That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Chains - IV.019
- L'Amore e la Morte
Meissa Sherton
Hogwarts, Highlands - sab. 15 gennaio 1972
La bella mattinata passata con Sirius a lezione di
Volo mi aveva distratto un po', ma ero ancora scossa per la rissa tra
mio fratello e MacNair, nei sotterranei, per questo non riuscivo a
concentrarmi sui libri. Mi chiedevo se quell'energumeno avrebbe
finalmente smesso di darci il tormento: ero rimasta così
scioccata vedendo Rigel a terra, incapace di difendersi, che,
nonostante il disagio che provavo nei suoi confronti, ero riuscita a
impormi con Lucius Malfoy, perché, come Prefetto, prendesse
le parti di Rigel davanti a Slughorn. Non ero sicura di essere stata
convincente, forse Lucius aveva altri motivi, più personali,
per denunciare MacNair, ciò che contava per me,
però, era che, invece di deridermi, nostro cugino mi avesse
sostenuto e ora Walden fosse in guai seri.
Ormai era pomeriggio inoltrato e mi trovavo da un paio di ore in
biblioteca, per una ricerca inconcludente sugli usi della Passiflora,
nascosta, con Pauline McDougal e altre due ragazze Ravenclaw della
Confraternita, in un angolino tranquillo, vicino alla finestra, lontana
dalle ochette amiche della Dickens, impegnate a pavoneggiarsi davanti a
William Emerson e altri ragazzi del Quidditch. Lily e Severus si erano
sistemati al solito tavolo in fondo alla stanza: ormai lo chiamavo il
“tavolo di Severus” perché,
così in ombra e defilato, era rifuggito da tutti, a parte
lui. Sirius e i suoi amici, invece, non si erano visti e la cosa non mi
sorprendeva troppo: James Potter, a lezione, mi era sembrato parecchio
su di giri, in faccia la solita aria da “combina
guai” e, in effetti, a pranzo, Yaxley aveva sghignazzato con
Severus, dicendo che erano stati beccati da Mastro Filch a fare
“qualcosa” intorno agli armadietti. Sospirai,
rassegnata: di sicuro avevano rimediato l'ennesima punizione e non
avrei visto Sirius, se non a lezione, per giorni e giorni.
Fissai lo sguardo oltre i vetri, le montagne ingrigivano velocemente,
si stava facendo buio, i pochi studenti che si erano attardati nel
parco a giocare con la neve stavano rientrando attraverso i cortili,
infreddoliti: i miei occhi, però, ora non si soffermavano
più su nulla perché, finito quel lungo giorno, la
mia mente scivolava di nuovo a Londra per fissarsi su Mirzam e sul
processo.
A
quest'ora forse è già tutto finito e anche il
destino di mio fratello è stato deciso...
Ero così presa dai miei pensieri che, all'inizio, quando
Janine Emerson raggiunse il nostro tavolo, trafelata, per dirci che
Rigel era scomparso nella Foresta Proibita, neanche compresi le sue
parole; messo a fuoco, infine, il senso del discorso, mi resi conto di
quanto fosse ormai buio e rimasi pietrificata dalla paura, convinta che
non fosse un caso, che, qualsiasi cosa fosse successa, il responsabile,
ancora una volta, fosse MacNair... e che perciò…
fosse indirettamente colpa mia...
Lasciai libri e pergamene sul tavolo e seguii Janine fino in Sala
Grande, via via con più difficoltà per il gran
numero di studenti che stava accorrendo: quando arrivammo, Slughorn e
la Sprout stavano organizzando i gruppi di ragazzi degli ultimi due
anni per le ricerche nel parco, vidi uscire Lucius Malfoy e Amos
Diggory, Caposcuola degli Hufflepuff, con le loro squadre; i Ravenclaw
e i Gryffindors erano invece già fuori, bacchette alla mano,
al seguito della McGonagall e di Flitwick.
Evan Rosier era in piedi, vicino a uno dei caminetti, silenzioso, il
mantello ancora umido di neve addosso, il volto arrossato dal freddo:
Rigel era uscito con lui e con Lestrange, quel pomeriggio, doveva
essere stato lui, perciò, a dare l'allarme, probabilmente
era l'unico a sapere come stessero le cose. Volevo parlargli ma c'era
molta confusione, quando raggiunsi il caminetto, se ne stava andando, a
capo di un gruppo di studenti del sesto anno, per controllare una
porzione di foresta nei pressi della capanna del Guardiacaccia. Provai
a raggiungerlo ma fui rallentata da un gruppo di Hufflepuff,
finché Narcissa Black mi afferrò la mano, mi
aiutò a uscire dalla mischia e tentò di
rassicurarmi, ripetendomi di stare tranquilla, che l'avrebbero
ritrovato presto e che, non potendo fare nulla, era meglio che
aspettassi con le altre in Sala Comune. Non ebbi il tempo di replicare,
mi sospinse verso i sotterranei; invano tentai di divincolarmi, dicevo
che volevo andare fuori, con gli altri, a cercare mio fratello o
raggiungere la Guferia per avvertire i miei genitori e chiedere il loro
aiuto, ma Narcissa e le sue amiche cercavano “di farmi
ragionare”, con i loro discorsi inutili.
«Basta! Lasciami! Lasciatemi
andare! Tutte! Lo so che è “buio” e
“freddo”, che potrei “farmi
male”... ma non resterò qui, a poltrire con voi,
nei sotterranei! C'è mio fratello, là
fuori!»
Eravamo davanti all'ingresso dei dormitori quando urlai loro contro:
Narcissa, lo sguardo indecifrabile, mi lasciò la mano
all'istante ed io, per un momento, sotto quell'aria angelica, ebbi
l'impressione di scorgere la stessa espressione minacciosa e
inesorabile di sua zia, Walburga Black. Ebbi paura, di lei, della sua
reazione, di averla offesa e di essere, per questo, punita, dopo alcuni
attimi di esitazione, però, capii che non avrebbe fatto
ricorso alla sua carica di Prefetto per farmi passare dei guai. Si
limitò a fissarmi, severa. Non dovevo reagire
così, lo sapevo, mia madre ripeteva sempre che, anche nei
momenti più difficili, non si deve mai perdere il controllo,
per questo chiesi subito scusa, a tutte loro. Eppure non mi sentivo
mortificata come le altre volte.
Reagire era stato maleducato e ingiusto, Narcissa e le altre non mi
avevano fatto nulla di male, eppure… eppure non mi sentivo
in colpa e non mi vergognavo, anzi… sembrava che lasciar
esplodere la mia rabbia contro qualcuno mi avesse alleggerito il cuore
per alcuni istanti. Non capivo che cosa mi stesse succedendo. Da
settimane, dal matrimonio di Mirzam, a parte i momenti sereni passati
con Myrddin e con Sirius, ogni nuova giornata sembrava riservarmi solo
brutte sorprese ed io mi chiedevo quando sarebbe finita. Non sopportavo
più di essere bersagliata da quelli che vivevo come continui
soprusi e ingiustizie e, ancora di più, ne avevo abbastanza
di non riuscire mai a difendermi, impormi, ribellarmi. Ero stanca.
Stanca di subire. Stanca di non riuscire a opporre resistenza. Era
cambiato qualcosa in me la sera in cui Rabastan mi aveva spaventato a
morte: non avevo detto a nessuno quello che era successo, non solo
perché mi vergognavo troppo, ma
perché… denunciarlo e vederlo punito da un
professore non mi sembrava sufficiente. Volevo vendicarmi. Volevo
essere io a fargli qualcosa di brutto. E non mi riferivo certo agli
scherzi con cui da sempre rispondevo alle sciocche angherie di Rigel.
Non mi ero mai sentita così… cattiva…
volevo che Rabastan stesse male, che avesse paura come ne avevo avuta
io, e volevo che sapesse che ero io la causa della sua
sofferenza… e che per questo mi temesse, stesse lontano da
me. Era un pensiero orribile e a volte mi sentivo male quando ci
pensavo, eppure… mi dispiaceva molto di più
rendermi conto che, probabilmente, non sarei mai stata in grado di
togliermi quella “soddisfazione”.
Narcissa stava per dirmi qualcosa, quando si diffuse, rapida come
un'onda di piena, la notizia che il Guardiacaccia aveva ritrovato
Rigel, vicino al Lago Oscuro: scattai via da loro, raggiunsi le scale,
diretta in Sala Grande, muovendomi con sempre maggiore
difficoltà, ovunque c'erano tante persone, tutti volevano
sapere, vedere. Quando nell'atrio principale apparve, monumentale, la
figura del Mezzogigante che reggeva tra le braccia una specie di
fagotto, da cui uscivano, scompigliati e fradici di neve, i capelli
corvini di mio fratello, la ressa mi schiacciò contro la
parete, immobilizzandomi e lasciandomi indietro. Non sapevo se
scoppiare a piangere, spaventata dalla vista di mio fratello in quelle
condizioni, o urlare dall'esasperazione e dalla rabbia, contro quella
massa d’idioti che m’impediva di passare,
atteggiamenti poco consoni a una Slytherin, ancor meno a una Sherton,
certo, ma ero ormai allo stremo, non ce la facevo più.
Non da sola. Non così.
«Seguimi, Sherton!»
Una mano uscì dalla mischia, prese la mia, mi
tirò via dalla calca e, a suon di spintoni, si
aprì un varco lungo le scale e per i corridoi; poco per
volta, il mondo attorno a me smise di essere fatto di figure sfuocate,
viste attraverso la cortina di lacrime, guardai la mano, il braccio cui
era attaccata, i capelli biondi che arrivavano appena a coprire il
colletto e il blu e il bronzo della cravatta Ravenclaw. William
Emerson, travolgendo persino energumeni grossi il doppio di lui e
beccandosi strattoni e minacce, giunse infine davanti all'infermeria,
bussò e quando la voce di Madame Pomfrey ci urlò
di andarcene, non si lasciò intimidire, spalancò
la porta, senza più nulla della sua abituale cortesia, e mi
spinse dentro, restando sull'uscio, con sguardo fermo, carico di sfida.
«Io no... ma lei
“deve” entrare...»
Ero spaventata e a disagio, per aver attirato su di me, in quel modo,
tutta quell'attenzione, ma William aveva ragione, dovevo entrare; gli
sorrisi e lui mi appoggiò la mano sulla spalla per farmi
coraggio: per la prima volta, da quando avevo a che fare con lui, non
mi dispiacque averlo vicino.
«Vai! Ti aspetto qui fuori...
voglio sapere tutto, dopo...»
