Black
heart never forgets
“La sola funzione della memoria
è di aiutarci a rimpiangere”
Emil Cioran
Dicembre 1995
Grimmauld Place nr 12
Lo scroscio della pioggia nel grembo della notte assorda.
Il respiro glaciale dell'inverno si è
rappreso sui vetri in una condensa lattiginosa.
Sirius alza il pugno e lo sfrega contro il
vetro, smorzandone lo stridio di protesta con lo spesso guanto di lana.
Uno scivolo di limpido cielo notturno cola sullo
schermo opalescente della finestra ghiacciata.
Le pupille dell'uomo si accostano ansiose a
quell'insperato squarcio di mondo.
Il riverbero fumoso dei lampioni in strada
scivola attraverso il vetro sulle ossa del suo volto, scolpendone gli
zigomi, spigolosi come ali di gabbiano in volo. Ombre indugiano negli
anfratti di quella maschera immobile; nere pennellate si allungano sul
sottile labbro superiore e nell'incavo delle guance smorte.
Un lungo sospiro si gonfia nel petto scarno
– s'impiglia rauco in gola e fugge infine in un sibilo tra i
denti serrati.
Lo sfarfallio d'attesa nei suoi occhi si oscura
dell'ennesima frustrazione: il mondo là fuori è
una prigione solo un po’ più grande della casa che
lo segrega – infinitamente più piccola di quella
della sua memoria.
Dà le spalle ai ricordi, ma quelli
sono ovunque.
Lo attendono appena aldilà del
pallore nebbioso del vetro, nella vista dell'odiosa piazzetta quadrata,
ingombra di case su tre dei quattro lati; appena un passo oltre le
fragili difese della sua mente, nel riflesso impietrito dei propri
occhi vivi, eppure anticamente morti.
La memoria è una maledizione e una
malattia.
Ovunque si volti, essa è pronta a
riprendere una caccia spietata. Soprattutto al buio
s’intensifica quella crudele persecuzione.
Ma Sirius ha bisogno del buio per placare il
bruciore liquido sotto le palpebre scottanti.
Tutto al buio gli riesce più facile.
E’ ormai diventata la sua dimensione naturale.
Per così tanti anni è
stato una particella febbricitante, pulsante di vita, nell'orrido
tenebroso racchiuso dalle immense braccia rocciose di Azkaban, e il
battito del suo cuore, lento e disperato, ha scandito, insieme a quello
di tanti altri, la marcia inesorabile con cui si avvicina la Morte. Ma
essa era più dolce dei fantasmi proiettati da un informe
terrore… La Signora Nera scivolava con piedi di seta nel
buio – appena un formicolio sulla pelle, l'arricciarsi di un
brivido freddo sulla nuca… Il flessibile corpo, fatto
d'ombra e d'aria, s'insinuava tra le sbarre e veniva a deporre un bacio
silenzioso, indolore, sui farfuglii senza senso.
La Morte veniva a prenderseli, uno per uno, e
poi tornava a sgusciare fuori dalle celle, lasciandosi dietro sorrisi
ebeti di occhi immoti, cristallizzati nell'eternità senza
memoria.
Ora la luce gli causa un dolore quasi fisico.
Ogni raggio una stilettata nei suoi occhi: ferisce, scopre, denuda,
viola. Smuove gli spettri sul fondo torbido dei suoi pensieri.
Per questo, nessuna luce è mai accesa
in Grimmauld Place nr 12.
Al buio tutto è più
facile.
Il buio mantiene i segreti.
Sirius si muove per le stanze, silenzioso e in penombra.
Raramente ha bisogno di tendere le braccia a
sfiorare le pareti consunte: esse affiorano vivide dal pozzo di ricordi
della sua infanzia, uguali a come le ha lasciate una volta.
Sono tornate a stringerglisi addosso quelle
pareti; a soffocarlo gli alti soffitti scrostati; a ipnotizzarlo
l'ondeggiare violento, a una folata di vento, dei lampadari barocchi.
Il tintinnio delle teste dei cristalli, che
urtano l'uno contro l'altro, risuona come una risata melliflua:
«Sirius,
Sirius. Sei di nuovo qui, sei di nuovo qui»
sembrano cantilenare, prendendosi gioco della sua furia sofferente.
La figura emaciata si staglia livida contro
l'opacità della finestra.
Il passato affiora silenzioso tutt'intorno a
lui, come occhi nascosti in bui cespugli, serpeggiando con sguardo
sottile lungo la schiena irrigidita e le spalle cascanti.
Sirius sente il sussurro diabolico della casa,
malignamente eccitata dall'averlo di nuovo lì.
Nulla è paragonabile al tormento che
lo attanaglia dentro per essere finito ancora una volta nel grembo
delle sue più oscure paure infantili. Dopo aver lottato
senza tregua per lasciarla, ora si trova ancora in quella casa,
assediato dal cipiglio pretenzioso dei pesanti mobili di legno
pregiato, dalla sontuosità scolorita dei tappeti, che
sbuffano nuvolette asfissianti di polvere quando calpestati –
persino dalle venature d'oro sbrecciato che ancora rilucono, qua e
là, dai parati, quando sfiorate da una ditata di chiarore
lunare.
Niente è stato toccato da quando si
è trasferito lì.
Ragnatele ballerine ondeggiano negli angoli agli
spifferi invisibili che s'insinuano ovunque, da buchi nascosti, da
aperture fuggenti; i tarli perseverano nel loro incessante rosicare le
viscere di vecchie credenze; di tanto, in tanto lo scricchiare legnoso
del ventre delle poltrone polverose tradisce il fugace passatempo di
qualche grosso ratto affamato.
Da quando è giunto lì, i
roditori gli hanno dichiarato recisamente battaglia, decisi a mantenere
i privilegi che hanno loro consegnato lunghi anni di solitudine e
abbandono.
Strisciano da sotto armadi e scaffali,
accompagnati da scricchiolii lamentosi del legno sofferente; si
scavano, sfrontati, la tana nel velluto muffo dei divani, costellandoli
di morsi affrettati; le lunghe code filiformi s'inseguono tra i piedi
del massiccio tavolo in cucina; se la battono infine negli angoli
ombrosi, inseguiti da sporadiche lingue di candele morenti –
e sempre tornano a ripresentarsi.
Ma ogni loro provocazione è caduta
nel vuoto. Insospettatamente, lo strano inquilino sembra non aver
alcuna intenzione di rivendicare i propri diritti di padrone di casa;
anzi, si muove in essa come un intruso lui stesso, e non ha tentato
alcuno scherzetto per sbarazzarsi dei sorci.
E così essi spadroneggiano nella
vecchia dimora del Gramo.
Sirius non è meno irrispettoso di
loro, di quelli che ha ormai sarcasticamente ribattezzato "i miei
piccoli amici squittenti": affonda con gli stivali fangosi nei divani
di famiglia, scacciando prima eventuali ospiti importuni, e si lascia
avvolgere da una soffocante nuvola di polvere e stantio. Reclina la
testa irsuta sulla spalla e fa scivolare lo sguardo vuoto e apatico
davanti a sé, sforzandosi d'indovinare le forme acquattate
nella penombra. Gli risulta piuttosto facile: i suoi occhi trafiggono
il buio meglio di quelli di un gatto; riescono perfino a seguire le
infinite peripezie sorcine dentro e fuori dalla stanza.
Si chiede, vagamente, come facciano i topi a
sopportare la reclusione in quell'orrida, trista dimora.
Si dice che, se potesse, farebbe cambio in ogni
momento con la pelle sudicia di quelle creature e infilerebbe di corsa
il primo buco che porti all'esterno per non tornare mai più
nei paraggi di Grimmauld Place nr. 12.
