Puliva la pistola, controllava le munizioni, la materia che brillava nei suoi
alloggiamenti, i suoi dischi d’argento lucido che parevano refrattari allo
sporco. Erano un po’ come dei mostri che bevevano sangue: non ne lasciavano
nemmeno una goccia.
Nella città, le persone rimaste dovevano contarsi sulle dita di una mano, lui
compreso. C’era un silenzio irreale, smorzato appena dal suono della pioggia sul
cemento, sui palazzi. Edge era una grossa gabbia, al momento. O un rifugio,
dipendeva dai punti di vista. Però Vincent poteva vederli tutti quanti, chiusi e
rannicchiati nelle loro cantine blindate, tutti quei topi tremanti di paura.
Che poi anche lui aveva paura, a volte. E anche tanta. Solo che lui aveva
paura di un’altra cosa, che forse loro nemmeno conoscevano [li invidiava così
tanto, quei topi].
Le finestre dei palazzi lo spiavano a volte, come degli occhi ciechi, vacui:
a volte sembravano ammiccare nella sua direzione, altre invece parevano
indifferenti a quel mantello rosso che si aggirava nel grigiore della città
disperata. Un bel rosso porpora, su quella coscienza di un passato nero come la
morte.
Stavano per venire a riprenderlo. E al momento era grato a Reeve per questo.
Era esausto, non aveva un briciolo di forza nel corpo, dopo quello che era
successo nel magazzino, con Rosso e quella cosa che era uscita da lui…gli
si annebbiava la vista. E i ricordi invece si facevano più chiari.
Non sapeva chi avrebbero mandato, si era solo trascinato fino al punto
prefissato e si era gettato su una cassa, cercando di recuperare le forze.
Con i vestiti e il mantello zuppo di pioggia [i ricordi, nella
pioggia], si sentiva sempre più pesante, sempre più stanco. Anche la vista,
gli giocava brutti scherzi, non riusciva più a mettere a fuoco. In tutta quella
pioggia, le cose perdevano i propri contorni, a volte anche i colori.
Reclinò la testa indietro verso il muro. Nessun motore in lontananza, nemmeno
l’ombra di rumori vorticosi di pale a segnalare la fine della sua attesa. E non
c’era più nessun vicolo da ripulire: niente soldati, niente segugi, niente
mostri. I topi se ne rimanevano rinchiusi nelle loro cantine a tremare, e a
leccarsi le ferite.
Era rimasto solo lui [e la pioggia, e i ricordi nella pioggia]
In quella solitudine che combatteva uccidendo e cercando avversari sempre più
forti. Gli aveva dato dell’autolesionista una volta, ricordò ridendo. E
gli aveva detto anche altre cose, mentre piangeva nella pioggia. Cose che lui
stentava a ricordare, perso com’era perennemente nella furia della
battaglia.
Tranne il fatto che quel giorno, la pioggia brillava [e anche le
sue lacrime, e forse anche lei]
Lui rimaneva dritto. E subiva [godeva non visto di]tutta quella
luce.
Avrebbe riconosciuto il suo modo di guidare anche solo ascoltando i motori,
senza vedere il movimento preciso con cui il piccolo mezzo atterrava nella
piazzetta, il rombo della macchina che andava scemando con una grazia
inconcepibile. Con una calma [che lei aveva perso solo per lui]
decisamente fuori luogo.
Vincent scese dalla cassa e si mosse verso l’elicottero: aveva lasciato le
pale in funzione, chiaramente con la volontà di ripartire subito.
Vincent non la fece attendere.
Il portellone si aprì, e lui era ancora distante qualche passo quando la vide
emergere dal buio psichedelico dell’abitacolo. Sempre lei, sempre la solita.
Sempre bellissima nei suoi abiti neri come la notte, nei suoi capelli color pece
che si muovevano nel vento, con la sua pelle non bianca, ma luminosa,
accecante come le stelle.
Le pupille di Vincent si restrinsero per un attimo, come per l’essersi
trovate davanti ad una sorgente di luce accecante.