Annuii e lo salutai, avanzai nella stanza, lentamente, col cuore in
gola: Hagrid era ai piedi del letto, quello in fondo alla camerata, il
più vicino all'ufficio della Guaritrice; Slughorn era a
sinistra, seduto accanto a mio fratello, una fila di boccette dal vetro
scuro disposte sul mobiletto al suo fianco; la Pomfrey incombeva su
Rigel dalla parte opposta, impegnata a fasciargli le mani, mentre il
Preside gli sentiva la fronte, forse per valutare la febbre. Mi
colpì trovarlo lì, non pensavo fosse
già tornato a scuola, Dumbledore era membro del Wizengamot,
avevo sentito mio padre inveire in molte occasioni contro di lui, per
sentenze contro amici della Confraternita o altri nostri conoscenti; e,
quel giorno, il supremo tribunale si era riunito per dibattere, tra le
altre, la sorte di mio fratello...
Se il Preside è già tornato, allora il processo a
Mirzam deve essere finito... Salazar...
«Entri signorina Sherton,
entri pure...»
Il Preside, con un’agilità insolita per un uomo
tanto anziano, lasciò mio fratello alle cure della Pomfrey e
mi raggiunse, sorridente, si fermò a pochi passi da me, a
metà della fila dei letti, impedendomi di avanzare ancora,
sbirciai oltre le sue spalle, la Guaritrice levò la
bacchetta, le bende si arrotolarono veloci attorno alle mani di Rigel;
Hagrid si avvicinò, il suo faccione peloso, di solito aperto
in un sorriso cordiale, sembrava oscurato dalla preoccupazione. Con
angoscia, mi accorsi che aveva tracce di sangue sul pastrano. Sbiancai.
«Salazar... che
cosa... è successo a mio fratello? Perché Hagrid
ha addosso quel sangue?»
Con un'occhiataccia, Dumbledore fece allontanare il Mezzogigante, che
si ritrasse, muto e avvilito, mentre la paura s’impadroniva
di me; rapido, il Preside mi offrì una sedia e mi si sedette
di fronte, estrasse un sacchettino dalla sua toga e mi offrì
una Cioccorana. Io rifiutai, sempre più agitata.
«Non tema, signorina Sherton,
suo fratello si è solo ferito alle mani, cadendo... non
è grave.»
«Caduto... Dove?
Perché?»
«Perché suo
fratello è stato così incosciente da uscire
appena mangiato, con questo freddo, benché glielo avessi
sconsigliato! Aveva già la febbre, stamani! Ma è
testardo, come suo padre! Stavolta però sarò
chiara con i genitori, il ragazzo non può agire sempre come
un irresponsabile!»
Bene,
ci mancava solo questa... stavolta papà lo
concerà per le feste!
Il Preside annuì alla Pomfrey, serio, poi, però
tornò a guardare me e mi sorrise, benevolo.
«Rigel deve aver avuto un
capogiro, a causa del freddo e della febbre; cadendo deve essere finito
tra i rovi e si è ferito alle mani... Sono tagli poco
profondi, ma ha bisogno di cure. Il signor Rosier ha avvisato il nostro
Rubeus prima di salire al castello, nonostante il solerte allarme,
però, suo fratello non è stato ritrovato subito,
per questo ora è in ipotermia... Lo stiamo tenendo al caldo
e abbiamo usato un po’ di Pozione Rimpolpasangue. Non deve
preoccuparsi, signorina Sherton... suo fratello tra poco si
sveglierà e lei potrà parlargli... Più
tardi, avviseremo anche i vostri genitori...»
Affondai le unghie nella carne, mentre annuivo: era la seconda volta,
solo quel giorno, che mi trovavo in infermeria per mio fratello, e
nonostante le rassicurazioni del Preside, ero a dir poco sconvolta,
soprattutto perché lo sentivo lamentarsi e fare dei versi
strani; Hagrid disse che per tutto il percorso Rigel aveva bofonchiato
di aquile e lupi, suscitando l’interesse del Preside, ma era
certo che fosse il delirio della febbre, perché non aveva
visto tracce di animali. Non capivo cosa gli stesse accadendo,
desideravo avere la mamma al mio fianco, sentirle dire che non dovevo
avere paura, che Rigel non stava davvero male, che non aveva nulla di
strano, che le Rune sbiadite non c'entravano nulla con la sua
debolezza. Che tutto ciò che mi spaventava sarebbe finito
presto... E per sempre.
Prima di rivedere la mamma, però, sarebbero passati mesi.
Mesi durante i quali, qualsiasi cosa fosse successa, Rigel ed io
avremmo dovuto cavarcela da soli: per un attimo, vergognandomene subito
dopo, mi augurai che il Preside insistesse sulla necessità
che i miei venissero a scuola, solo per affondare nell'abbraccio caldo
e sicuro di mia madre. Respirai a fondo, provai a convincermi che quel
periodo maledetto sarebbe finito, che Rigel ed io saremmo presto
tornati quelli di sempre, i fratelli che si detestavano, si
sbeffeggiavano, si vendicavano l'uno dell'altro, terribili e
implacabili.
… Rivoglio indietro i miei
fratelli, entrambi! Tremo per Mirzam, perché nessuno lo
crede innocente, ma ancora di più ho paura per te, testone
antipatico: sei detestabile, lo sai, ma ora accetterei anche il
peggiore dei tuoi scherzi più crudeli pur di non vederti
soffrire, su questo letto!
Cercai di controllare i miei tremiti, chinai la testa, per nascondere
gli occhi gonfi di lacrime, sospirai; recuperai un po' di contegno solo
quando sentii la mano sicura del Preside afferrare la mia.
«Sentirsi afflitti quando a
soffrire sono le persone che amiamo è umano e non ha nulla
d’indecoroso, signorina Sherton... ma non deve temere, non
è successo nulla di grave... Suo fratello sarà
presto in piena forma... Inoltre... oggi... non è il giorno
delle lacrime... Oggi ha di che gioire...»
Lo guardai interdetta, il vecchio Preside mi sorrideva sornione, non
capivo cosa ci fosse da gioire.
«Gioia? Io... io non capisco
che cosa... Professore... io...»
«Sono rientrato da Londra
nella tarda mattinata, signorina Sherton, perché la seduta
del Wizengamot è stata... molto breve... stavo per convocare
lei e suo fratello per informarvi, quando...»
Sentii i peli della schiena rizzarsi, appena lo sentii pronunciare la
parola Wizengamot, eppure, allo stesso tempo, si fece largo in me la
speranza, perché se il Preside mi diceva di gioire, allora
forse...
«… La notizia
sarà riportata sulle pagine dei giornali domani, ma posso
anticiparle fin da adesso che suo fratello Mirzam è stato
riconosciuto innocente e prosciolto da ogni accusa...»
«Che cosa? Salazar…
ho sempre avuto ragione io... allora… adesso mio fratello
può...»
«Conoscendolo, non ne ho mai
dubitato… ora, finalmente, ci sono le prove... Signorina
Sherton, sì: se a tenerlo lontano dagli affetti
più cari era solo il timore di un'ingiusta
condanna...»
«… ora Mirzam
può finalmente tornare a casa...»
Dumbledore, sornione, annuì e subito senti il peso di quei
giorni oscuri sollevarsi e svanire, sul mio volto lacrime e riso si
fusero, senza ritegno; appena recuperai un po' di calma, cercai di far
ordine nei miei pensieri, avevo tante domande, ma anche quelle
svanirono perché, all'improvviso, i lamenti sommessi di
Rigel si trasformarono in una voce stentata che emergeva dalle coperte,
alle mie spalle.
«No... kreee... i lupi...
no... no... i... no... kre... lupi...»
Il Preside lasciò la mia mano e si avvicinò a mio
fratello, si chinò su di lui, poggiò l'orecchio
sulla sua bocca per sentire poi, con una strana espressione in volto,
disse due parole a Madame Pomfrey e si congedò, invitandomi
a sedermi vicino a Rigel e a tenergli la mano: lo vidi svanire nello
studio della Guaritrice, avvicinarsi a un quadro e parlargli. Mio
fratello, intanto, si agitava ma non dava cenni di riprendere del tutto
conoscenza, gli scansai i capelli umidi di sudore dagli occhi, mi
sentii stringere il cuore, guardando la Runa sbiadita sul suo collo.
Madame Pomfrey gli passò una pezzuola umida sulla fronte,
ricontrollò il polso, gli somministrò un'altra
dose di Rimpolpasangue.
Quando sentimmo bussare alla porta, con insistenza, mi asciugai la
faccia, veloce, e mi voltai: Rabastan Lestrange irruppe in infermeria,
gli altri ragazzi della squadra di Quidditch al suo seguito, in faccia
quel ghigno sadico che conoscevo fin troppo bene e la ferma
volontà di non uscire da lì, finché
non avesse saputo, rimarcata dall'imperiosità della sua voce
beffarda.
«Scusate l'irruzione, Madame,
ma ora noi vogliamo notizie del nostro compagno...»
Dietro di lui, a spingersi, c'era mezza Casa Slytherin: Kendra Campbell
scivolò davanti a tutti da sotto le braccia di Rabastan,
s’infilò tra i letti e provò a tuffarsi
su mio fratello, quasi mi travolse nel patetico tentativo di
abbracciarlo. Madame Pomfrey, innervosita, prese
l'”indemoniata” per la collottola e
l'allontanò, poi, bacchetta in pugno, mentre Slughorn si
rammaricava con i ragazzi per il loro comportamento irriguardoso,
ristabilì l'ordine e impose a tutti di calmarsi o di uscire.
«No... no...»
Mi voltai verso Rigel, la sua voce ora era più chiara,
sebbene sempre molto flebile; gli altri promisero di non dare noia, per
restargli vicino. Slughorn gli strinse la mano e lo esortò,
affettuoso.
«Rigel…
svegliati… ragazzo mio, mi senti? Rigel…
ecco… così, sì… svegliati!
Svegliati...»
Hagrid, fino a quel momento immobile in fondo al letto, si
avvicinò e, incombendo come un orso bruno su Rigel, prese un
piede di mio fratello, attraverso la coperta, e lo mosse piano.
«Forza Rigghe… dai!
Svegliati… te l’ho detto, Poppy…
è razza forte questa…»
«Sì, ma togliti da
lì, Rubeus… o lo soffocherai!»
La Pomfrey gli diede uno schiaffetto sulla faccia poi, appena vide gli
occhi di mio fratello accennare ad aprirsi, gli infilò in
gola un altro cucchiaio di Pozione Rimpolpasangue, Rigel si
guardò intorno senza vederci, tossì, si ritrasse
spaventato da qualcosa, iniziò di nuovo ad agitarsi.