Chissà, forse le spoglie dimesse di
un topo sarebbero sufficientemente sicure per camuffarlo agli occhi
inquisitori dei Mangiamorte, come furbescamente ha intuito Peter anni
prima.
Ma, ecco... quando quei due nomi –
"Mangiamorte" e "Peter" – saltano fuori dalla trappola a
scatto dei suoi pensieri, le labbra pallide si tendono in una linea
amara e gli occhi si velano, inghiottiti da un gorgo di fantasticherie
tormentose.
Le palpebre si adombrano, incalzate da ondate di
furia gelida e oscuri propositi di vendetta.
Spazzati via dopo un niente, perché
quasi sempre, a completare la funesta trinità di tetri
pensieri, ci si mette l'ultimo, il più terribile di tutti,
il più inconfessato, il più doloroso, il
più incancellabile, addirittura più opprimente
del ricordo di Azkaban – quasi altrettanto infelice. Regulus.
*
Dicembre 1979
Godric’s
Hollow
Casa
dei Potter
Nel dicembre del 1979 – un dicembre
particolarmente freddo, anche per le medie stagionali –
Sirius Black è un diciannovenne alto e pallido, dai capelli
neri portati troppo lunghi, la sciatta eleganza che contraddistingue
ogni suo gesto. La sua non è una bellezza
premeditata: come solo la vera bellezza, è frutto del caso.
Spontanea.
Sprizza dalla sua figura e lo riempie come fa la
luce del sole con un bicchiere colmo d'acqua, facendolo risplendere,
brillando attraverso di esso.
Sirius è bello e cupo.
Dietro la risata candida, gutturale, che
somiglia al latrato di un cane, dietro il luccichio malizioso degli
occhi affilati, dietro le pose spavalde e scomposte che pur tuttavia
mai perdono la loro innata attitudine "aristocratica" (Sirius riesce ad
avere classe anche con la bocca piena di pasticcio di carne e
purè di patate, o scaraventato in un fosso fangoso dal suo
amico lupastro quando ha la luna storta), c'è qualcosa. Qualcosa
che si porta dietro da sempre e che mai lo abbandonerà.
C'è il buio.
Basta che sia solo, che i suoi amici si
allontanino, che sia distante dagli occhi e dalle orecchie di
chicchessia, perchè la luce che irradia si spenga,
sopraffatta dall'oscurità che, a partire dal suo nome, si
sprigiona su tutta la sua persona, avvolgendolo.
Sirius, dentro, è nero. Nero come il
suo nome, i suoi occhi, i suoi capelli.
Ma non è malvagio.
Lui forse è stato l'unico della sua
famiglia a scampare alla tentazione – e al destino
– del Male.
Perchè, anche se di cognome fa Black,
il suo è il nome della stella più brillante del
cielo – ergo tutta quella luce non può essere
semplicemente inghiottita; è più forte del buio
che lo trascina, cercando di farlo suo.
Sono ormai due anni che ha abbandonato la sua
casa.
Ormai si rifiuta perfino di chiamarla
così.
Ora la sua casa è un'altra, quella
che lo ha accolto e ospitato come un figlio perduto da tanti anni e
miracolosamente ritrovato.
Scherzosamente, Charlus Potter lo definisce "il figliol prodigo".
Ma gli occhi gli brillano quando lo dice, e la sua manona assesta una
pacca poderosa sulla spalla di Sirius che risponde a sua volta col suo
sorriso sornione, sollevando solo un angolo della bocca.
Quest’anno si sono appena diplomati e
hanno lasciato Hogwarts per sempre, entrando a far parte
dell’Ordine della Fenice. Sono combattenti, ora, arruolati in
prima fila per opporsi all'ascesa di Lord Voldemort e
all’imperversare dei suoi seguaci.
Tra quei seguaci, nascosto sotto un cappuccio e
un mantello neri, ci potrebbe essere Regulus.
Sirius ci pensa ogni volta che combatte un
Mangiamorte a viso coperto, ogni volta che sente di qualcuno che ha
ucciso o fatto prigioniero un Mangiamorte. Il cuore gli salta sempre un
battito, anche quando si tratta di un accenno di volata su qualche
pagina del Profeta: non riesce a sbarazzarsi da quel fastidio sottile,
come un prurito sottopelle, tra i capelli, al pensiero che si possa
trattare di suo fratello; non ha pace finchè non si accerta
dell'identità dell'uomo mascherato.
Accade ogni volta: l'ansia, la fretta, l'urgenza
di sapere, quasi ossessiva – e poi la scoperta, il sollievo,
lo sgonfiarsi pian piano della bolla di angoscia. Che poi riprende a
dilatarsi ad ogni nuovo duello, ad ogni nuova battaglia di quella
guerra senza fine.
Sirius sa – sente – che
prima o poi si incontreranno. E scontreranno.
E che non farà nessunissima
differenza che siano fratelli o meno, che portino o meno lo stesso
cognome. Con Bellatrix, ad esempio, non ha mai fatto differenza.
Ma Regulus? Davvero non significa niente per
lui? Davvero sarebbe pronto a ucciderlo a sangue freddo, senza tremare,
come se si trattasse di un cane qualsiasi, di un nemico come tanti
altri? E anche se fosse in pericolo la sua vita, davvero oserebbe
alzare la mano su suo fratello?
Ma la scelta non è
granché: c'è Regulus da una parte, il Mangiamorte, e
dall'altra un mucchio di persone cui vuole bene – James,
prima di tutto, e Lily, Remus, Peter, Marlene... Un sacco di gente.
Gente che gli è stata accanto nel bene e nel male, con cui
condividerebbe tutto, cui si affiderebbe ad occhi chiusi, senza
esitazioni.
Si è creato una nuova vita con queste
persone, lontano dall'egida soffocante e cupa della sua famiglia.
Lontano da Reg.
Non sono mai stati uniti.
Eppure,
da piccoli, c'è stato un tempo in cui...
E’ il giorno di Natale quando vengono a portargli
la notizia.
Lui, James, Lily, Remus e Peter sono tutti
riuniti a casa dei Potter.
Sirius ricorderà per sempre l'abete verde scuro
che troneggia maestoso e immobile in un angolo, dispiegando sui rami
sfere di cristallo trasparenti nelle quali danzano luci fatate.
Ghiaccioli traslucidi pendono dagli aghi, e una spolverata di neve li
imbianca. Un abete vero, non uno di quei finti giocattolini sintetici e
spennati che addobbano le case Babbane.
Se ne sono occupati personalmente lui e Remus:
hanno chiesto il permesso a Silente e, accompagnati da Hagrid, sono
andati nella Foresta Proibita a procurarsene uno.
Hanno deciso, di comune accordo, che
è meglio lasciare un po’ da soli i due
piccioncini: d'altronde, James e Lily meritano di godersi i loro primi
mesi di sposini lontano da preoccupazioni e fatiche – e,
soprattutto, da terzi incomodi.
Nel 1979 festeggiano dunque il Natale nella casa
nuova dei Potter a Godric's Hollow.
Stanno per mettersi a tavola, davanti al
tacchino fumante che fa lacrimare gli occhi dalla fame al solo vederlo,
quando qualcuno suona al campanello.
James va ad aprire. I suoi capelli arruffati si
riflettono sulla porta a vetri dell'ingresso.
Grande il suo stupore quando appaiono la barba
bianca e i capelli bianchi di Albus Silente, in piedi sulle scale
spazzate dalla neve. Solo il pesante mantello color amaranto e il
cappello dello stesso colore gli consentono di distinguersi dalla
coltre immacolata che lo circonda e che uniforma il paesaggio.