Era solo lei, sempre lei, sempre la solita.
Tifa Lockhart si avvicinò a lui con gli occhi ben piantati nei suoi e quando
la distanza tra di loro si annullò, o meglio, si ridusse ad un solo misero
passo, estrasse la sua pistola e la puntò verso di lui [quando arrivava lei,
anche la pioggia brillava].
<< Vincent. >>
La canna della pistola che sfiorava la sua fronte.
<< Stai invecchiando >>
Le labbra curvate in un ghigno, e la pistola che scivolava in mezzo ai suoi
occhi rossi.
Mosse velocemente il polso e guardò oltre la spalla di lui, verso un vecchio
ponte su cui si notava un brillio bluastro quasi invisibile, impostò in una
frazione di secondo mira, obiettivo, poi grilletto. E fece fuoco.
Il cecchino superstite crollò su se stesso, con pochi movimenti stanchi.
Semplicemente cadde a terra, e non si mosse più. Il fucile precipitò nel vuoto,
per poi rompersi nell’impatto.
<< Lo avevo visto mentre atterravo >> disse abbassando l’arma e
rimettendola nel fodero. << Aveva ridotto l’afflusso di mako al minimo per
rimanere non visto, ma sai, la massa più grossa di materia l’hanno nel casco,
quindi è davvero facile vederli dall’alto, e poi…>>
Davvero, sempre la solita.
Aveva cominciato a parlare a ruota libera, e a vanvera per giunta. Con gli
occhi bassi, sotto la pioggia. Solo loro, in quella città deserta. E lui faceva
fatica a vederla, davvero. Troppo luminosa per i suoi occhi confusi, e la
pioggia poi, quella pioggia che sembrava brillare.
<< Tifa >>
<< …e quindi hanno mandato me e…ah? >> [Se lei avesse alzato
lo sguardo avrebbe visto i suoi occhi rossi, e poi la pioggia e avrebbe
ricordato tutte quelle lacrime, e tutta quella luce]
<< Grazie per essere venuta >> fece Vincent, con la voce rotta
dalla stanchezza, poi svenne.
Tifa, sorpresa, lo sostenne al volo.
Loro due, in ginocchio [sotto la pioggia, ancora una volta], a terra.
Si portò il viso di lui sulla sua spalla, e piano, quasi con paura, gli
accarezzo i lunghi capelli. La mano prima titubante, poi delicata sul fiume di
capelli scuri [in cui rimanere avvinghiati, e affogare e morire].
Poi alzò gli occhi, e [finalmente] Tifa guardò la pioggia.
Vincent si risvegliò nel buio dell’elicottero.
Erano in movimento. Decine di luci lampeggianti si muovevano discrete sui
vari pannelli e poteva vedere le braccia di lei apparire dalla sedia dallo
schienale alto in cui era seduta. Immaginava i suoi occhi mentre pilotava:
attenti, seri, concentrati. Lei non ammetteva mai sbagli da se stessa, e il
fatto di essere ancora vivo, e di averle parlato ancora, accendeva una piccola
speranza in lui [che forse non era stato solo uno sbaglio per lei, quel
giorno].
Si mosse piano, ancora frastornato, con la testa pesante cercava di abituare
gli occhi a quell’oscurità.
Doveva essere svenuto, e Tifa aveva dovuto trascinarlo dentro, probabilmente.
Aveva ripiegato il mantello, formando un cuscino improvvisato [peccato non
aver sentito quelle mani su di lui, ancora], e l’aveva sdraiato dietro di
lei [giusto per sentirlo respirare].
Il buio attorno a loro, e oltre ancora, fuori, la notte.
Vincent si alzò, e con un gesto svagato si tolse la polvere e la sabbia dai
vestiti, poi, con qualche passo la raggiunse e poggiò le mani dietro lo
schienale. Poteva sentirlo quasi, il suo profumo salire e ottenebrargli la
mente.
<< Ben svegliato >> le mani sicure nel comandare il veicolo e gli
occhi fermi davanti a se.