«Come ti senti,
Rigel?»
«Stia buono, signor Lestrange,
il signor Sherton è ancora troppo debole per
rispondere!»
Rigel parve reagire alla voce di Rabastan e, poco per volta,
ritornò tra noi: dalla vivacità del suo sguardo,
vidi che aveva riconosciuto la Guaritrice e, subito dopo, Slughorn;
ogni volta che guardava verso Hagrid, al contrario, era terrorizzato,
sembrava volesse scalciarlo via con i piedi; si calmò quando
la Pomfrey gli prese una mano e gli accarezzò la fronte. Non
capivo: della vita nelle Terre del Nord a Rigel non piaceva nulla, ma
subiva il fascino delle creature dei boschi di Herrengton, e per
questo, al contrario dei suoi compagni che insultavano il Guardiacaccia
chiamandolo “sporco ibrido”, spesso chiedeva a
Hagrid di portarlo con sé, nella foresta, per curare i
piccoli di Ippogrifo.
«Sì, signor
Sherton… sì… è stato Rubeus
Hagrid a portarla in salvo… ma avrà tutto il
tempo, in seguito, per ringraziarlo… ora si
riposi…»
Hagrid si avvicinò di nuovo, stavolta Rigel lo
guardò bene, riuscì a riconoscerlo e, finalmente,
gli abbozzò un sorriso: da quel momento, parve calmarsi, non
più vittima di quello strano terrore.
«Allora…gra… grazie…
Ha…grid…»
«Come vedete, il signor
Sherton si sta riprendendo… ora per favore, andate fuori
tutti, lasciatelo riposare… può restare solo la
signorina Sherton… fuori, via!»
Kendra recuperò l'iniziativa e saltò fuori dal
gruppo, decisa a sbaciucchiare Rigel, con sommo orrore di mio fratello.
Evan la prese per le spalle e la condusse fuori, senza cerimonie. Alla
fine, rimanemmo in pochi, presi la mano di mio fratello, commossa e
incapace di trattenere le lacrime, ma Rigel sembrava avere occhi solo
per qualcuno in fondo al suo letto: Rabastan Lestrange chiese di
restare, prese una sedia e si sedette accanto a me, sentii la sua mano
artigliarmi la spalla, ed io tremai dal disgusto. Rigel lo
guardò, fissò la sua mano sulla mia spalla: aveva
un'espressione strana da quando quella sera, in cortile... era come se
sapesse, anche se non avevo avuto il coraggio di confidarmi nemmeno con
lui, convinta che avrebbe creduto alla versione del suo amico e non a
me.
«Vai in camera tua, Meissa,
scrivi a mamma e papà… vorrei che venissero
subito da noi!»
Annuii e uscii, sollevata all’idea di allontanarmi da
quell’essere immondo, sentendo però gli occhi di
Lestrange sempre, ironicamente, fissi sulla mia schiena,
finché la porta non si chiuse dietro di me e William Emerson
mi raggiunse, ansioso, per farmi le sue domande.
***
Orion Black
Amesbury, Wiltshire - sab. 15 gennaio 1972
Non potevo crederci. Era vero. Era vivo. Era di
fronte a me... Anche i bambini erano di fronte a me.
Sentii l'emozione prendere il sopravvento, vedendo la gioia di Deidra
nel riabbracciare suo marito; per pudore, verso di loro e verso me
stesso, chinai lo sguardo, fissai per un tempo indefinito le mie
unghie, concentrando sul mignolo sinistro tutta l'attenzione della
terra. Avevo mille domande da fare, volevo mandare al diavolo la
compostezza e urlare fino a perdere il fiato, per scaricare tutta
l'adrenalina che mi si era concentrata dentro, abbracciare il mio
amico, l'unico amico vero che avessi, festeggiare con lui, esorcizzare
il terrore che avevo provato. Non era però il momento di
abbassare la guardia, non sapevo come fossero andate le cose, quale
vantaggio avesse sugli uomini di Milord, l'unica certezza era che
adesso, per tutti loro, Herrengton fosse il solo rifugio sicuro.
«Avremo tempo per sentirti
raccontare come tu ci sia riuscito, ma ora non potete restare qui un
secondo di più… Doimòs, io non ho
l’autorità di impartirti ordini, ma devi portare i
tuoi padroni a Herrengton al più presto e fare in modo che
un Medimago di fiducia si occupi di tutti loro… io
andrò subito a Hogwarts… ho fatto bene ad
aspettare, prima di parlare con i ragazzi, era questa la notizia che
volevo dare loro…»
«No, Orion…
no…»
«Come no? Alshain,
c’è il rischio che arrivino notizie preoccupanti e
inesatte ai ragazzi…»
«Ho detto no,
Orion… non ancora… non stasera…
fidatevi di me… per favore…»
Non ero sicuro di aver compreso bene, ma quando Deidra ed io ci
fissammo e vidi il suo sguardo, smarrito almeno quanto il mio, non ebbi
più dubbi. Mi morsi la lingua per non replicare all'istante,
agitato: stavamo parlando dei suoi ragazzi, certo, ed io non ero la
persona più indicata a dare consigli, soprattutto quando si
trattava di figli, ma viste le sue condizioni e il trauma che aveva
vissuto, era evidente che fosse troppo confuso e sconvolto per prendere
decisioni razionali ed io non potevo guardarlo fare una cavolata del
genere senza intervenire. Non se ero davvero suo amico.
«Certo che mi fido di te,
Alshain... ma domani potrebbe essere… tardi... i
giornali...»
«Immagino cosa stai
pensando... Orion... e non sono così... confuso... da non
capire che... per i ragazzi sarà... un trauma... Ora,
però... per loro... questo... è il minore dei
mali...»
«Minore dei mali? Che cosa
significa? Minore rispetto a quale altro male? Alshain...»
«Andrò io, Orion...
appena potrò... Il loro bene... in questo momento...
è un altro...»
Basito, i peli ritti sulla schiena, per la prima volta, da quando
l'avevo trovato accasciato contro il muro, sotto la neve, con Adhara in
braccio, fuori dal capanno da caccia, il sollievo andò a
farsi benedire, sostituito da una sensazione di pericolo indefinibile
che mi s’insinuò sottopelle. Alshain prese la mano
di Deidra e lei si chinò ad ascoltare ciò che le
disse all'orecchio, annuì e ordinò all'Elfo di
portargli dell'acqua. Preda dell'ansia, mi muovevo nella stanza come
una tigre in gabbia, cercando di scacciare la paura e i dubbi che si
facevano largo in me per quella storia e pensando ai mille modi in cui
la notizia della strage a casa Sherton potesse essere già
giunta a Hogwarts. Erano passate poche ore da quando avevo lasciato
Essex Street e avevo raggiunto il Wiltshire, Moody mi aveva assicurato
che, prima di portare notizie preoccupanti a scuola, i Ministeriali
avrebbero vagliato la veridicità delle informazioni in loro
possesso: non l'avrei mai detto, all'inizio di quella giornata da
dimenticare, ma, nonostante tutte le riserve che continuavo ad avere su
di lui e su tutti i dannati Filobabbani del Ministero come lui, pensavo
di potermi fidare di quell'uomo irritante. Quanto a Crouch, le sue
ambizioni politiche gli avrebbero fatto ponderare con attenzione le
proprie mosse e, prima di irrompere nella scuola e terrorizzare i
ragazzi, contavo che si sarebbe consultato con Dumbledore, lasciando a
lui il compito di informarli. Il problema vero era un altro,
più imprevedibile e insidioso: se per quel giorno fosse
stata in programma una visita al villaggio di Hogsmeade, alcuni
studenti di Hogwarts avrebbero potuto parlare con qualche avventore e
venire a sapere del Marchio Nero apparso su Londra... inoltre qualcuno
poteva essere abbonato al Daily Prophet, quindi nella scuola poteva
già circolare l'edizione serale di quel giornale.
«Alshain... ti ci vorranno
giorni per rimetterti e nel frattempo la notizia arriverà a
Hogwarts, se non ci è già arrivata... I tuoi
figli si faranno domande e non potrà esserci silenzio da
parte mia, perché sono il loro padrino, sei tu che mi hai
dato questo compito. Perché aspettare, allora? Non vuoi che
dica loro tutta la verità, d'accordo, non lo
farò... non lo capisco, ma prometto che non lo
farò... Però “devo” andare,
non “posso” sparire, non
“voglio” lasciarli soli davanti a tutto
questo!»
Alshain non disse nulla, si limitò solo a negare,
inesorabile, con il capo. Ero sconcertato dal suo comportamento, dalle
sue esitazioni, non sapevo se essere più esasperato o
spaventato: ormai mi sembrava chiaro, per farlo comportare in quel modo
assurdo, Milord doveva averlo minacciato e torturato ben oltre il
pestaggio di cui il mio amico portava, evidenti, i segni sul corpo.
Poteva averlo posto addirittura sotto Imperius o, peggio ancora...
No, non devo pensarci, non adesso... ora devo convincerlo e poi andare
subito dai ragazzi; in seguito, cercherò di capire che cosa
gli è veramente successo e mi consiglierò con
l'unico Mago che possa dirmi cosa fare. E che gli dei abbiano
pietà di me... quando gli sarò di fronte...
«Alshain, non possiamo pensare
solo a noi stessi! Orion ha ragione, deve andare: tutti sanno che
è il tuo migliore amico e il padrino dei nostri figli,
è naturale aspettarsi che, in questo momento, sia lui a
prendere in mano la situazione. Quando gli abbiamo chiesto di ricoprire
questo ruolo, non gli abbiamo solo accordato un
“onore”, simbolo della nostra stima e amicizia,
l'abbiamo anche caricato di un “onere” gravoso, a
dimostrazione della fiducia reciproca che lega le nostre famiglie. Se
ora sparisse o anche solo esitasse più del necessario, chi
ci ha aggredito potrebbe sospettare che sappia più di quanto
deve, che stia attuando un piano concordato con te, e questo metterebbe
anche la sua famiglia in pericolo... Orion andrà, Alshain...
mi spiace contraddirti, ma non faremo correre rischi anche a quei
ragazzini, neanche se in ballo ci fosse la vita di tutti noi!»
«Deidra... ma… non
è per questo che mi sto offrendo...»
«Lo so, Orion, lo so...
Ascolta: molti ti hanno visto a Essex Street, basterà
fingere che tu non sia mai stato qui, che non ci abbia visto, dovrai
dire solo quanto hai appreso dagli
Aurors...»
«Era questo che intendevo
fare, prima che Alshain comparisse: mi presenterò a
Dumbledore, dirò ai ragazzi del Marchio, e che vi ho cercato
senza trovarvi, che ho recuperato l'anello…»
«No... assolutamente
no… Questo non è...
possibile…»
«Alshain...»