Non si sa come sia arrivato lì: non
ci sono ombre sulla neve intorno, ne’ fiocchi sulla tesa del
cappello o sulle spalle. I suoi abiti sono meravigliosamente asciutti,
anche se la punta arcuata del lungo naso comincia ad arrossare, segno
che il suo proprietario è piuttosto infreddolito, sotto il
pesante tabarro.
«Professore!»
Il Preside si scusa per essere giunto senza
preavviso, dice che è stata una cosa... ehm, improvvisa, ma
che non può essere assolutamente rimandata.
James si affretta a fargli spazio nell'ingresso.
C'è qualcosa, nella voce del Preside, di insolitamente
grave.
Intuisce immediatamente che dev’essere
successo qualche guaio. E il cuore gli si stringe, mentre di
là viene il vociare dell'allegra comitiva, il tintinnio di
piatti e bicchieri, le risate – e sopra tutto, la risata
canina di Sirius.
Il battito gli si fa lento e torpido nel petto.
Chi sa perchè, ma non appena Silente
varca la porta, e anche prima che pronunci qualsiasi parola, ha la
nettissima sensazione che sia lì per Sirius. Tra tutti
quanti, proprio lui.
Non James, nè Lily, nè
Remus, nè Peter.
Sirius.
Quando entrano in sala da pranzo, Black si sta
ancora sbellicando per qualcosa che evidentemente ha detto Lily. Lei
tiene le mani sui fianchi, con un cipiglio che vorrebbe essere serio,
ma un angolo della sua bocca si solleva suo malgrado. Non è
possibile resistere alla risata contagiosa di Felpato, stravaccato
sulla sedia come suo solito, dondolando sulle gambe posteriori.
Remus tiene lo sguardo fisso su di lui, le
labbra curve in un sorriso pieno, gli occhi scintillanti, palesemente
divertito dell’ilarità dell’amico.
Peter si volta quando James e Silente entrano.
«Sono mortificato di dovervi disturbare. Sono qui
per parlare con Sirius» dice Silente con voce tranquilla.
Il sorriso si congela lentamente sul volto di
Sirius. Tiene lo sguardo fisso sul Preside e non lo sposta, come se
vedesse in anticipo, nella sua mente, cosa debba dirgli.
«Possiamo parlare in privato, per
favore?»
«Certo, andate pure di
là.» James scorta il Preside in salotto.
Sirius lo segue dopo un po’. Anche la
sua andatura sembra essersi fatta d'un colpo cauta e rigida.
Silente si è accomodato sul divano,
sollevando i lunghi lembi dell'ampia veste da Mago.
I suoi occhi si posano benevoli su Sirius, che
sta ancora in piedi, le mani affondate nelle tasche.
«E’ meglio che ti siedi,
Sirius...»
«Grazie, professore, preferisco stare
in piedi, se non le dispiace.»
Il tono suona più brusco del voluto.
C'è qualcosa, nella voce di Felpato, improvvisamente
più roca, più aspra, come se grattasse contro le
pareti della sua gola. Se la schiarisce; i suoi occhi neri tornano a
guizzare sull'uomo seduto sul divano, che in tutto questo tempo non si
è mosso né ha distolto lo sguardo da lui, sereno
e imperturbabile come sempre.
«Allora? Di cosa voleva parlarmi,
professore? Problemi al Quartier Generale?»
Mentre lo dice, simulando una voce leggera che
non gli appartiene affatto, non ci crede nemmeno lui. Se Silente avesse
voluto discutere di questioni inerenti l'Ordine, avrebbe potuto farlo
benissimo davanti a James e tutti gli altri. Tutti fanno parte
dell'Ordine, non è un segreto per nessuno.
No, evidentemente c'è sotto qualcosa
che interessa lui e lui solo.
«Non c'è fretta,
Sirius» lo blandisce l’anziano Mago,
«beviamo prima qualcosa.»
Fa apparire, con un gesto rapido e sicuro, una
bottiglia trasparente e un paio di bicchieri, nonostante lui stesso
abbia rifiutato, appena un attimo prima, qualsiasi bevanda o cibo James
abbia insistito per offrirgli. Bottiglia e bicchieri atterrano sul
tavolino basso davanti al divano. Il tappo vola via a un cenno della
bacchetta e la bottiglia si inclina da sola a mescere due generose dosi
di idromele.
Uno dei due bicchieri si solleva con grazia e
volteggia silenziosamente verso Sirius, ma lui non lo prende.
«No, grazie.» Di fronte allo sguardo educato di
Silente, si sente in dovere di aggiungere qualcosa, per far apparire
meno scorbutico il suo rifiuto: «Non bevo... prima dei
pasti.»
Mentre dice queste parole, un lampo sarcastico
gli attraversa lo sguardo. Per un attimo un angolo della sua bocca si
torce in su, ma subito dopo il suo volto torna ad annuvolarsi e gli
occhi precipitano di nuovo in un'ombra cupa.
«Insisto.» La voce di
Silente è gentile, ma Sirius ha come l'impressione che non
accetterebbe un secondo rifiuto.
Stizzito, afferra il bicchiere sospeso davanti a
sé, ma non lo porta alla bocca.
«Di cosa voleva parlarmi?»
ripete, fissando l'anziano Mago.
Sente qualcosa muoversi su e giù nel
suo petto, qualcosa che vuole essere liberata. Vuole che glielo dica e
che la faccia finita, qualunque cosa sia.
Silente trae un lungo, profondo respiro che gli
fa ondeggiare i baffi bianchi. I suoi occhialini a mezzaluna sembrano
velarsi all'improvviso, come di una preoccupazione grave.
«Si tratta di Regulus.»
Ecco.
Ci siamo, si dice Sirius, e il suo cuore prende a battere
più forte, come quello di un corridore che accelera per la
volata finale.
«Come ben sai, tuo fratello si
è unito alle fila di Voldemort da quasi un anno,
ormai...»
Tipico di Silente, pensa Sirius: girare intorno
alla faccenda prima di affondare il colpo mortale. In un'altra
occasione apprezzerebbe la sua delicatezza e il suo tatto di sondare il
terreno prima di avventurarsi oltre, ma adesso gli provoca solo un moto
di stizza.
Non vuole aspettare. Non vuole sentire niente.
Vuole che gli dica perché
è venuto e basta.
Non ha bisogno di ascoltare la storia di Regulus
daccapo. Non gli interessa sapere cos'abbia combinato in quell'ultimo
anno, di quali crimini si sia macchiato – dopo il primo, dopo
il Marchio.
«Veniamo al sodo.»
La voce quieta di Silente si interrompe
bruscamente, ma il Preside non sembra arrabbiato. Si limita a guardare
intensamente Sirius al di sopra degli occhiali a mezzaluna, e una luce
inspiegabile scintilla in essi.
Sospira di nuovo, ancora più
profondamente, poi lo guarda all'improvviso e Sirius sussulta,
perchè il suo sguardo è come una lama –
se ne sente trafitto in profondità e, per un attimo, si
dimentica come si fa a respirare.
«Non lo immagini, Sirius?»
La voce dell'uomo è grave, vibra di
una grande pietà trattenuta. Sul suo viso,
l’espressione di un indicibile dolore.
Sirius si irrigidisce, come colpito da una
fattura. Il vetro che stringe tra le dita è diventato caldo
e appiccicoso di sudore. Se lo rigira cautamente nel palmo madido,
cercando il contatto con la superficie ancora fredda.