<< Dove siamo ?>> [e il profumo saliva e la pioggia non
brillava più se lei non la guardava] chiese con tono incolore [se lei non
piangeva].
<< Lontani ancora, ma non troppo. Altre tre ore, o forse anche meno se
il tempo migliora >>
<< Non ci spererei >> fece eco Vincent, mentre scrutava le nubi
oltre i vetri e andava a riprendere il suo mantello.
Tifa tacque, al suono dei fulmini che si scaricavano a terra, sotto di loro.
Si morse le labbra e poi parlò.
<< Ma tu, nell’arrivo del sole ci speri mai? Si si, proprio il sole,
sai, quella sfera gialla che dicono ci mantenga vivi >>
Scrutava il suo volto riflesso nel vetro che la guardava. Lei guardava lui, e
lui guardava lei nel vetro [e nella pioggia, che improvvisamente ricominciava
a brillare] .
<< Cosa vuoi dire? >>
Le labbra di lui, [rosse, dannatamente rosse] si muovevano
[trasparenti e rosse] sul vetro. Lei le guardava e moriva [di nuovo,
lei moriva nel saperlo morto in vita].
<< Niente, niente. Lascia perdere >> disse maledicendosi per
l’ennesima volta. Forse lui nemmeno sapeva cos’era il sole. O forse non sapeva
cosa significare attendere. O entrambi, e quindi le sue erano parole vuote.
Era solo lui, sempre lui, sempre il solito.
Tifa sbuffò, portandosi dietro le orecchie un ciuffo di capelli: Vincent
Valentine catturò quel gesto con la coda degli occhi.
Il sole non arrivò, però in compenso, continuò a piovere.
Arrivarono al quartiere generale che era l’alba. C’erano pochi soldati
assonnati fuori ad accoglierli e segnalare le manovre d’atterraggio, ma quando
Vincent scese dall’elicottero quell’aria di svogliatezza e di sonnolenza, sembrò
volatilizzarsi come nebbia al sole.
Tifa atterrò, perfetta come sempre [l’idea perfetta di una libellula
perfetta], esattamente dove le era stato segnalato. Si liberò delle cinture
di sicurezza, e si concesse un respiro più lungo degli altri: si passò una mano
tra i capelli e chiuse gli occhi. Vincent aspettò, in silenzio. Forse non aveva
il diritto di vederla così. [debole, per un attimo, come in quel giorno].
Si alzò dalla sedia e si sgranchì le gambe: scese prima di lui, con un piccolo
salto.
Ad accoglierli c’era Shalua Rui, che sorrideva, una volta tanto. Andò
incontro a Tifa salutandola con cortesia.
Cadeva una pioggia leggera, notò Vincent. Niente a che vedere con quel
giorno.
<< Ci incontriamo di nuovo, Valentine >>
Tifa guardò Shalua che guardava Vincent che guardava il cielo [la
pioggia].
<< Dov’è Reeve? >> tagliò corto lui. Lei lo guardò.
<< Seguitemi >> disse ad entrambi, dirigendosi verso l’entrata
del quartier generale WRO.
Tifa dietro Shalua lanciava occhiate a Vincent, non vista. E lui l’aveva
guardata, per un solo attimo.
Poi, il suo sguardo era tornato vuoto [e spento, al riparo dalla
pioggia], mentre entravano nell’enorme palazzo azzurrognolo. Troppa luce
artificiale, per i suoi occhi.
E per la sua memoria che rimaneva ancora fuori a bagnarsi [nella pioggia
che brillava, quel giorno].
Tifa lo guardava [e anche le lacrime sembravano brillare].
Reeve Tuesti veniva verso di loro con lo sguardo accigliato: delle rughe si
disegnavano sulla sua fronte, e gli occhi scuri sembravano gli occhi di pece dei
corvi. La sua lunga veste blu frusciava ad ogni movimento.
Tutt’intorno, un chiacchiericcio continuo di soldati ed impiegati della WRO
che guardavano incuriositi i nuovi venuti.