Deidra, confusa, lo guardò supplice, tormentandosi le mani,
ma lui continuò a negare, implacabile. Cercai di aiutarla,
modificando, un poco, la mia idea, sperando di aver intuito l'obiezione
di Alshain.
«Forse è meglio che
all'inizio io parli di un “incidente”: dopo quanto
le è successo, Meissa si spaventerebbe troppo; quanto a
Rigel, è abbastanza maturo da capire che la mia
“menzogna” serve solo a proteggere sua sorella. Di
voi dirò che al momento non si sa nulla, che vi stanno
cercando... mostrerò il tuo anello e spiegherò il
potere dei diamanti: capiranno che sei viva.»
«Rigel
obietterà… che un semplice anello… non
dimostra niente, che la madre… può essere viva ma
prigioniera… conosco mio figlio… sa essere
addirittura… più ostinato… di
me…»
«Quello che conta, Alshain,
è prendere tempo, dare loro una speranza e non lasciare che
affrontino tutto questo da soli! Tornerò da loro con notizie
verificate appena ne avrò: voglio rassicurarli e prendere il
tempo che ti serve a rimetterti e andare a parlare con loro, di
persona...»
«Sì, Orion... fai
questo, ti prego... e per favore, quando parlerai con Rigel, tienigli
una mano sulla spalla e guardalo negli occhi... e tieni tra le tue le
mani di Meissa, rassicurala quando si metterà a piangere,
perché… è cresciuta, in apparenza,
ma... resta solo una bambina... Salazar...»
Deidra affondò il viso tra le mani, il corpo scosso dai
singhiozzi, sentii il sangue salirmi alla faccia, guardai Alshain,
sempre più pallido: non c'era nulla peggiore di tutto
questo, per lui, non osavo immaginare quale orribile minaccia lo
spingesse a infliggere un tale dolore alla donna che amava.
«E sia… ma solo
per… evitare che anche i tuoi figli corrano…
inutili rischi… Giura che non dirai… nulla
più… di quanto deciso, Orion…
Né a loro… né ai tuoi familiari... a
nessuno!»
Annuii, s’iniziava a ragionare, finalmente smettevamo di
perdere tempo con inutili contrattazioni. Alshain mi fissò,
con l’espressione che aveva sempre quando doveva confidarmi
qualcosa di molto importante, si voltò verso Deidra, le
parlò all'orecchio e lei, ancora sconvolta, ci
lasciò soli. Mi sedetti di fronte a lui, gli presi
l'avambraccio, per incitarlo, ma sembrava di nuovo perso in un mondo
tutto suo. Infine, lentamente, dopo essermi avvicinato ancora di
più col capo, iniziò a raccontarmi la sua
verità, la voce rotta dal dolore e
dall’emozione... A mano a mano che il filo degli orrori si
dispiegava, un brivido gelido mi percorreva la schiena, come se davanti
a me non ci fosse un uomo ma il suo fantasma; ascoltai tutto, ogni
singola, sofferta, parola, in silenzio, prima incredulo, poi dolente,
infine inorridito. Arrivato alla conclusione, tutti i miei timori
avevano preso corpo, uno dopo l'altro, implacabili. Compresi che la
situazione era peggiore di quanto avessi immaginato.
«Terrai per te questo segreto,
Orion? Farai ciò che ti chiesi, anni fa? Qualsiasi cosa
accada?»
Incapace di parlare, lo guardai, fissai quegli occhi d'acciaio e,
tremando, annuii: non c'era altra scelta. Mi alzai, per chiamare
Deidra, poi ci ripensai, c'era ancora una cosa che forse non sapeva.
«In questa giornata d'inferno,
Alshain, c'è stata almeno una cosa buona: Moody ha
scagionato tuo figlio. Venivo a dirti questo, con Warrington, quando il
Marchio è apparso in cielo.»
Alshain chiuse gli occhi, rovesciò il capo
all’indietro, sulla testiera del divano, immaginai stesse
ringraziando gli dei per quel flebile motivo di speranza, quando
tornò a fissarmi, perciò, il suo sguardo e le sue
parole mi sconvolsero.
«Sulla nostra amicizia, Orion,
giura che non parlerai più di quel traditore in mia
presenza...»
***
Meissa Sherton
Hogwarts, Highlands - sab. 15 gennaio 1972
Emerson mi aveva fatto il terzo grado, su come stesse Rigel, su cosa
avesse detto, sulle impressioni di Preside, Guaritrice, Slughorn e di
ogni altro adulto presente. Il tutto mentre
“fingeva” di accompagnarmi nei sotterranei. Ed era
chiaro che “fingesse”, perché non avevo
idea di dove fossimo finiti, dopo l'ennesima, inutile, controproducente
scorciatoia suggerita dal “damerino”.
«Non hai
“ancora” imparato a sfruttare
“nemmeno” questo ritratto? Ma dai! Di questo passo
tra sei anni non ne conoscerai neanche la metà! Male, molto
male, “signorina Sherton”!
Ahahah…»
Sbuffai, stanca delle sue prese in giro, anche perché, al
contrario di quanto promesso, avevamo allungato, e di molto, la strada,
ed io invece avevo fretta di tornare in camera, per scrivere ai miei.
«Non potevamo
“semplicemente” prendere le scale, Emerson? Saremmo
arrivati da tempo!»
«Se preferisci subire i
“cambi” della scala e le fans in agguato di tuo
fratello, accomodati!»
Scoppiò a ridere ed io sbuffai ancora di più,
esasperata: grazie al mio racconto, si era tranquillizzato ma, per mia
sfortuna, al timore erano seguite prima una normale allegria poi quella
“spiritosaggine idiota”, che manifestava sempre
quando era in compagnia di quell’altro cretino di mio
fratello!
Basta!
Pietà! Perché non si rende conto che io
“non sono” mio fratello?
Merlino sapeva se avevo cercato di essere indulgente con lui,
perché era normale essere “euforici” -
lo ero anch’io, dopo un simile spavento, anche se avevo una
capacità di autocontrollo superiore alla sua – e
perché, in fondo - molto in fondo, sotto la profonda
irritazione che provavo in quel momento -, ero persino felice che
qualcuno si fosse preoccupato per Rigel, almeno quanto me.
Si è preoccupato a tal punto, Meissa, che, pur di avere
notizie, ti ha aiutato, benché l'ultima volta che avete
parlato da soli, al matrimonio di Mirzam, tu ti sia comportata
malissimo con lui.
Naturalmente, alla voce saggia della mamma, nella mia testa, replicava
una vocina acida e piccata, secondo la quale Emerson non mi aveva
aiutato, mi aveva solo “usato” per avere
informazioni, e per questo avrei dovuto avercela con lui, come ce
l'avevo sempre con Rigel, in frangenti simili.
Non devi badare ai suoi motivi, Meissa, devi solo essere contenta e
grata al fato che, in un momento simile, attorno a tuo fratello e
quindi vicino a te, ci sia un ragazzo per bene, sebbene un
po’ strano, come William Emerson, e non solo pazzi maniaci
criminali come Rabastan Lestrange! Perciò sforzati di essere
educata e gentile con lui, come tuo padre ed io ti abbiamo insegnato!
Certo, mamma, ma se costui si comporta da idiota, come faccio io a
comportarmi bene?
«Siamo quasi arrivati,
Sherton... ma accetta un consiglio: non scrivere la
lettera...»
«Come scusa? E cosa spedirei
dalla Guferia, secondo te, se non scrivessi una lettera?»
«Il punto è proprio
questo… Non dovresti andare in Guferia...»
«Tu sei pazzo! Certo che ci
andrò! Devo, anzi, voglio scrivere ai miei! Li voglio qui!
Ora!»
M’impuntai, le mani sui fianchi, un cipiglio non molto
diverso, nonostante tutte le migliori intenzioni, da quello che avevo
assunto a Herrengton, quando quell’inutile damerino biondo
aveva preteso di starmi appiccicato, mentre io volevo solo sfuggirgli e
correre dal mio Sirius. Con una punta di amarezza, mi resi conto che,
quella sera, considerato tutto quello che ci era accaduto dopo, William
Emerson aveva ragione a voler essere iperprotettivo e che ero io in
torto, considerandomi al sicuro, solo perché ci trovavamo a
casa mia. La consapevolezza che condividevamo lo stesso pensiero, resa
palese dal suo ghigno in apparenza canzonatorio, mi punse l'anima come
un aspide.
«È giusto che tu li
voglia qui, non sto dicendo questo, ma è tardi per andare
alla Guferia.»
«Senza un gufo, che guarda
caso sta solo in Guferia, come potrei comunicare con i miei? Salazar! E
i Ravenclaw sarebbero, tra tutti, quelli più intelligenti?
Bah...»
«Mmmm… I
più intelligenti… in assoluto…
probabilmente no… ma di sicuro lo siamo più di
“certi” Slytherin che si professano tanto furbi!
Ahahahaha…»
Emerson ridacchiò ed io diventai porpora: i suoi discorsi
contorti mi confondevano sempre, bastava ricordare come mi avesse
irretito per bene in treno, ed io ero certa che mi avesse appena
insultato...
«...d'altra parte, sei
piccola, quindi occorre essere indulgenti con te, potresti non
sapere...»
Se non è un'offesa questa! Ha una sorella, sa che
“piccola” è un insulto come
“stupida”!
Lo fissai con odio, pronta a sibilargli contro, ma ottenni solo
un'altra occhiata divertita.
«D'accordo, basta
stupidaggini, ti spiego: forse a Herrengton usate solo i Gufi e gli
Anelli, ma mio padre, per esempio, manda i messaggi fuori Confraternita
con il Patronus o con il Camino... visto che ancora non sono in grado
di produrre un Patronus utilizzabile, potremmo chiedere a un mio amico
del settimo anno di aiutarci, oppure, se non ti fidi, potremmo andare
da Flitwick, in aula Incantesimi, e chiedergli di farci usare il suo
Camino: già stravede per me e, viste le circostanze, non ti
dirà certo di no! Se poi non vuoi proprio avere a che fare
con “stupidi Ravenclaw”, chiedilo a Slughorn,
è sempre felice di scambiare favori... o al Preside, ma
è un po'...»
«Ne hai una per tutti, come le
vecchie comari, vero Emerson?»
«Di soluzioni?
Naturalmente!»