Si sente improvvisamente più conscio
di ogni sua sensazione e di ogni singola parte del suo corpo. Del
pavimento saldo, duro sotto i suoi piedi – eppure
ora non gli sembra più così solido, anzi, vacilla
pericolosamente, come la tolda di una nave in un oceano tempestoso.
E’ forse uno scherzo dei suoi occhi,
ma le pareti del salone dei Potter ondeggiano nel suo campo visivo e
per un attimo è tutto buio.
E in quel buio compare una luce: piccola
dapprima, si fa via via più grande, fino ad occupare tutto
il suo campo visivo. Talmente intensa da abbagliarlo.
Poi quel sipario di luce si apre e Sirius ha
come una visione, dall'alto, di un puntino nero, lontano lontano,
laggiù sul fondo della luce. E’ circondato da un
riflesso verdastro, ma tutt'intorno c'è del nero. Nero
liquido, nero agitato da corpi frementi che emergono da esso,
strisciando sempre più verso il puntino.
E ora non è più un
puntino, ma una figura umana, piccola piccola, lontanissima, eppure non
c'è dubbio di chi si tratti. Lotta per non lasciarsi
sopraffare, ma sempre più debolmente. Mani scheletriche sono
su di lui, tutt'intorno a lui; mani che lo trascinano giù.
Le sue unghie afferrano per l'ultima volta, impotenti, la nera, liscia
pietra dell'isolotto roccioso.
Un attimo dopo la sua testa nera torna al nero
delle acque che si richiudono ribollendo su di essa, ricoprendolo
completamente, nascondendolo alla vista. Rimane solo il riflesso verde
del bacile vuoto al centro.
Quel riflesso si dilata, torna la luce di prima,
e altrettanto rapidamente scompare, sostituendosi ad esso il bagliore
chiaro e nitido delle lampade del salone dei Potter, che riverberano
sugli occhiali del Preside.
«E’ morto?»
Non c'è espressione nella voce di
Sirius. Non c'è colore, non c'è alcuna sfumatura
– piatta e fredda e grigia come metallo asettico.
Non chiede quand'è successo, come
l'abbia saputo.
Dice solo: «E' morto?» e
senza aspettare risposta si dirige verso la finestra.
Sente l'idromele sballottare nel bicchiere che
ancora stringe in mano. Lo stringe più forte, aggrappandosi
ad esso.
«E' morto?» ripete per la
terza volta.
Non ha bisogno di una risposta, ma al tempo
stesso la pretende, con quella nota accorata nella voce che dice
chiaramente che non si sentirebbe in pace finché non abbia
ricevuto un sì o un no.
«Sì» scandisce la
voce del Preside alle sue spalle.
Come se quella sillaba gli avesse precipitato
addosso un macigno sproporzionato, le spalle diritte di Sirius si
curvano, la fiera testa si piega in avanti, e i capelli calano a
nascondergli il viso.
Si appoggia con una mano alla finestra e il suo
fiato appanna il vetro. Fuori continua a nevicare, ma a fiocchi radi e
deboli. Le dita premute contro il vetro tremano, pallide, agonizzanti.
Premono talmente forte che i polpastrelli sono sbiancati.
Dura un minuto, forse. Poi le spalle e la testa
si raddrizzano e le dita si rifugiano in tasca, per nascondere il
tremito.
Si volta lentamente a fronteggiare il Preside. I
suoi occhi sono rossi, ma asciutti.
«Ha avuto quello che meritava. Sapeva
quale fine avrebbe fatto quando è diventato un
Mangiamorte.»
«Non lo pensi davvero, Sirius. Non
posso credere che lo pensi davvero.»
In quel momento, non visto, di soppiatto, Remus
sgattaiola nella stanza.
Sirius fa un altro sorriso storto, amaro,
sofferente.
Smette subito.
Abbassa lo sguardo sull'idromele che stringe in
mano, lo solleva lentamente facendo il gesto di portarselo alla bocca,
ma prima che gli sfiori le labbra scaglia il bicchiere lontano.
Quello va a frangersi contro la parete con uno
schianto assordante, schizzando idromele dorato ovunque, sulla
tappezzeria, sui divani, sul tappeto...
Silente non dice niente. I suoi occhi sono gravi
e pieni di pietà. Fa un cenno a Remus, il quale risponde
annuendo impercettibilmente.
Il Preside si alza ed esce dalla stanza con
appena un fruscio dell’ampio manto color porpora, lasciando i
due amici soli.
«Lily non sarà
contenta» dice all’improvviso la voce di Remus,
dall’angolo della stanza dove si è rifugiato,
accanto ai cocci del bicchiere infranto e alla carta da parati
grondante.
Sirius ride.
Ma c'è qualcosa di storto, che
deforma in modo innaturale la sua risata canina, rendendola
più selvaggia e meno umana del solito. Si spegne in un
gorgoglio soffocato, incastrato nel fondo della gola.
Remus lo sente lottare per respirare. Non dice
nulla – copre in pochi passi la distanza che li separa e lo
abbraccia.
«Mi dispiace, Sirius.»
«Di cosa?» ringhia,
«Un Mangiamorte in meno.»
«Era il tuo unico fratello. Ora sei
solo.»
«Sono sempre stato figlio unico,
Remus, ricordi? Non ho mai avuto nè padre, nè
madre, né fratello. Sono solo da sempre.»
Remus sospira contro il suo maglione.
«Gli volevi bene, lo so.»
Lo sente irrigidirsi pericolosamente e la
ragione lo ammonisce che sarebbe meglio non continuare, ma il cuore,
testardo, prosegue: «Ti senti in colpa per lui. Per non
essere riuscito a salvarlo.»
«Lui non ha mai voluto essere
salvato» dice Sirius a fatica, dopo un minuto di silenzio.
«Nemmeno tu. Voi Black amate la
vertigine del vuoto; volete tramontare. Amate la morte, più
che la vita. Ma tu sei stato più fortunato di Regulus: hai
incontrato amici più testardi della tua ostinazione. Non ti
permetteremmo mai di mollare, mai.»
Sirius non risponde. Guarda fuori dalla finestra
il paesaggio silenzioso immerso nella neve e immagina che il corpo di
suo fratello riposi lì da qualche parte sotto quel manto
immacolato, sceso dal cielo a purificarlo dai suoi peccati, a
cancellare le sue colpe, a restituirgli il diritto al suo riposo eterno.
Regulus è morto. L'ultimo filo che lo
lega alla sua famiglia è spezzato.
Sirius è solo per sempre.
Ma, dentro di sé, è
contento che ci sia Remus, appena al di là della sua
solitudine.
*
Dicembre 1995
Grimmauld
Place nr 12
Ma ora Remus non c'è. E questo è il
diciassettesimo Natale dalla morte di Regulus.
Sirius è davvero solo, stavolta. Non
sa che la sua solitudine non durerà a lungo.
Questo sarà anche l'ultimo Natale
della sua vita, ma lui non può immaginarlo.
La morte non gli fa paura. In un certo senso,
è già
morto, dunque è una realtà che
conosce bene.
E’ morto durante la sua infanzia, lo
ha ucciso suo padre, ma soprattutto sua madre; è morto con
Regulus prima, con James e Lily poi; con Marlene, Dorcas, Gideon,
Fabian e tutti gli amici e colleghi che se ne sono andati prima di lui.
A preparargli la strada,
sogghigna, disperatamente tetro, a
scaldargli il posto.
E’ morto insieme alla coscienza di
Alice e Frank.
E’ morto ad Azkaban, lapidato
dall’infamante accusa di tradimento.
È morto quando Codaliscia
è fuggito, ancora una volta – e ancora una volta
negandogli la libertà e il riscatto.
