
immerso nel sangue del mostro. Se in quel momento Glavcoso si fosse
sdraiato mi avrebbe trasformato in una frittata. Arrivai all’altezza
della fiammella blu che avevo visto prima e mi fermai. Usciva da uno
squarcio nel ventre di almeno mezzo metro.
Josephine aveva detto che i draghi
sputavano fuoco utilizzando metano prodotto dalla digestione.
Probabilmente lo immagazzinavano in qualche organo particolare, per poi
utilizzarlo quando dovevano accendersi un sigaro o preparare un
barbecue. O dar fuoco a un mago rompiscatole. La fiammella blu era
chiaramente una perdita di gas che aveva preso fuoco e il metano
produce una fiamma di quel colore.
Allargai lo squarcio e guardai dentro.
Non m’intendo di anatomia umana, figurarsi se potevo capire qualcosa
dell’interiora di un drago. C’era roba rossastra e bianca, che poteva
essere tessuto muscolare come una roba strana esclusiva di quei
lucertoloni. L’unica cosa che capivo, e che m’interessava,
era il foro di proiettile da cui usciva il gas. Evocai un piccolo scudo
magico per tappare la perdita e quando la fiamma si dissipò lo
disattivai. Essendo il metano inodore, l’unico indizio della
fuoriuscita era il leggero vibrare delle labbra della ferita.
Frugai nelle tasche ed estrassi il
Leatherman. Allargai al massimo la pinza e poi estrassi tutti gli
utensili da entrambi i lati. Non era perfettamente dritto, ma lo era
abbastanza da sembrare un’antenna. Lo piantai nella ferita in modo che
rimanesse circa perpendicolare al terreno e non si muovesse troppo, poi
mi allontanai saltellando su una gamba, in direzione di Josephine. La
presi per un braccio e la costrinsi ad alzarsi e ad allontanarsi con
me, verso l’altro lato della strada. Arrivati, la feci sdraiare e le
ordinai di stare così fino a nuova comunicazione.
Intanto la battaglia continuava: i lupi
continuavano imperterriti a saltare sul drago, mentre gli uomini armati
continuavano a sparargli in testa. Nessuno dei due attacchi, però
sembrava riuscire a mettere a segno un colpo decisivo.
Dal punto in cui mi trovavo il
Leatherman-antenna, che usciva per qualche centimetro dalla ferita, era
un puntolino metallico e difficilmente lo vedevo nonostante la luce dei
fari dei SUV che illuminavano il drago. Comunque l’importante era che
mi ricordassi la sua generica posizione, al resto ci avrebbero pensato
le leggi dell’elettromagnetismo.
Mi concentrai cercando d’ignorare il
dolore. Avevo bisogno di tutta l’energia possibile per congiurare
l’incantesimo che avevo in mente. Tenendomi su un ginocchio e una mano,
allungai l’altra in direzione del coltello multiuso, mentre raccoglievo
l’energia magica sulla punta delle dita. Sudore misto a sangue mi
colava sugli occhi, ma non potevo far nulla per alleviare il fastidio,
perché avevo paura che qualsiasi movimento avrebbe distrutto la
concentrazione e dunque il flusso di energia.
Iniziai a tremare a causa della
posizione scomoda in cui mi trovavo.
L’incantesimo che volevo evocare era
abbastanza difficile di suo, farlo in quelle condizioni di caos sarebbe
stata un’impresa memorabile, ammesso che fossi sopravvissuto. Quando
fui abbastanza sicuro di aver incanalato abbastanza energia verso il
Leatherman, esclamai la parola di comando e l’incantesimo partì.
Successe tutto così velocemente che
registrai a malapena il risultato della mia azione.
L’arco elettrico che avevo
generato ronzò e vibrò nell’aria fondendo il coltello-antenna
e generando la scintilla che fece esplodere la bombola di gas nel corpo
del drago.
Feci appena in tempo a sollevare il
braccio davanti al volto che detriti e sangue mi colpirono. Barcollai e
finii a terra di peso. Un ruggito carico di rabbia e sofferenza mi
scosse i timpani e fui costretto a coprirmi le orecchie. Alzai lo
sguardo e vidi Glavcoso che si sollevava a fatica, appoggiandosi su un
edificio. Nella parte centrale del ventre c’era un cratere e gli organi
interni erano scoperti. Il drago ruggì una seconda volta, poi spalancò
le ali e spiccò il volo, allontanandosi barcollante.
Mi misi a ridere, o almeno ci provai
perché avevo esaurito le forze. Il dolore che prima pulsava come non
mai era diventato come un flebile rumore di fondo che faticavo a
sentire. Il respiro era veloce e incostante e tremavo come se mi
trovassi nudo al Polo Nord. Avevo appena sconfitto un drago, ma non
avrei potuto vantarmene con nessuno.
Ero ormai certo che quello fosse stato
il mio ultimo incantesimo quando sentii due mani prendermi per i
fianchi e tirarmi su. Qualcuno mi sollevò e mi buttò sulla sua spalla,
caricandomi di peso. Alla mia sinistra potevo vedere che un uomo,
vestito con un’uniforme nera e un passamontagna, aveva fatto lo stesso
con Josephine.
Ci trasportarono fino ai SUV e ci
caricarono sul sedile posteriori. All’interno c’era abbastanza spazio
per cinque persone armate di tutto punto. Sembrava una
dannata squadra anti-terrorismo dell’esercito.
«I miei complimenti, Neil.» disse una
voce femminile. Un volto scuro rigato dal sudore faceva capolino fra i
sedili anteriori.«Pensavo fossi un bluff. Tutto fumo e niente arrosto,
invece… »
Il SUV partì. Mi focalizzai su quel viso
ma avevo difficoltà a tenere gli occhi aperti. Due occhi grigi
spuntavano da una faccia sporca di polvere e sangue. «Grazie,
Yelena.» biascicai.
Uno degli uomini mi stava prestando il
primo soccorso, fasciandomi la ferita al polpaccio.
Con un ultimo sforzo prima di perdere i
sensi portai una mano verso la tasca inferiore dello zaino e sentii
l’energia magica dell’uovo. Sorrisi con soddisfazione e chiusi gli
occhi.
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