Sbuffai. Non avevo ascoltato una parola, non avevo registrato nemmeno
che stava tentando di produrre un Patronus, pensavo solo a quanto fosse
“odioso”, “verboso”,
“petulante”,
“pettegolo”…
…
addirittura più di quelle lingue biforcute che, nella Sala
Comune degli Slytherin, stazionano giorni interi davanti al caminetto,
solo per sparlare dell'intero Mondo Magico.
Invece ha ragione, Meissa! Svegliati! Perché, invece di
farti distrarre dall’antipatia che nutri per William, non ti
sei ricordata che la zia ed io ci scambiamo messaggi via Camino?
Esasperata dalla sua aura di perfezione e innervosita da quel mio
nuovo, stupido errore, sospirai: non lo sopportavo, non potevo farci
nulla, era più forte di me, e dire che ci avevo anche
provato…
Come possono tutti gli altri, adulti compresi, essere così
ciechi da non vedere che razza di borioso, insopportabile, molesto,
pallone gonfiato sia questo individuo?
«… un'altra
soluzione sarebbe rivolgersi al tuo padrino: è Orion Black,
giusto? Uno degli antichi presidi, il cui ritratto è esposto
nell'ufficio di Dumbledore, era un Black, lo sapevi?»
«Phineas.Nigellus.Black: lo
so, Emerson, lo so, non sei l'unico detentore della
conoscenza!»
«E sai anche che il suo
“adorabile” bisbisbis nipote Gryffindor lo descrive
sempre come “il peggior Preside che Hogwarts abbia mai
avuto”? Ahahahah…»
«Tu che ne... No! Basta! Mi
stai solo facendo perdere tempo con le tue sciocchezze!»
«Non stai perdendo tempo, e
non sono sciocchezze, anzi…Se i presupposti sono veri,
l'idea è valida: se esiste il doppio ritratto, come dicono,
puoi parlare col tuo padrino e quindi ai tuoi!»
Certo... solo che, al posto di Orion, mi ritroverei davanti quella
megera di sua moglie!
«Ehi, che cos'è
quella faccia, Sherton? Hai già problemi con i futuri
suoceri? Ahahah...»
Diventai rosso peperone, stavo per rispondergli a tono, ma eravamo
infine arrivati nei sotterranei.
«Salazar, ti ringrazio,
finalmente in salvo! Volevo comportarmi bene con te, Emerson, lo giuro,
mi hai aiutato, e ti ringrazio, ma sei così... snervante
che... vai, gli estranei qui non entrano...»
«Lo so... Gli Slytherins
aprono solo ai Gryffindors sbronzi, degni compari di rissa!
Ahahah»
Rise ancora, ma stavolta mi parve di cogliere una nota piccata nella
sua voce, io gli diedi le spalle, sperando che se ne andasse prima che
qualcuno ci vedesse insieme; naturalmente, proprio in quel momento,
fummo superati da due ragazzi del settimo anno, che quasi andarono a
sbattere sul muro, impegnati com'erano a fissarci e a sghignazzare.
«Certi soggetti dovrebbero
prendersela solo con se stessi se hanno perso in modo così
IDIOTA la Coppa, quest'anno... se proprio ci tieni, Meissa, scrivi la
lettera, dai, ti aspetto qui: visto che non sono riuscito a convincerti
a trovare un mezzo più sicuro, ti accompagnerò in
Guferia!»
«Oh no! NO! Non ho bisogno di
uno chaperon, Emerson! E se anche l'avessi, non lo chiederei a te!
Senza offesa, ma... io vorrei arrivare alla Guferia, ma prima che sia
di nuovo Natale! E... come dire... mi è sembrato che tu ti
sia perso almeno tre volte con le tue stupide scorciatoie! »
Mentre i due energumeni ridevano sguaiatamente, lo vidi tacere,
finalmente, la faccia che cambiava rapidamente di colore, un paio di
volte tentò di aprire bocca ma ogni volta ci
ripensò, evidentemente non aveva di che replicare. O forse
non voleva dare altre soddisfazioni a quei due che si attardavano
sull'ingresso per godersi il nostro bisticcio. Per la prima volta mi
passò per l'anticamera del cervello che forse –
solo forse, Meissa? - esprimendomi in quel modo, in pubblico, l'avessi
offeso più di quanto fosse mia intenzione, ne ebbi conferma
quando gli apparve lo stesso broncio assunto a Herrengton, prima di
iniziare a insultarmi e mandarmi al diavolo.
Salazar, ma io non volevo assolutamente questo!
«Salazar, no…
no… davvero… scusami... ho parlato senza
riflettere e invece di una battuta cretina, è uscito
qualcosa che suona come un'offesa! Per favore, William,
scusami… non volevo offenderti... anzi... sei stato molto
gentile a riaccompagnarmi e... a preoccuparti per me... e per Rigel...
e… scusami… è proprio a Herrengton...
tu volevi aiutarmi… i fatti hanno dimostrato che avevi
ragione tu... ed io invece ti ho dato dell'arrogante e
pressante, senza riflettere... e adesso, di nuovo, mi sono comportata
come una stupida, insopportabile, viziata...
Mi bloccai, mordendomi la lingua, incredula di averlo detto davvero ad
alta voce. William aveva un’espressione altrettanto sorpresa,
era confuso, ma anche guardingo, come se non si fidasse e si aspettasse
da un momento all’altro che lo sbeffeggiassi
perché mi aveva creduto.
«Parlo seriamente,
William… ti ringrazio… per avermi
aiutato… e…»
«Rigel è mio amico,
non mi devi ringraziare… Volevo sapere di tuo fratello, tu
me l'hai detto e... io ho pensato di ricambiare il favore, suggerendoti
altre soluzioni… non mi pareva il caso che completassi
questa giornata pesante in infermeria con una gamba rotta…
voglio dire… le scale della Guferia sono ricoperte di
ghiaccio, a quest’ora... ho sbagliato il modo,
forse… non volevo darti della stupida, o della
bambina… non lo sei… scusami se sono stato
irritante… volevo farti distrarre un po', dicendo qualche
sciocchezza e non mi sono reso conto che stavo
esagerando…»
Mi morsi la lingua, ero rosso fuoco, non avevo capito che aveva cercato
di fare l’idiota solo per farmi ridere... Avevo fatto di
nuovo una figura orribile. Doveva essere successo quello che capitava
quando scherzavo con i miei fratelli: Mirzam capiva gli scherzi, Rigel
invece si offendeva, perché non eravamo abituati a stare
insieme... E William non era abituato ad avere a che fare con me,
né io con lui, per questo non c’eravamo capiti...
o almeno… speravo non fosse un’altra presa in
giro…
«Mettiamoci una pietra sopra,
d’accordo? Immagino che tu preferisca farti accompagnare in
Guferia da Malfoy o da uno dei suoi amici, perciò ti
saluto… per me non è un problema...»
Lo fissai a occhi spalancati, William scoppiò a ridere,
annuendo, Rigel doveva avergli detto che tra le poche cose che ci
univano c’era l’antipatia assoluta per nostro
cugino. Mi porse la mano, non con l’affettata e irritante
galanteria delle altre volte, ma come si fa tra amici, tra pari. La
presi subito, anche se ero ancora confusa; mi sorrise, io, ancora a
disagio, sorrisi a mia volta.
«Sì,
d’accordo... aspettami qui, mentre scrivo la lettera...
però... non farti vedere... non tutti amano... e...
comunque, fattelo dire... Hai un'idea un po'... strana del ricambiare i
favori, William...»
«Liam, ok? Non è
male essere strani e originali, Meissa... e un po' strana lo sei anche
tu: non capita tutti i giorni di ricevere le scuse di uno Slytherin, lo
sai?»
«Già…
immagino di no… a volte penso che il Cappello abbia proprio
sbagliato, con me…»
«Non credo… ma
è chiaro che hai ereditato molto anche dal ramo Ravenclaw
della tua famiglia, almeno stando ai racconti di Rigel su
“quella secchiona di mia sorella!”… ti
saresti trovata bene su in Torre, Mei… E credo ti saresti
anche divertita di più... per
esempio…è proprio vero, la Divinazione riesce
incredibilmente bene con le uova... Ahahah...»
Tutti ridevano, sempre, di quella stranezza chiamata
“Ovomanzia” di cui sembrava che i Ravenclaw
andassero pazzi. E risi anch’io, con Liam. Era stata la prima
risata di cuore, dopo lo spavento di quel pomeriggio. Lo salutai, un
po' più rilassata, promettendo di fare in fretta, entrai in
Sala Comune, rossa in faccia per le occhiate interrogative delle
ragazze del terzo anno, forse sapevano già che ero rimasta a
lungo, fuori, a chiacchierare e a bisticciare con Emerson.
«Tutto bene, Sherton? Come sta
tuo fratello?»
«Bene... cioè...
per quanto possa star bene un idiota che sviene al freddo e al
gelo!»
Qualcuno rise, altri fecero domande, io sospirai: maltrattarlo e
lamentarmi di lui, come se si fosse già ripreso, sembrava
esorcizzare più in fretta l'angoscia che mi era venuta per
tutta quella storia.
Entrai in camera mia, rovistai tra le mie cose, scrissi la lettera, la
lessi un paio di volte, correggendo e riscrivendo: ero stata molto
sintetica, avevo cercato di essere più obiettiva possibile,
perché quella era già stata una giornata pesante
per la mamma, a causa del processo, al tempo stesso, però,
non riuscii a celare che avrei voluto che fossero lì, quanto
prima. Alla fine, in calce, aggiunsi una riga con la notizia che mi
aveva dato il Preside, perché forse loro non sapevano ancora
di Mirzam…
«Armiamoci di guanti e
sciarpa, affrontiamo il freddo della Guferia, con quel…
bamboccio di un Ravenclaw... Sì, Myrddin, che Liam non
s’illuda, l'avrà fatto per me, ma resta un
bamboccio! E ora spediamo la lettera! Tu no, tu resta al calduccio nel
baldacchino, e tienimi caldo il posto!»
Nonostante tutto, mentre parlavo al mio gatto, la bocca continuava ad
atteggiarsi a un sorrisetto e, cosa che non mi succedeva ormai da
tempo, avevo un motivetto che riemergeva dalla mia mente e che tentavo
di canticchiare. Quando mi ricordai di averlo sentito al matrimonio di
Mirzam, mentre ballavo con William, diventai rossa come un pomodoro,
felice di essere sola nella stanza. Mi chinai sul gatto, gli stampai un
bacio sulla fronte e lui si allungò tendendo verso l'alto le
zampine, mostrandomi la pancia così che gli facessi i
grattini lungo tutto il corpo, lieve, dal collo, fino a far vibrare
l'aria della stanza col suo ritmico ronfare. Quando uscii, stava ancora
col pancino all'aria tra le coperte e, potevo scommetterci, l'avrei
ritrovato in quella posizione al mio ritorno.