Sirius muore un po’ ogni volta che la
lingua biforcuta di Mocciosus gli insinua frecciate sibilline, accuse
velate, nelle orecchie, facendogliele scivolare giù fino al
cuore. Sono parole che pesano come macigni, lo rendono irrequieto,
riempiono di lampi i suoi occhi spiritati, facendolo apparire
più che mai una maschera che di vivo ha solo quello: gli
occhi.
Gli occhi che aveva lui, che erano
anche i suoi.
Ha sbagliato tutto con Reg, ma non
può tornare indietro.
È stanco. E’ stufo di
essere additato come un traditore: dai Black prima, da Minus poi. Di
essere ricercato come un criminale dall’intero mondo Magico,
presunto colpevole di un crimine che tuttora non esiterebbe a
commettere, nemmeno se Harry gli si parasse di fronte pregandolo di
risparmiare la vita a Codaliscia ancora una volta.
È stufo di vedere gli innocenti
spazzati via dalla faccia della terra mentre i malvagi continuano ad
avvelenarla e a consumarla, come parassiti.
È stufo che non ci sia giustizia, a
questo mondo.
Ed è stufo soprattutto di essere
solo: lo è stato durante la sua infanzia prima, ad Azkaban
poi; e ora lo è di nuovo, solo, qui nella sua
vecchia, tetra casa.
Con solo i ratti come compagni.
E la memoria, a rosolarlo a fuoco lento.
Questa sarà una lunga notte. Una
notte di ricordi.
*
1976
Grimmauld
Place nr 12
Oggi Sirius Black lascerà la sua casa per sempre.
«Che stai facendo, per Salazar?» La sua
voce irritante ti coglie alle spalle.
Chino sul baule, fingi di non averlo sentito.
Speri che se ne vada, tuo fratello è più molesto
di un tafano.
Passi leggeri, poi la punta dei suoi lustri
stivali di pelle – quelli che mammina gli ha
regalato l’ultimo Natale – invadono il tuo campo
visivo, il tuo spazio vitale.
Il suo odore ti da’ fastidio. Lo
respiri ogni volta che passi davanti alla sua stanza, ogni volta che ti
sta vicino – troppo vicino. Ti infastidisce forse
perché è così diverso dal tuo. Da
piccoli, invece, tu e Reg avevate esattamente lo stesso odore.
«Perché stai riempiendo il
baule?» La sua voce è sospettosa,
insopportabilmente petulante.
«Mammina
non ti ha insegnato che fare domande è cattiva
educazione?» lo provochi sarcastico, scavalcando il baule con
un’ampia falcata – molto canina, a dire il vero
– e urtandolo di proposito con la spalla.
Una smorfia di dolore appare sulle labbra
delicate di Reg. Si massaggia il petto, lì dove
l’hai colpito, con la mano, al di sopra del maglioncino di
cashmere. Disgustosamente pregiato. Disgustosamente pretenzioso.
Disgustosamente costoso. Fa a pugni con la sua espressione chiusa,
diffidente, contrariata.
Stai cercando la tua bacchetta. Rovisti sotto
l’armadio, dietro il letto, nei cassetti. Non riesci a
trovarla e il tuo nervosismo aumenta di minuto in minuto.
Regulus è dietro di te, immobile, e
non dice nulla. Senti i suoi occhi perforarti accusatori e la cosa non
contribuisce a rallegrarti.
«Per le mutande di Merlino, ma dove
è finita?» Ti fermi al centro della stanza, le
mani sui fianchi, ogni tanto te ne passi una nei capelli, afferrandoti
le ciocche nere e stringendo, quasi fino a strappartele, come a voler
spremere dalle meningi quell’informazione che ti sfugge
– proprio adesso, in un momento così cruciale.
Chiudi gli occhi, coprendoti il viso con le
mani, sforzandoti di ricordare… Il mal di testa che inizia a
pulsare dietro l’occhio sinistro non aiuta.
«Stai cercando la tua bacchetta,
vero?»
Il tuo sorriso storto è nascosto
dalle dita, ma il sarcasmo increspa sordo e tetro la tua voce, mentre
dici:
«Certo che no. Mi sto fingendo pazzo
aspettando che tu te ne vada.»
Regulus ti guarda incerto, non sa se prenderti
sul serio o no, e la cosa peggiora di colpo il tuo malumore.
«Hai capito, fratellino? Porta le tue
chiappe Serpeverdi fuori dalla mia stanza. Va’ a giocare con
la tua scopa, chiedi alla mamma se puoi leccare i cimeli di famiglia,
gioca a Sparaschioppo con Kreacher, fa’ quel che cavolo di
pare e non seccarmi più con le tue domande idiote.»
Il viso pallido di tuo fratello prima sbianca,
poi arrossisce. Il suo labbro inferiore trema leggermente per la
rabbia; è così umiliato che sembra non trovare
parole.
«Lo dirò alla
mamma» riesce infine a sibilare, stringendo i pugni.
«Che cosa– di grazia
– le dirai?»
«Che vuoi andartene.»
Rimani un attimo in silenzio, spiazzato tuo
malgrado dalla perspicacia di tuo fratello, ma d’altronde non
potevi pretendere di nascondere a lungo i tuoi propositi…
«Chi ti dice che voglia andarmene? Sei
per caso impazzito, Reggie
caro?»
Reggie è il soprannome che detesta.
Solo vostra madre lo chiama così, ogni tanto, quando
è sicura che tu sia a portata d’orecchio. Alza
apposta la voce, come una vecchia gatta rauca, e si produce in quei
miagolii disgustosi che ti strizzano lo stomaco in un pugno di bile.
Ma Regulus non abbocca alla provocazione.
«Stai riempiendo il baule con tutte le tue cose»
continua, ostinato, «I tuoi vestiti mancano
dall’armadio. Hai messo tutto dentro tranne la tua scopa.
Dove stai andando, Sirius?»
La testardaggine con cui ti pone quella domanda
ti fa quasi sorridere.
Gli volti le spalle con noncuranza.
«Non sono affari tuoi.»
Continui a ispezionare la stanza e la memoria in
cerca della bacchetta. Nel frattempo, raccogli qua e là
oggetti vari dal pavimento, gettandoli nel baule. Non che ti serva
molto, per la fuga.
«Stai andando da quel Potter,
vero?»
Digrigni silenziosamente i denti, dentro di te,
pur senza girarti. Ti chiedi come faccia Regulus a indovinare
così facilmente e così in fretta. A Hogwarts
è ben noto il sodalizio malandrino con James, né
ti sei mai preoccupato di nasconderlo a Regulus, quand’era
nei paraggi.
Non ci giureresti, ma avverti una nota di
profondo disappunto nella sua voce. Come se…
«Anche se fosse? Sei per caso geloso,
Reggie?»
Lo vedi stringere di nuovo i pugni. Quando vuoi,
Sirius, sei insopportabile.
«Sì, sto andando da
James» ti limiti a confermare, scuotendo con sufficienza le
spalle. «Ne ho abbastanza di tutti voi. Non voglio
più vedervi.»
Una parte di te registra il sussulto che scuote
le spalle di Reg, ma l’altra parte preferisce ignorarlo.
«Me ne vado. E tu resterai qui a
marcire, per sempre. A farti abbracciare da quella disgustosa vecchia
megera con le sue zampacce aristocratiche e a farti vestire e
impomatare come un animaletto imbalsamato, e... sai una cosa? Penso
proprio che finirai come i nostri cari Elfi Domestici: appeso al muro
dalle amorevoli mani di nostra madre in persona. Ed è questo
che vuoi, vero, Reg? Saresti disposto a tutto pur di assecondarla,
perché continui ad elogiarti e tu a gonfiarti di
soddisfazione come un pavone vanesio. Sei ridicolo. Ridicolo, patetico
ragazzino.»