<< Vincent. >> disse con un’intonazione che lasciava chiaramente
trasparire il suo sollievo nel rivederlo più o meno incolume. Si voltò verso
Tifa.
<< Grazie per avermelo riportato qui, sei stata veloce >>
Tifa fece spallucce, e sorrise tra se e se.
<< Possiamo parlare? >> fece Vincent a Reeve. << Da soli.
>>
Reeve guardò Tifa, e lei sorrise.
<< Esco fuori, tanto ha quasi finito di piovere >> e accennando
un piccolo inchino con il cenno del capo si incamminò verso i giardini.
Davvero, aveva quasi finito di piovere ormai.
Vincent non lo vedeva, ma forse il sole stava davvero sorgendo all’orizzonte
[però in ogni caso lui non lo vedeva].
Lui, quel bagliore, lo percepiva solo nella pioggia [che brillava solo
quando lei piangeva].
Seguì in silenzio Reeve all’interno del Quartier Generale, sempre più in
profondità.
Tifa aveva seguito la strada per i giardini, evitando accuratamente di
sbagliare strada e andare a finire nei campi di addestramento reclute, o di
esercitazione. Li sentiva ancora dentro, tutti quegli spari [tutti dentro di
lei]
Aveva bisogno di un po’ di pace [aveva bisogno di stare lontano da
lui]
Rivederlo dopo tre anni, e mantenere quella calma.
Si complimentò mentalmente con se stessa, mentre varcava una grande porta di
vetro, ed entrava nello spazio verde della struttura.
La luce [abbagliante] le ferì [e] gli occhi [finta], e
con una mano, prontamente se li schermò.
C’erano alberi e fontane, in piccole piazzette circolari, e qualche
panchina.
Chissà se ci sono anche gli uccellini, pensò
ridendo.
Camminò sotto la luce e guardò in alto, il cielo si colorava di ambra lontano
da loro, ma il sole, quello non si vedeva. Cercò una panchina vicino alla
fontana e vi si sedette, abbandonandosi allo schienale e chiudendo gli
occhi.
Solo l’acqua che gorgogliava nella fontana e il suo respiro a riempire
l’ambiente, poi il nulla. Il fruscio del vento, quando si alzava e soffiava. Ma
l’aria era ferma attorno a lei. Immobile in maniera quasi innaturale.
Però c’era qualcos’altro che si muoveva in lei, qualcosa come un vecchio
ricordo, come una cicatrice ancora vistosa nonostante il tempo trascorso.
Qualcosa che aveva voluto dimenticare.
E che invece era dentro di lei [e dentro lui]: così profonda, così
radicata.
Shalua Rui entrò nel giardino, con lo sguardo assorto, per poi sobbalzare
quasi, sorpresa nel trovare qualcun altro.
<< Credevo fosse con gli altri >> disse la dottoressa.
<< Pensavo lo stesso di lei >> stava mordendo una mela [rossa
come], notò Tifa. Con il braccio buono però: l’altro giaceva sempre
seminascosto dal camice [i suoi occhi].
Rimasero a guardarsi per qualche attimo, poi Tifa le fece segno di sedersi
accanto a lei e Shalua si avvicinò, accompagnata dal rumore dei tacchi sul
vialetto bianco.
<< Di cosa staranno parlando mai quei due? >>
Shalua rise, e la guardò quasi complice.
<< Di morte e distruzione, tanto per cambiare >>
Tifa tacque, Shalua perse il proprio sguardo nelle iridescenze morbide
dell’acqua.
<< Non c’è altro di cui parlare di questi tempi, in effetti. >>
aggiunse silenziosa, con fare stanco.
Rimasero in silenzio, a guardare dritto davanti a loro.
Fuori intanto il sole veniva coperto di nuovo.
Solo che questa volta, non erano nuvole, e l’allarme cominciò a suonare,
suonare e quasi a strillare, squarciando tutto quel silenzio che avevano
miracolosamente creato.
Reeve vacillò, perdendo quasi l’equilibrio al primo attacco che si schiantò
contro il palazzo.