Quando riemersi in Sala Comune, il vocio che avevo sentito dal piano di
sotto, nei corridoi del dormitorio femminile, si placò di
colpo: al contrario di pochi minuti prima, quando era
pressoché deserta, sembrava che tutti gli Slytherins si
fossero materializzati in Sala Comune. Forse avevano saputo che ero
tornata nei sotterranei e mi preparai a essere bersagliata da mille
domande su mio fratello, sperando che poi non si finisse col parlare
anche di Emerson che, se mi stava aspettando, era stato visto da tutti
davanti alla porta. Nessuno dei presenti, invece, mi rivolse la parola.
C'era un'aria tesa, carica, tutti concentravano gli occhi su di me, ma
restavano tutti zitti, iniziai a provare la paura irrazionale che Rigel
si fosse aggravato, dopo aver lasciato l'infermeria: avevo,
d’improvviso, un terrore tale che non trovai il coraggio di
chiedere che cosa stesse succedendo. Sul divano, davanti al tavolinetto
vicino al camino, vidi Lucius e diversi ragazzi della sua cricca che
confabulavano e, tra loro, Narcissa Black che stava leggendo
attentamente un giornale. Mi calmai all’istante, tutto ora
aveva un senso, doveva essere uscita un’edizione serale del
Daily Prophet con la notizia del proscioglimento di Mirzam, anche se
non mi pareva fosse una cosa così rilevante, per
l’intero Mondo Magico, da giustificare addirittura
un’edizione speciale.
Se è così, perché hanno tutti quel
muso lungo? E perché nessuno di loro mi parla?
Arrivai con lo sguardo fino in fondo alla stanza, Rabastan ed Evan si
erano raccolti lì, insieme ai loro amici, davanti a
un’altra copia dello stesso giornale: dunque era proprio
lì, tra le notizie del giorno, che si celava il mistero.
L'evento del giorno, a meno che gli Aurors non avessero finalmente
catturato il Signore Oscuro o un altro nome importante tra i suoi
scagnozzi, doveva essere l'assoluzione di mio fratello, eppure nessuno
dei miei compagni di casa era felice per me, nessuno di loro si
congratulava con me, anzi pareva che mi avessero isolato
volontariamente.
Come
fanno, tutti loro a tenermi, volontariamente, all'oscuro di una notizia
simile? No, Mei, no... o il giornale non c’entra nulla con
Mirzam, o sanno che Dumbledore te l'ha già detto…
Allora perché non stanno festeggiando?
Con la mia lettera stretta in mano, nella tasca della mantellina, mi
avviai verso la porta, amareggiata: non ero amica di nessuno di loro,
vero, eppure mi aspettavo che, se non altro per gentilezza e
educazione, se non altro in quanto sorella di Rigel, beneamino di quasi
tutti loro...
«Penso che dovremmo dirglielo,
Lucius...»
Sentii la voce di Narcissa, si spezzò subito nel silenzio
generale, nessuno replicò, c'era solo l'aria che si faceva
sempre più spessa, più pesante, come il disprezzo
che provavo per ognuno di loro.
Perché non mi parlano?
Volevo voltarmi e gridare che tanto lo sapevo, ma non volevo dar loro
la soddisfazione di sapere quanto mi avessero ferito. Misi la mano
sulla maniglia, mi umettai le labbra, mi voltai, avevano tutti, ancora,
sempre, gli occhi puntati su di me.
Non riuscii a dire neanche una parola, benché li volessi
insultare: la porta si aprì di colpo, forse con un calcio,
tanto il colpo fu violento. Inciampai e caddi a terra. Mi scansai
subito, in tempo per non farmi calpestare dalla furia che entrava,
sbraitando e ridendo; appena un po' indolenzita, tentai di rialzarmi,
riconobbi subito la voce di MacNair che irrompeva insultandoci tutti; a
sua volta lui riconobbe me, a terra, ai suoi piedi: mi fissò
con occhi da pazzo, cercò di tirarmi su per un braccio, io
riuscii a divincolarmi, allora mi sputò addosso, rabbioso,
parole senza senso.
«Allora esiste una giustizia a
questo mondo! La polvere è il tuo posto,
troietta...»
Lucius corse verso di me, insieme a Rabastan ed Evan Rosier, pensai che
l'avrebbero picchiato, invece stavano solo cercando di mettermi in
salvo. Purtroppo non mi raggiunsero in tempo.
Prima di essere tirata via da loro, Walden sollevò la mano,
che fino a quel momento aveva tenuto nascosta dietro la schiena, vidi
che teneva anche lui una copia del giornale, pensai che volesse
picchiarmi in testa con quello, perciò abbassai il capo per
evitare un colpo che non arrivò.
«È finita, siete
finiti, tutti finiti... e spero che tu sia la prossima a marcire
sottoterra, insieme a tutti quegli altri!»
Il giornale mi arrivò tra la faccia e il petto, aperto,
perché vedessi bene i titoli della prima pagina. All'inizio
non capii, vidi solo una foto, un'immagine mostruosa, un teschio in
movimento che si librava nell'aria, verde e minaccioso in un cielo
carico di neve. Non riconobbi nient'altro.
Poi vidi il nostro nome...
Il nome di mio padre...
Il nome di mio fratello...
Infine non vidi più nulla, non sentii più nulla.
La carta del giornale, tirato addosso, non mi fece alcun male. Furono
le parole a uccidermi.
MORTE E DISTRUZIONE NELLA LONDRA BABBANA.
STERMINATA L’INTERA FAMIGLIA SHERTON.
RICERCATO PER OMICIDIO E STRAGE
MIRZAM SHERTON, CERCATORE DEL PUDDLEMERE UNITED.
***
Mirzam Sherton
Vysoké Tatry, Cecoslovacchia - sab. 15
gennaio 1972
«Bryndzové
halušky e slivovitz per due e... una stanza per la
notte...»
L'oste mi fissò, scrutò a lungo i miei tratti, si
soffermò sui miei occhi, di sicuro avevo sbagliato la
cadenza di qualche parola, svelando in modo inequivocabile che non ero
il viandante “magiaro” che fingevo di essere. In
quelle terre gelide e desolate, soprattutto di quei tempi, uno
straniero era guardato con sospetto, anche in luoghi malfamati come
quello... se poi lo straniero fingeva anche di essere ciò
che non era… Non abbassai lo sguardo, però, anzi,
lo fissai a mia volta, spavaldo, la mascella forte, contratta, sotto il
naso aquilino e la folta barba brizzolata. Il cipiglio enigmatico
dell'uomo non si aprì, né mi diede una risposta
chiara, allora misi mano alla tasca e tirai fuori il sacchetto delle
monete: se temeva di non essere pagato, quel gesto l'avrebbe
rassicurato; ma se, avido, avesse pensato di derubarmi, beh... con un
lieve movimento lasciai scoperto, per pochi istanti, il fianco destro,
dove luccicava il metallo del mio pugnale ricurvo. L'uomo non si
lasciò impressionare, né dalla promessa del
guadagno né dalla minaccia di morte, ma cambiò
atteggiamento, spostando lo sguardo da me alla figura smunta che si
manteneva nella penombra, alle mie spalle. La indicò con un
gesto del mento e iniziò a parlare, o meglio grugnire: con
quella faccia pelosa e quei modi selvatici, non vedevo differenza tra
quell'uomo e gli orsi della foresta.
«Ho una stanza, magiaro, ma un
solo letto... a uno dei due toccherà la terra o la
stalla...»
«Il moccioso si
arrangerà... il cibo e l'acquavite, però, li
voglio per due... abbondanti...»
Feci saltare sul tavolo alcune monete, l'uomo mi fissò con
il ghigno soddisfatto di chi pensa “ti darò tutto
ciò che vuoi, se mi paghi”, poi, prima di
prepararmi i boccali, chiamò una delle sue ragazze vistose,
impegnate a servire vecchi sbronzi e sbavanti, che allungavano le mani
su di loro: Fear aveva sentito dire che era
“quella” l'attività che attirava il
“nostro uomo” in quella sordida topaia, e ne stavo
avendo una rivoltante dimostrazione. Bionda e formosa, avvicinandosi mi
guardò e il suo sguardo truce si aprì in un
sorriso falso: benché la Polisucco mi desse l'aspetto di un
uomo almeno dieci anni più vecchio di mio padre, dovevo
essere il “cliente” più giovane e meno
repellente che quella sera dovesse soddisfare. Il disgusto e il disagio
che avevo provato quando Fear mi aveva spiegato la situazione, si
riaccesero ancora più violenti quando notai che Lenka, in
particolare, non era ancora neanche una donna, ma una bambina poco
più grande di mia sorella. Strinsi le mani a pugno e mi
morsi la lingua, quando un'idea balzana, una delle mie, mi
passò per la testa: se avessi finto di
“comprarla”, l'avrei sottratta a quelle bestie,
almeno per una notte. E se l'avessi portata via con noi, l'indomani,
avrei salvato almeno lei da quella vita di orrore e miseria...
Certo, come se di casini non ne avessi già fatti a
sufficienza... pensa alla missione, Mirzam... pensa a tua moglie, pensa
a riportarla a casa... soprattutto ora che aspetta tuo figlio...
Sentii torcersi le viscere e la bile salirmi in gola, presi il
sacchetto delle monete e, rassegnato, lo rimisi in tasca, spinsi
“mio figlio” verso il bancone perché si
occupasse degli ordini e mi allontanai.
«Mi basta quello che ho
ordinato, oste. Occupati dei boccali, Jànos, ti aspetto al
tavolo!»
Raggiunsi un posto vuoto, in posizione defilata, da dove fosse facile
controllare l'andirivieni dei clienti. Sentivo gli occhi ostili della
ragazzina fissi sulla schiena, non mi fidavo di nessuno di loro,
perciò mi misi seduto con la faccia rivolta verso il resto
della stanza fumosa, il pugnale pronto sul tavolo per ogni evenienza;
“mio figlio”, rapido, prese le due acquaviti dal
bancone e mi seguì, poi ritornò indietro a
prendere i due piatti in cui degli gnocchi ammuffiti galleggiavano nel
grasso: osservai il moccioso muoversi senza indugi tra i pochi
avventori della locanda, ancora quasi vuota, finché
finalmente si sedette, di fronte a me, dando le spalle a tutti gli
altri. Mi ero opposto dall'inizio all'idea di portarlo con me, non era
il posto più adatto ma Jànos aveva accettato,
come sempre, non replicava e non si opponeva mai a Fear, e anche adesso
che eravamo immersi in quello schifo, non batteva ciglio, si era
già sistemato di fronte a me e, nella penombra, non visto,
aveva subito trasformato gli alcolici in innocuo tè
trasparente. Come se niente fosse: quella sua capacità di
estraniarsi, quella specie d’indifferenza a tutto e tutti
m’inquietava e, al tempo stesso, mi attraeva.