Gli volti di nuovo le spalle.
Non temi ritorsioni. Sai che Regulus non ti
attaccherebbe mai, né di petto, né alle spalle.
Semplicemente, non è nella sua natura il confronto diretto,
il corpo a corpo. Lui è tipo da sotterfugi e vendette covate
nell’ombra, non certo da battaglia aperta.
Infatti non lo senti lanciarsi su di te.
Ma all’improvviso, anche se non si
è avvicinato, anche se non ha mosso apparentemente un
muscolo, ti senti scagliato in aria come da un turbine di vento e luce.
Atterri, faccia a terra, sul pavimento di legno.
Senti il tuo naso spezzarsi con un sonoro crac, ammortizzato
dalla spessa moquette polverosa. Inali tonnellate di polvere che ti
fanno girare la testa.
Puntellandoti su una mano, giri la testa
indietro. Eccolo lì, tuo fratello, in piedi con
l’aria oltraggiata di un re che invoca vendetta, con in mano
la bacchetta – la tua
bacchetta, la riconosceresti tra mille.
Il tuo orgoglio ferito ti fa fremere come una
belva. Ma sorridi,
mentre ti rimetti in piedi.
Sorridi un sorriso pericoloso e abbagliante,
mentre con il dorso della mano strofini via il sangue che cola dalle
narici.
«Ma che bravo, hai imparato anche
qualche incantesimo di difesa, allora? Oltre alle maledizioni e alle
fatture che ti hanno insegnato i tuoi amichetti? Chi ti da’
lezioni, Voldemort in persona?»
Tutto il colore e la vita defluiscono dal viso
di Regulus. I suoi occhi si sbarrano per il terrore – o
l’ammirazione?
Cerca di metterci più odio possibile
mentre dice:
«Ti credi tanto spavaldo a pronunciare
il nome dell’Oscuro Signore? Credi di essere
coraggioso?»
«E tu?» replichi in un
impeto di rabbia assassina, tanto che Reg indietreggia istintivamente.
«Tu ti credi così furbo a riverirlo, a chiamarlo
“Mio Signore”?
Credi che leccargli il culo ti farà diventare più
forte, o più coraggioso, o più
intelligente?» Scoppi in una risata aggressiva, corrosiva.
«No, no, mi dispiace, piccolo Reggie. Per quello non
basterebbe neppure l’incantesimo più potente che
un Mago conosca…»
Regulus alza di nuovo la bacchetta, vinto
dall’odio.
Ma tu sei più veloce. Ti aspettavi
quella mossa.
Lo placchi come un giocatore di rugby
– è uno sport babbano di cui hai sentito la Evans
discutere con Marlene – abbrancandolo alla vita prima che
possa scagliarti un altro incantesimo, stavolta non di difesa.
Regulus è un Cercatore. È
piccolo, è agile, è scattante, ma la rabbia gli
appanna la vista, gli intorpidisce le membra. Non riesce a sfuggire.
Senti le sue ossa agitarsi follemente nella tua stretta, le sue unghie
graffiarti un lato del viso, fino alla tempia, mentre con
l’altra mano gli immobilizzi il polso. Stringi forte,
incurante dei lamenti che gli sfuggono tra i denti, finchè
le sue dita non si aprono e la bacchetta scivola con un tonfo sordo
sulla moquette. Tunk.
Potresti anche lasciarlo andare, adesso, ma
qualcosa te lo impedisce. Qualcosa – di perverso, di
malvagio, di sadico – dentro di te ti induce a guardare
dall’alto tuo fratello, fermo sul pavimento senza
possibilità di muoversi, riversandogli addosso tutta
l’irrisione e il sarcasmo possibili.
Facendogli sentire chi ha vinto. Dimostrandogli
chi è il più forte.
Proprio come una volta fece con te Bellatrix,
quando eri solo un bambino…
Per un attimo quel ricordo ti destabilizza, ti
confonde. Un moto di fastidio – e la consueta rabbia
bruciante che ormai associ a lei – ti sorge nel petto.
Contrariato dall’associazione inconscia, automatica, che
è scattata dentro di te.
Ma tanto tu sai benissimo di non essere come
lei, di non somigliarle nemmeno lontanamente.
Bellatrix è una bestia. È
malvagia fin nell’animo. Tu invece…
Già, tu invece non stai mettendo
sotto tuo fratello valendoti della tua superiore forza fisica, dopo
averlo deriso e provocato e insultato?
Che
c’entra, dice una voce dentro di te, la meno
buona, Reg se lo merita.
È un imbecille.
E’ diverso. Tu sei diverso da
Bellatrix.
Tu non faresti mai del male a un innocente.
Eppure, man mano che continui a pensarci, un
senso di penosa incertezza, di scomoda agitazione, ti cresce dentro.
Perché guardi tuo fratello negli
occhi, vinto, abbattuto, sotto di te, in lacrime di frustrazione
– e sì, anche di dolore, perché non ci
sei certo andato per il sottile – e nei suoi occhi,
così simili ai tuoi, non ci vedi niente che possa
giustificare le tue azioni.
Non c’è colpa. Solo una
smisurata innocenza.
E, per Merlino! I suoi occhi sono proprio uguali
ai tuoi. Uguali identici. Sono proprio
i tuoi.
Con un impulso improvviso, gli lasci andare i
polsi che hai tenuto inchiodati fino a quel momento a terra, per
impedirgli di difendersi, e ti scopri a pensare che non è
stato un atteggiamento molto onorevole il tuo, ingaggiare una lotta
così impari. Non è stato molto
“Grifonesco”.
Sì, hai agito per legittima difesa,
insorge la solita vocina, Regulus aveva una bacchetta e stava per
affatturarti, ma tu l’hai provocato, hai scelto apposta ogni
singola parola per ferirlo e indurlo allo scontro, e sai benissimo di
essere molto più forte, fisicamente, del tuo fratellino.
Sai come importi su di lui, come sopraffarlo,
non per niente hai sempre vinto in tutte le lotte che facevate da
piccoli.
Tanto
tempo fa. Quando ancora giocavate insieme.
Quando Reg era sì, sempre piccolo e
ossuto, ma aveva lo sguardo caldo e la bocca ridente, quando si
rivolgeva a te.
Tanto
tempo fa.
Ti sollevi, liberandolo dal tuo peso, e allunghi
una mano ad afferrare la bacchetta. Ti rialzi soffiando via la polvere
e la strofini in una piega della t-shirt che indossi, cercando di
cancellare le impronte. Le impronte di Regulus. La bacchetta non
è sua, d'altronde.
Poi borbotti un “Epismendo”,
puntandotela contro il naso. Istantaneamente, le ossa rivanno al loro
posto, incastrandosi di nuovo perfettamente tra loro, ricomponendo la
fisionomia diritta e austera del tuo profilo perfetto.
Soddisfatto, fai un passo avanti, calpestando il
tappeto della stanza.
Sei piuttosto bravo a scuola. E lo saresti molto
di più se non fossi così scansafatiche e non
passassi praticamente i tre quarti del tuo tempo in punizione con
James. L’altro quarto lo impiegate a inventare stratagemmi
per farvi mettere in punizione e questa cosa fa sollevare puntualmente
gli occhi al cielo per l’esasperazione a Remus e ridacchiare
ammirato Codaliscia.
Il pensiero di James ti risolleva un
po’ le viscere, che avevi lasciato da qualche parte nei
calzini, dopo il battibecco con Regulus. Il volto del tuo migliore
amico basta a cancellare ogni senso di colpa, e la stessa presenza di
tuo fratello nella stanza.