Da aria, da terra: gli allarmi trillavano e le luci diventavano rosse.
Vincent era già corso via quando lui si era voltato.
Fuori si sentivano gli spari e vetri e porte che venivano schiantate, ma
tutto, anche le urla, giungevano attutite.
Si chiuse dentro, vigliaccamente. Dietro di se i rumori scomparivano,
bloccati dalle porte a tenuta stagna.
A lui piaceva combattere al riparo.
Shalua Rua e Tifa Lockhart si alzarono di malavoglia dalla loro panchina,
abbandonando alberi e fontane.
La dottoressa camminò spedita davanti a se, Tifa invece si fermo, e bloccò le
porte del giardino.
<< Mi dispiacerebbe vederlo distrutto >> disse Tifa, parlando
quasi a se stessa.
[Come quel giorno, con tutto quel sangue e tutta quella pioggia]
Poi prese la sua pistola: non legò nemmeno i capelli.
Si ricordava quello che le aveva detto Vincent, tre anni fa, prima di quel
giorno [in cui lei aveva pianto].
Era davvero bellissima quando combatteva.
Con quei capelli che si aprivano a ventaglio e l’avvolgevano in un turbinio
di notte, gli occhi fermi e imperscrutabili sui nemici, i movimenti perfetti e
mai, davvero mai, imprecisi.
Le pallottole volavano nell’aria, accompagnate anche da materia che andava a
ricercare carne in cui affondare, in maniera quasi vorace. I membri WRO cadevano
a terra con troppa facilità [come fai a pensare che sono umani come
lei?], ma alcuni gruppi riuscivano a tenere testa ai membri Deepground.
Forse se la sarebbero cavata, lui però, avrebbe dovuto badare agli
altri.
Si avvicinavano in gruppi e poi si spargevano per i piani, portando supporto
ai vari soldati. Il passo pesante, le armi pesanti.
Molto fastidiosi, davvero.
Come delle zanzare, pensò Vincent. E come loro
andavano schiacciati.
Si avventò sui primi che trovò, intenti a cercare di bloccargli la strada. Li
schiantò velocemente al muro, per poi sorpassarli e raggiungere quelle dannate
macchine: li fece fuori usando la materia esplosiva, quella più indicata per i
combattimenti ravvicinati, conservando la Blizzard per quando se ne sarebbe
presentata l’occasione. E se cominciava a capire la tecnica che quei bastardi
usavano, il momento non sarebbe tardato poi così tanto ad arrivare. Avanzava a
passi sicuri, esplodendo i proiettili tenendo il braccio ben dritto davanti a
se: soldati e macchine cadevano quasi in ginocchio davanti a lui, che li
scostava con movimenti veloci dei piedi. Piano dopo piano, sembrava che la
situazione migliorasse. Eppure c’era ancora qualcuno che mancava, o forse più di
uno…
Gettò uno sguardo sotto di lui: anche Shalua sembrava cavarsela. Era proprio
vero che le donne riescono a combattere quasi senza subire il proprio
abbigliamento, che nel caso della ricercatrice era quanto di più scomodo Vincent
avesse visto.
Tifa invece, poteva apparire strano, ma combatteva meravigliosamente quando
pioveva [quando il sole che cerca continuamente è lontano, terribilmente
lontano], quando le gocce accompagnavano i suoi movimenti, come
assecondandola. L’aveva vista uscire, accompagnando altri membri per liberare la
zona antistante alla struttura.
Lei aveva alzato un attimo lo sguardo per cercarlo [come il sole], ma
non era riuscita a vederlo [davvero, troppa luce].
Vincent pensò che in fin dei conti era nella pioggia che vivevano [che si
cercavano e si trovavano] e che nella pioggia sarebbero morti.
Poi, finalmente, chi cercava arrivò.
E anche quella cosa dentro di lui.