«Qualunque cosa accada, non
aspetteremo l'alba per partire... questo non è posto per
te...»
«Non è posto
neanche per “quelli come te”,
“padre”. Non è un luogo sicuro, ma in
attesa del nostro uomo, là fuori moriremmo assiderati,
inoltre... credo che stasera sia un bene trovarci qui...»
Jànos fece un paio di cenni col capo e indicò due
figuri che erano appena entrati, uomini alti e robusti, stretti in
mantelli bordati di pelliccia, i colbacchi calati fin quasi sugli
occhi. Non compresi: all'inizio pensai fossero solo due militari, da
quando avevamo raggiunto Balaton di filosovietici ne avevamo
già incontrati fin troppi e quei due avevano proprio la
classica arroganza da padreterni vista in quei dannati Babbani...
osservandoli meglio, però... Di colpo, il cuore mi
saltò in gola quando percepii distintamente la potenza della
Magia Oscura che riverberava dai loro medaglioni...
«Hai ragione... forse l'uomo
di Durmstrang approfitta di questa topaia non solo per soddisfare i
suoi vizi, ma anche per incontrarsi con tipi simili... o forse sono qui
per altri affari... ma vale la pena indagare... con discrezione... quei
medaglioni per me non promettono nulla di buono...»
«Mi stai dicendo che non l'hai
riconosciuto? Quello alto e smilzo, intendo... non l'hai...»
«Non mi pare...
Dovrei?»
«È il tizio del
mercato delle spezie... lo chiamavano Igor, ricordi? E se fossero qui
per...»
Jànos, per la prima volta, mi parve turbato, io tornai a
fissare l'uomo, con cautela, sentii i battiti del cuore accelerare
ancora, come quelli di una bestia braccata. Con un brivido, ricordai il
sesto giorno... uno dei primi villaggi visitati sulla via dell'est,
dopo essere emersi dal lago Balaton... Sile “per
fortuna” si era sentita male, quel giorno... il giorno che
avevo capito... capito che aspettava mio figlio. Mia moglie si era
fermata nella locanda, con Fear, ed io, dopo aver litigato furiosamente
con il vecchio, ero uscito a perlustrare i dintorni cercando di
procurarmi cibo ed erbe; era passato da parecchio mezzogiorno, il
mercato, all'approssimarsi del buio, stava ormai chiudendo, tra le
poche bancarelle rimaste erano apparsi all'improvviso degli uomini
incappucciati. All'inizio credetti fossero anche loro un gruppo di
viandanti, presto, però, con orrore, mi resi conto che erano
una “squadraccia” impegnata in una battuta di
caccia al Babbano. Si era scatenato il caos in pochissimi minuti, la
gente fuggiva terrorizzata dal mercato e cercava rifugio nelle case, la
merce saltava via dai banchi, stretti tra le fiamme, i tendaggi
infuocati si libravano nell'aria pregna di fumo e avviluppavano donne e
bambini, ovunque erano solo urla, oscurità squarciata dalle
fatture, lamenti, risate sinistre, passi di pesanti stivali sulla terra
ghiacciata. Ero riuscito a fuggire, correndo come un disperato e
nascondendomi, sfruttando tutto quello che conoscevo dagli anni passati
a Herrengton, consapevole di non poter usare la Magia, per non
tradirmi. Non sapevo chi fossero quei pazzi ma, anche se Milord non era
l'unico Mago che faceva proseliti e che odiava i Babbani, temevo
fossero affiliati al Signore Oscuro ed io non potevo rischiare di
svelare la nostra presenza in quei luoghi. Alla fine, due di loro mi
presero in trappola, seguendomi e spingendomi in un vicolo senza
uscita, avevo visto una porta e avevo pensato di raggiungerla, ma
l'avevo trovata sprangata; avevo cercato di difendermi con quello che
avevo, un bastone e la forza dei miei pugni... il mio avversario, che
il compare chiamava Igor, mi aveva fissato ridendo, poi mi aveva
lanciato addosso una specie di frusta di fuoco. Se ero ancora vivo, lo
dovevo alla prontezza di Jànos, che era riuscito, proprio
all'ultimo, a sbloccare la porta dalla parte opposta: l'incantesimo del
Mago mi aveva colpito di striscio, provocandomi bruciature dolorose su
tutto il fianco, che ora per fortuna stavano guarendo.
«Se fossero qui per uno dei
loro “divertimenti”, Jànos, scapperemo
tra gli alberi senza guardarci indietro. E, al diavolo la missione,
useremo anche la Magia per fuggire, se necessario...»
«Non pensi che debba esserci
dell'altro, in questa storia? Ci sono troppe coincidenze...»
«Ce lo siamo chiesti
dall'inizio: perché il nostro uomo dovrebbe arrivare fin
qui, solo per soddisfare un esecrabile vizio? Capisco la prudenza, ma
siamo molto, troppo lontani da Durmstrang, ancora... Un luogo
così fuori mano, dimenticato dagli dei... senza nient'altro
che questa dannata bettola... non può nascondere solo una
fissazione per le Babbane... ed ecco che, proprio stasera, quando il
“maestro” dovrebbe concedersi una notte di
lussuria, compaiono questi due...»
«Due di cui ora abbiamo
fondati sospetti siano dei Mangiamorte... da quanto ho letto, la frusta
di fuoco usata al mercato assomiglia a ciò che hanno usato a
Herrengton contro gli Aurors...»
«Non ne abbiamo la certezza,
però... »
«Per me è
sufficiente per sospettare che il Signore Oscuro stia facendo proseliti
tra i Maghi dell'est e che i contatti siano serrati... forse vuole
l'aiuto del nostro uomo per inserirsi nella scuola di Durmstrang e
allestire un esercito oscuro... ha già tentato di prendere
Hogwarts... o sbaglio?»
Annuii sospirando e abbassai gli occhi sul piatto, ricordando momenti
del mio passato di cui mi vergognavo come un ladro; l'idea che, con le
mie stronzate, avessi favorito l'arruolamento di tanti idioti, esaltati
come me... la consapevolezza di essere indiretto responsabile delle
loro azioni. Bevvi in un solo sorso il mio tè, pulendomi poi
la bocca con la manica della casacca: se i ragionamenti di
Jànos erano giusti, la missione stava per complicarsi
ulteriormente, perché qualcun altro, qualcuno di molto
pericoloso, era sulle tracce del “nostro uomo” e di
ciò che stavamo cercando.
«Stai perdendo tutti i tuoi
affascinanti modi da aristocratico, milord. Te ne rendi
conto?»
Jànos sghignazzò, per rompere la tensione e
dissimulare l'importanza del nostro chiacchiericcio che pareva aver
incuriosito un altro avventore, io non lo guardai, ma riflettei tra me,
triste; avevo perso me stesso, vero, ma prima, molto prima, quando
avevo fatto tutta quella caterva di cazzate... Ora, invece, per la
prima volta da anni, accanto a Sile, nonostante quella vita raminga, mi
sentivo me stesso. Quando il moccioso allungò la mano per
prendere la mia, forse per incoraggiarmi, restai sorpreso e la
sottrassi subito, sperai fosse un atto fortuito, dovuto alla scarsa
superficie su cui stavamo cenando; lo guardai, anche se la Polisucco
alterava i suoi tratti, dandogli l'aspetto di un giovane di circa
quattordici anni, i suoi occhi restavano quelli luminosi e taglienti
che stavo imparando a conoscere. E la sua voce... s'incupiva in quella
di un ragazzino, ma era riconoscibile, l'unica voce amica che sentivo
da giorni. E che spesso non potevo fare a meno di detestare.
«Fai più
attenzione, maledizione! E basta con queste stronzate!»
Mi alzai, andai fino al bancone, avendo cura di controllare se i due
presunti Mangiamorte reagissero ai miei movimenti, ma parevano
impegnati a parlare degli affari propri, chiesi all'oste di servirmi
della birra e dell'altra acquavite: l'uomo, che aveva messo il muso
quando avevo rifiutato il “servizio completo”,
tornò a guardarmi meno minaccioso e fece cenno a un'altra
ragazzina di tenersi pronta. Tornai al mio posto, nervoso e disgustato,
stava passando il tempo e l'insegnante che pedinavamo da giorni non si
faceva vivo: se Fear aveva sbagliato, stavolta con me aveva chiuso.
«Finisci la tua cena e vai in
camera... la serata è inconcludente e qui sei solo
d'intralcio...»
«Come? Adesso? Il nostro uomo
non è ancora arrivato, potrebbe farlo da un momento
all'altro! E se fosse necessario pedinare sia lui, sia gli altri? Ti
servo, la guardia si fa meglio in due!»
«Se avrò bisogno di
te, lo saprai. Finisci di mangiare, vai in camera e chiuditi a
chiave... e sii prudente: hai visto che gente c'è, porci che
vanno a bambini... hai un pugnale: se necessario, usalo!»
«Non avrai intenzione di fare
qualche cazzata? Ti ho visto, cambi colore quando le guardi!»
«Le mie intenzioni sono solo
affari miei, Jànos... tu vai in camera e restaci!»
Jànos tacque, pensieroso, sapeva che le parole erano inutili
con me, non mi sarei lasciato convincere, alla fine si
ritirò, dopo aver spazzolato anche la mia porzione di
Halušky: ero affamato, ma vedere quello scempio mi aveva
chiuso lo stomaco. Mi ero alzato ed ero andato al banco, a bere la mia
birra e partecipare ai discorsi alcolici degli altri, in
realtà, aguzzando l'udito, intendevo spiare
“Igor” e l'altro uomo... Il piano originale
prevedeva di attaccare Dimitri Borislav, insegnante di Storia della
Magia a Durmstrang, in quella topaia, affatturarlo e costringerlo a
consegnarci qualcosa custodito nella sua scuola, indispensabile per la
mia missione; non immaginavamo certo di incontrare presunti
Mangiamorte. Ora, però, non potevo farmi sfuggire
l'occasione di capire se quegli uomini fossero affiliati al Lord e, nel
caso, che genere di mire avesse il Signore Oscuro su quelle terre e
quella scuola. Soprattutto dovevo scoprire se fosse impegnato nella mia
stessa ricerca.