Imbaldanzito, agiti la bacchetta e cominci a far
fioccare oggetti vari dagli angoli della stanza, dritto
all’interno del baule.
«Non glielo hai detto,
vero?» La voce di Regulus si leva un po’ distorta,
umidiccia, come se si stesse sforzando per trattenere le lacrime.
Eppure non puoi ignorare la soddisfazione
cattiva che la impregna all'improvviso, come inchiostro nero e spesso.
Basta quel tono a farti rizzare i peli sulle braccia, mentre cerchi
disperatamente di ignorarlo.
«Detto cosa? Di che stai
parlando?» La tua voce è dura, ma eviti
accuratamente di girarti a guardarlo negli occhi.
Quegli occhi simili ai tuoi. Quegli occhi
proprio identici ai tuoi.
Una risatina gorgoglia alle tue spalle. Reg tira
su col naso, mentre un tramestio pesante annuncia che si sta rimettendo
in piedi.
Vorresti
che fosse ancora a terra.
Vorresti soprattutto chiudergli la bocca,
fermare quelle parole prima che vengano pronunciate. Ma è
troppo tardi.
«Non glielo hai detto, al tuo
amichetto Potter, perché vuoi veramente andartene da questa
casa?»
Tunk.
La bacchetta ti è scivolata tra le dita.
Ti chini rapido a raccoglierla mentre senti la
fronte imperlarsi di sudore freddo. Dentro di te, il cervello si mette
in moto velocemente cercando di pensare a qualcosa, qualsiasi cosa, per
fermarlo.
«Qualunque sia il tuo stupido piano,
non ci cascherò, Reg.»
Peccato che dentro di te tu sappia benissimo che
ha ragione, così come lo sa lui. E questo da’
forza – e crudeltà – alle sue parole.
Perché ora lo sa, sa che è lui il più
forte tra voi due, sa che questo è il tuo punto debole, il
tuo segreto più oscuro, e non puoi difenderti.
«Perché non glielo hai
detto, Sir? Eppure siete così… amici.»
La sua voce sibillina si conficca come uno
spillo nella tua testa, affondando parola dopo parola, aprendoti come
un cuneo il cervello.
«Sta’ zitto, Reg. Tu non sai
nemmeno cosa vuol dire essere amici.»
Vorresti ferirlo, ma hai perso questo potere;
l’hai perso pochi minuti fa, quando quella risata cattiva
è salita dalla gola di tuo fratello, scaturita dalla
frustrazione e dall’umiliazione che prova per colpa tua.
«Nemmeno tu, a quanto pare. Tra i veri
amici non dovrebbero esserci segreti, o sbaglio?»
Senti i suoi passi lievi venire verso di te.
All’improvviso, il pensiero di averlo vicino, di respirare di
nuovo il suo odore – il suo odore che non è il
tuo, non più – ti cola fuoco liquido nelle vene.
Come un cobra aizzato da un bastone, ti volti su
te stesso brandendo la bacchetta. Un po’ tremante, la punti
contro il suo petto, costringendolo a fermarsi. Costringendo te stesso
a rimanere lucido, a smettere di tremare.
Con l’altra mano ti asciughi il sudore
dalla fronte. A questo gesto, ti sembra di intravedere un lampo
soddisfatto nello sguardo di Reg.
Lui è tranquillo. Ha quel ghigno
distorto sul viso che lo rende più simile a te che mai. Che
te lo fa odiare.
«Ora basta. Chiudi il becco, Reg, o
sarà peggio per te.»
«Perché, altrimenti cosa
fai? Mi uccidi?»
Avanza verso di te, lentamente, con le braccia
spalancate, in una muta, assurda provocazione. Lo scintillio nei suoi
occhi, nel suo sorriso, è insostenibile.
«E’ dura sentirsi dire la
verità, vero, Sir? Non ti piace che i tuoi amichetti ti
conoscano per quello che sei veramente…»
«Sta’ zitto, Reg. Non te lo
ripeterò ancora. Non costringermi a…»
Lui scoppia a ridere e tu ti rendi conto
dell’assurdo capovolgimento della situazione. Fino a un
minuto fa eri tu a deriderlo e insultarlo, ora è lui che ha
il coltello dalla parte del manico.
Altrettanto improvvisamente, la risata di
Regulus si interrompe e il suo sguardo si fissa su di te. È
freddo, è calcolato, è privo di sentimento.
È uno sguardo che non gli appartiene.
È crudele, è sadico, è pazzo.
È vostra madre che ti guarda,
attraverso gli occhi di tuo fratello.
È sempre stata lei a spiarti, ovunque
tu andassi, con i suoi occhi aguzzi e dissennati.
Anche la voce che fuoriesce dalle sottili labbra
esangui di Reg non è la voce di Reg:
«Perché
non sei un bravo bambino, Sirius? Perché non fai il bravo?»
Ecco, è questo il momento esatto in
cui impazzisci.
Dentro di te, scatta qualcosa.
Qualcos’altro prende fuoco. Perdi il controllo.
È solo un puro caso che tu non lo
uccida, che la bacchetta non colpisca il bersaglio, annientandolo
all’istante.
È solo perché la tua furia
è troppo fisica, troppo sanguigna e istintiva –
solo perché ti sei slanciato in avanti ancor prima di
sollevare la bacchetta – che Regulus non muore. È
solo perché ti da’ più soddisfazione
prenderlo a pugni che scagliargli fatture che tuo fratello ha salva la
vita.
Senza nemmeno rendertene conto, ti trovi a
scagliare lontano la bacchetta e, obbedendo al più
primordiale degli istinti, gli balzi addosso colpendolo con foga
inaudita. Il corpo gracile di Regulus stramazza a terra con un grido
soffocato. Uno spruzzo rossastro esala insieme al suo gemito, mentre il
labbro squarciato perde copiosamente sangue, colando sul colletto
inamidato e sul maglioncino di cashmere che si impregna immediatamente.
Non sai nemmeno tu cosa ti abbia fermato. Cosa
ti impedisca, tuttora, di fare a pezzi quell’idiota di tuo
fratello, fargli sputare fino all’ultima goccia di quello
schifoso sangue di cui va così fiero.
Vorresti averlo sotto di te per fargli
rimangiare le orribili parole che ti ha riversato addosso.
Ma anche se fosse possibile che si scusasse, sai
che non cambierebbe molto. Quelle continuerebbero a risuonare come un
motivetto monotono nella tua testa. Da lì, niente potrebbe
cancellarle.
Anche se Reg non le avesse pronunciate, non
potresti comunque dimenticarle. Non potresti strapparti dal cuore il
momento in cui le hai udite per la prima volta, dove, e da chi. Niente
potrebbe fartelo dimenticare.
Sono schegge di metallo nel sedimento limaccioso
della tua anima. Da lì, ti avvelenano lentamente. Sono
indissolubilmente legate a un miscuglio di emozioni violente, rosse
come il sangue, rosse come la vergogna, come la rabbia. Sono dolore, e
umiliazione, e impotenza, e raccapriccio. Sono nausea impastata con
odio.
Ecco perché hai reagito in modo
così violento. Dovevi impedire che quelle parole sporcassero
anche le labbra di tuo fratello. Sono parole che non gli appartengono,
che lui non dovrebbe conoscere, lui che dovrebbe preservare ancora
intatta la sua innocenza.
Anche quella voce non gli
apparteneva, e quegli occhi non erano i suoi.
Forse è stata la tua immaginazione
delirante, un raptus di pura psicosi, a sovrapporre l’odiato
volto al suo e a riversarti brividi di orrore lungo il corpo, al solo
sentir ripetere quelle parole.