I membri che erano riusciti ad arrivare sani e salvi alle mitragliatrici
avevano cominciato a sparare senza controllo, quasi isterici. Cosa alquanto
comprensibile, considerando che non avevano nessuno che li supportasse, così
Tifa, la pistola ben pronta in mano, condusse parte dei soldati che erano con
lei verso le mitragliatrici a ruota, facendo cenno ai ragazzi che le comandavano
di cercare di calmarsi per permettere così loro di supportarli.
Fu quando sentì un rumore di molte, molte pale che capì che se non avesse
preso in mano lei stessa la situazione, avrebbero finito i loro giorni in quel
prato.
Spostò velocemente il ragazzo che era seduto sulla postazione, ed impostò ben
presto la macchina su lei stessa: i rumori si facevano sempre più vicini e anche
il calcolo approssimativo che cercava di farsi aumentava. Cinque, dieci,
quindici…e poi, anche qualcos’altro si avvicinava.
I membri WRO si guardavano attorno cercando di farsi coraggio: una brunetta
dagli occhi limpidi stringeva la sua arma con una determinazione che fece
sorridere Tifa.
La ragazza in questione, pensò, doveva per forza aver perso qualcuno in
questa guerra così insensata, altrimenti quella rabbia, non si poteva
spiegare.
Tifa riprese in mano la guida della macchina, i muscoli tesi e pronti ad
agire all’avvistamento del primo nemico e quando finalmente una macchia bruna si
manifestò in cielo, mirò decisa verso di lei e cominciò a sparare
all’impazzata.
Fu in quell’attimo che gli altri arrivarono alle spalle, e, persa com’era nel
far andare ogni singolo colpo a segno, non li sentì.
Risplendeva d’azzurro [come le scintille di mako, quel giorno], e
anche il sangue attorno a lui sembrava risplendere della stessa luce
azzurrognola. Aveva negli occhi l’amore feroce per la guerra, e nelle mani
quella specie di cannone che si portava sempre dietro, annerito dai frequenti
spari. Quando lo vide, sembrò che Azul non vedesse nient’altro.
Ma in realtà non guardava Vincent, quanto la luce che lo avvolgeva.
Era il caos.
Era Chaos.
Vincent si sentì mozzare il fiato, e una fitta al petto lo costrinse
violentemente a piegarsi in due per il dolore: vedeva tutto in maniera così
nitida che per un attimo gli sembrò [di essere tornato a quel giorno]che
gli occhi potessero andare a fuoco, ed esplodere e lui con loro.
Poi, come la marea, la sua coscienza sembrò ritirarsi [davvero, proprio
come quel giorno]
Azul il Ceruleo si beò di quella visione. Il potere fluiva nell’artefatto che
aveva davanti. Artefatto, perché forse di umano c’era davvero poco e per un
attimo, il mostro si compiacque del mostro.
Quando Chaos prese il pieno possesso di Vincent, Azul si fece avanti,
leccandosi le labbra, quasi lussurioso.
E poi la terra cominciò a tremare.
Fuori Tifa aveva abbattuto 12 aeronavi, e da quanto riusciva a capire forse
non ne mancavano poi tante.
Il dolore alle braccia, alle gambe, al corpo intero sembrava non riguardarla.
Erano distanti: come i rumori, come il suo stesso corpo, come le persone che
cadevano attorno a lei e che abbandonavano una casa, un posto, un amico, un
amante. Un sogno.
Lei volava.
Era un angelo terribile con le ali di fuoco, pronto a sterminare per salvare
ciò a cui più teneva.
Divorava il male con gli occhi e fondeva nel sangue e nel ferro, la carne e
le coscienze: le sue unghie perforavano il metallo e la mitra, succhiavano vita
con il pensiero.
Lei volava, e viveva.
Solo in quel mare di sangue, e proiettili [e di mako, che brillava
pulsante ]poteva davvero scatenarsi, perdere per un attimo quella grazia che
gli altri le attribuivano. Era solo e semplice furia, soltanto disperazione.
Soltanto una tremenda disperazione.
Come quel giorno, con tutti quei proiettili, e tutte quelle urla.
Quando lei aveva pianto, e la pioggia aveva cominciato a brillare.
Quel giorno, si.
***
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mai]."