“Perché non sei un bravo
bambino, Sirius? Perché non fai il bravo?”
«Non. Dirlo. Mai.
Più.»
La tua voce scandisce le sillabe come rintocchi
funebri.
Reg è a terra, raggomitolato come
senza più vita. E in effetti tutta la vita sembra aver
abbandonato il suo volto terreo, che forse lo sembra ancor di
più per via del contrasto sanguigno che lo imbratta dal
mento in giù.
Distogli lo sguardo da lui, prima che il senso
di colpa torni a morderti la coscienza.
Incominci a gettare l’ultima roba
rimasta, alla rinfusa, nel baule. Non ti curi di usare la Magia,
anzi… in questo momento hai bisogno di impegnare le mani, di
fare qualcosa di “fisico”, altrimenti le
chiuderesti volentieri intorno all’esile collo di cigno,
femmineo nella sua grazia alabastrina, di Reg. E poi le useresti con
piacere per martellarti la testa fino a perdere la memoria e la
coscienza.
Ma sai che non succederà. Ricordare
sarà da oggi in poi la tua maledizione.
*
Dicembre 1995
Grimmauld
Place nr 12
Da quel lontano 1976 non sei mai più tornato a
casa. Non hai mai più rivisto i tuoi.
Di Reg hai saputo della sua morte da Silente.
Per un attimo, davanti a quella finestra gelata, ti sei ricordato di
quell’ultima volta in cui vi siete visti. E di tutta la
rabbia e la repulsione che hai dovuto seppellire e imparare a
controllare per rimettere piede in questa casa.
Ricordi, Sirius. Se potessi dimenticare, sarebbe
più felice. Ma non puoi dimenticare.
Nemmeno il quadro appeso giù
nell’ingresso dimentica. Anche solo passarci davanti, con le
tende ben tirate, ti fa pizzicare la pelle di disgusto. Quel fiato
ripugnante solleva ancora la vecchia stoffa tarmata, accompagnando ogni
respiro dell’occupante della tela. Le daresti fuoco, se non
fosse protetta da incantesimi astuti, e se non rischiassi di
distruggere l’intera casa. Non che ti dispiacerebbe, ma ora
è il Quartier Generale dell’Ordine. Non puoi fare
un simile torto a Silente, distruggendoglielo in quattro e
quattr’otto.
E poi, fra non molto, arriverà Harry.
E i Weasley. E ci saranno Remus e Alastor e Kingsley.
E perché no, verrà a farsi
un bicchierino di Whisky Ogden Stravecchio anche quel lestofante
ubriacone di Mundungus, lui e le sue pulci di vecchio bastardo
randagio.
Mediti su tutto questo davanti a una bottiglia di whisky.
Sei seduto sul pavimento gelido, la schiena
addossata alla gelida parete sotto la finestra da cui hai appena
sbirciato fuori. Immerso nel buio. Solo il bagliore affilato dei tuoi
denti, dischiusi in un sorriso ringhioso, permette di localizzare il
tuo viso. E il riflesso della bottiglia sciaguattante che sollevi a
intervalli periodici, con gesti meccanici, accompagnata da un gorgoglio
avido nella gola e un sospiro di soddisfazione a ogni sorso.
Ma ogni sorso è troppo breve e il
whisky non basta a cancellare i ricordi.
Cerchi di consolarti guardando al futuro, ma non
ti riesce tanto bene. Sei troppo abituato a soffocare nel passato per
poterti librare verso il domani.
E pensi che magari, quando la guerra sarà finita,
quando Voldemort morirà – perché tu non
ci credi all’immortalità, tu che hai visto la
Signora Nera faccia a faccia e che te la porti dentro, a ogni passo,
non puoi pensare che esista qualcuno che non muore, quando
tu stesso muori ogni giorno – tu ed Harry potrete vivere
insieme, lì. In Grimmauld Place nr 12.
Odieresti meno questa casa, se Harry fosse qui
con te. E potrebbe diventare una vera casa, se qualcuno venisse ad
abitarla, a portarvi un po’ di luce e di gioia.
Se Harry venisse, ti toccherebbe rassettare
mobili e tappeti, spolverare, mettere in ordine, liberarti degli
orrendi cimeli, delle vestaglie strangolatrici, dei Doxy annidati nelle
tende, dei medaglioni che non vogliono saperne di aprirsi. Dovresti
ripulirla e farne una degna abitazione per il tuo figlioccio.
E tu saresti felice. Oh, sì, saresti
l’uomo più felice e più triste del
mondo, perché a quel punto non potresti davvero
più abbandonare quella casa, saresti vincolato ad essa per
sempre.
Ti aggrappi a quel pensiero, a Harry, per andare
avanti.
Sì, quando la guerra sarà
finita…
Quando
Voldemort morirà…
Il torpore comincia a invaderti.
Hai quasi chiuso gli occhi quando si leva, lenta
e impastata, la tua voce ubriaca di whisky scadente, ormai muffito.
Canticchi un motivetto stonato con quella tua voce arrugginita che
suona come una vecchia fisarmonica lamentosa.
Le nebbie dell’alcol ti avvolgono
rapidamente.
Ti trovi ben presto isolato al centro della
tenebra semicosciente, tu e la tua canzone gracchiante che si
interrompe a tratti, tra un singhiozzo e un colpo di tosse, e prosegue
così, a scatti, a volte flebile e stridente come un cardine
male oliato, a volte grave e tonda come il rombare di una frana sul
dorso di un monte.
Stranamente, a mano a mano che il canto prosegue
e la sonnolenza ti sopraffa, le parole cambiano. Nella tua testa,
assumono un suono diverso. Assumono vita propria. Strisciano
direttamente dalla porta aperta dello scantinato buio dei tuoi
pensieri, resuscitando lo stagno melmoso dei tuoi ricordi
più distruttivi.
Dal passato, dal profondo,
dall’orrido, si insinuano, pesanti come piombo, parole
lontane lontane, che messe insieme risuonano, ripetute
all’infinito, come una cantilena spettrale, priva di senso,
eppure tremenda, pur nell’inconscio del sogno.
“Perché
non sei un bravo bambino? Perché non sei un bravo bambino?
Perchè? Perché, Sirius? Perchè
perchè perchè...”
Tunk.
La bottiglia cade a terra. La mano che la reggeva rimane ferma e
aperta, mentre sulla bocca del suo padrone si spengono le ultime note
stonate e il sonno ti ruba la coscienza. Ma non ti da’
tranquillità.
Per tutta la notte, ti rigiri e ti agiti nel
sonno, svegliandoti a più riprese senza ricordarlo,
precipitando di incubo in incubo. Unica colonna sonora quella frase che
ti assilla e ti tormenta.
Questa notte non puoi avere pace. Il passato
torna a riassalirti: se non sottoforma di ricordo, nelle spoglie del
sogno – e non è meno terribile.
Nella stanza accanto, l’Ippogrifo Fierobecco raspa
nervosamente un angolo di moquette lisa con il grosso artiglio
coriaceo. Sente i mugolii agitati del suo padrone, preda dell'
incoscienza, che ha dimenticato di dargli la cena, troppo preso dalla
malinconia e dalla contemplazione della finestra spenta per ricordarsi
di lui.
Ma Fierobecco non si perde d’animo.
Il suo ferino occhio arancione ruota con
eleganza da un lato, l’artiglio scatta fulmineo nella
penombra, uno squittio spiaccicato e lo schiocco del rostro possente
che sparge brandelli sul pavimento.
Almeno a qualcosa servono, i topi.
Fine
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