Rimasi fino a tarda sera, fingendomi sbronzo come tutti gli altri, in
realtà non persi di vista un solo istante il viavai
frenetico intorno al corridoio che portava alle camere, per assicurarmi
che nessuno andasse a infastidire Jànos, ripetendo a me
stesso che non avevo timore per lui, ma solo che ci derubassero. Per
dare credibilità alla mia recita, cantai, offrii da bere,
persi denaro ai dadi, illusi l'oste di essere finalmente interessato
alle sue bionde, permettendo a Lenka di sedersi a strusciarsi sulle mie
ginocchia. Cercai di nascondere imbarazzo e collera quando quella
ragazzina prima mise la mano sotto la mia camicia, poi scese a frugarmi
dentro le braghe: non sapendo come uscirne, scoppiai a ridere,
borbottai frasi sconce, mi costrinsi persino a darle un bacio sulla
guancia, deriso dai presenti, convinti che ormai fossi troppo ubriaco
per riuscire a “essere uomo”. La commedia del
magiaro sbronzo che si faceva spennare come un pollo dovette risultare
abbastanza convincente, perché molti sghignazzarono quando
fu chiaro che Lenka stava cercando non di sedurmi ma di trovare tra i
vestiti denaro da rubare. La lasciai fare, sperando che quel denaro
facile la salvasse, almeno per una notte, dal dover procurare in altro
modo soldi al suo padrone, anzi, invece di reagire, mi misi a declamare
stronzate sui suoi occhi simili a stelle, e l'intera bettola
scoppiò in fragorose risate. Nonostante fosse riuscita a
sfilarmi il sacchettino, l'unica a non ridere, naturalmente, fu lei. I
due Maghi Oscuri, da parte loro, non sembrarono mai interessati a
quello che stava accadendo nel locale: non parlarono molto, non riuscii
a cogliere dettagli utili che spiegassero la loro presenza in quel
posto dimenticato da dio, compresi però che il cognome di
Igor era Karkaroff e che l'altro si chiamava Goran Ivanovic.
Era ormai quasi mezzanotte quando il maestro Dimitri Borislav
entrò nel locale: dopo aver chiesto al bancone un doppio
giro di acquavite, andò a sedersi con noncuranza, per
mancanza di posti nella bettola ormai piena, proprio vicino ai due
Maghi, dopo poche innocenti chiacchiere, li vidi scambiarsi con fare
circospetto qualcosa sotto il tavolo, sembravano delle pergamene. Fui
colto subito dall'agitazione: era necessario recuperare ciò
che Borislav aveva dato agli altri due, e che Ivanovic aveva
rapidamente messo sotto il mantello, altrettanto importante era vedere
il contenuto della pergamena che aveva ricevuto Dimitri; inoltre dovevo
portare a buon fine il piano originario, non sapevo quando si sarebbe
ripresentata l'occasione di affatturare il maestro e piegarlo alla mia
volontà. D'altra parte, una volta usciti da lì,
non sarebbe stato facile rintracciare Karkaroff e il suo socio e
soprattutto recuperare la loro pergamena, una pergamena che forse
conteneva proprio le indicazioni che mi servivano, perciò
decisi di dare la precedenza ai due presunti Mangiamorte. Io ero solo e
loro erano due, ma potevo contare sull'effetto sorpresa, non credevo si
aspettassero di trovare un altro Mago in quella topaia; o, almeno, io
speravo che non avessero percepito la mia Magia. Circa mezzora
più tardi, durante la quale i tre si diedero ad abbondanti
libagioni, il maestro si alzò incerto sulle gambe,
andò al bancone, estrasse un sacchetto pieno di monete e,
dopo un rapido sguardo nella sala, riconobbe Lenka e la
indicò tremante, al cenno d'assenso dell'oste, la bambina si
allontanò da me e, mesta, si avvicinò all'uomo di
Durmstrang, per condurlo verso le camere; contemporaneamente Karkaroff
e Ivanovic, ormai sbronzi, saldarono il conto e uscirono barcollanti
dalla porta posta sul retro.
Fui tentato di cambiare di nuovo i miei piani e intervenire, ma sapevo
cosa ci fosse in gioco, non lo potevo fare, perciò m'imposi
di non pensare a Lenka e agire: barcollante, mi avvicinai all'oste
dicendomi offeso e reclamando la “mia bambina”,
poi, facendo sempre finta di incespicare, gli chiesi della latrina e
uscii dallo stesso squallido corridoio in cui avevo visto sparire i due
Maghi. Appena raggiunsi la porta, il freddo gelido della notte mi
colpì allo stomaco e alla testa, ma dopo la vertigine
iniziale, fu una liberazione, perché lontano dagli odori
molesti e dal fumo, la mente tornò improvvisamente lucida.
In silenzio, senza muovermi, studiai la situazione: Ivanovic non c'era,
probabilmente si stava servendo del bagno, Karkaroff lo stava
attendendo addossato alla parete della bettola, poco lontano dalla
porta da cui eravamo usciti, illuminato appena dal riverbero delle rade
fiaccole che segnavano il sentiero. Aveva estratto la bacchetta e
sembrava tutto impegnato a reggersi in piedi, oltre a bruciare ciuffi
d'erba a terra, pensoso, troppo pensoso: ogni tanto sghignazzava da
solo... non c'era bisogno di molta immaginazione per capire cosa stesse
per fare.
Estrassi la bacchetta dagli stivali, poi, consapevole che usare la
Magia avrebbe avuto lo stesso effetto di mettersi a urlare,
“Sono Mirzam Sherton, sono qui, venite a
prendermi”, desistetti. Scivolai leggero, muovendomi nel
buio, fino a trovarmi dietro l'uomo, non ebbi difficoltà,
dopo i tanti giorni passati a caccia con mio padre, sapevo come
avanzare senza fare rumore anche senza servirmi della Magia, Karkaroff
si voltò all'ultimo, forse fu solo un caso, forse, in un
momento di lucidità, aveva percepito la mia presenza, ma era
troppo tardi, io non attesi un solo secondo, gli sferrai un pugno
violento alla tempia e una ginocchiata al basso ventre, poi mentre si
piegava in due dal dolore, lo colpii altre due volte, due pugni
assestati dal basso contro il mento. L'uomo crollò svenuto
davanti a me, dritto tra le mie braccia. Ghignai, al pensiero di
avergli restituito almeno in parte il dolore che ancora provavo al
fianco. Lo appoggiai contro la parete, così, se qualcuno
l'avesse visto, avrebbe pensato che fosse rovinato a terra per la
sbornia. Sentii dei rumori d'acqua provenire dalla latrina, compresi
che non avevo molto tempo. Con le mani doloranti e quasi
inutilizzabili, mi avvicinai di corsa e arrivai sull'uomo proprio
mentre stava uscendo dal cubicolo: sferrai un calcio contro il legno
con tutta la forza della rincorsa, la porta gli colpì
violenta la faccia, stordendolo, entrai e riuscii a agguantare Ivanovic
per il bavero senza problemi, benché fosse molto
più alto e robusto di me, lo scaraventai di schiena contro
la parete, una, due, tre volte, gli piazzai un paio di pugni alle
costole senza troppa forza, per il dolore che provavo alle nocche, ma
parvero sufficienti a spezzargli il respiro. Infine, già
piegato in due, gli rifilai la ginocchiata del k.o., atterrandolo
definitivamente: un paio di scontri violenti avuti con Rodolphus, da
ragazzo, aveva prodotto un'esperienza utile, non solo il dolore atroce
e l'umiliazione profonda di allora. Ivanovic sembrava svenuto, mi
piegai su di lui, gli sollevai la manica fino a scoprire l'orrido
Marchio nero che gli deturpava l'avambraccio, sconvolto dalla scoperta,
rimisi il tessuto a posto e frugai tra le vesti per prendere la
pergamena, l'arrotolai e la nascosi sotto il mio mantello. Volevo che
l'aggressione sembrasse un furto, perciò presi anche il
denaro, il medaglione e qualsiasi altra cosa sembrasse avere un qualche
valore economico. Conoscendo il Signore Oscuro, avrebbe dato a quei due
una pesante lezione per essersi fatti gabbare da uno stupido ladro
babbano, e questo solo per aver ceduto ai propri vizi. Mi sembrava una
punizione sufficiente. Stavo per allontanarmi e fare lo stesso su
Karkaroff per poi rientrare e occuparmi di Borislav, quando mi accorsi
che Ivanovic aveva gli occhi aperti e, cosciente, mi stava fissando.
Non aveva voce, ma le sue labbra spezzate biascicavano il mio nome, il
mio vero nome, andai con la mano sulla mia faccia, con orrore mi resi
conto che l'effetto della Polisucco era finito ed ero stato
riconosciuto; mentre la destra gli scivolava verso l'avambraccio
sinistro, non pensai un solo istante cosa fosse giusto e cosa
sbagliato, vidi solo il Signore Oscuro che piombava sulla mia Sile e le
strappava nostro figlio dal ventre. Terrorizzato e dolorante,
disperato, estrassi il pugnale e glielo infilzai nel costato,
più volte, sentii il suo respiro diventare un rantolo e il
calore del suo sangue bagnarmi le mani... Nonostante fosse sicuramente
morto, la paura che, solo ferito, andasse a raccontare tutto a Milord,
mi faceva temere che i colpi non fossero stati sufficienti,
così affondai ancora, un'ultima volta, proprio sotto il
cuore. E stavolta spinsi in profondità, in obliquo, verso
l'alto, ruotai il polso e con una forza che non credevo di avere, la
forza della disperazione, estrassi la lama velocemente, inzuppandomi
mani, viso e vesti del suo sangue. L'odore e la vista dello scempio mi
provocarono un attacco di nausea, vomitai il poco che avevo ingerito.
Con le mani lorde di sangue, corsi via, mi buttai a terra, mi rotolai
nella neve e ci immersi le dita, le strofinai, me la passai sulla
faccia: la neve si colorava di rosa, diventava rosso vivo, e le mie
mani, ai miei occhi, continuavano a essere sporche. Le mie gambe
cedettero, avevo commesso il mio primo vero omicidio.
Legittima difesa, hai ucciso per legittima difesa... Non cedere... non
ora... fallo per lei...
Dovevo tornare indietro, bere la Polisucco, ripulirmi il più
rapidamente possibile, presto anche Karkaroff si sarebbe ripreso ed io
ora avevo un motivo in più per allontanarmi. Respirai a
fondo, cercando di ritrovare lucidità, corsi accanto al
Mangiamorte, frugai tra le sue vesti, rubai tutto quello che mi pareva
avesse un minimo di valore, a partire dal medaglione. Battendo i denti
per il freddo, rientrai nel corridoio, mi puntai addosso la bacchetta,
per togliermi ogni traccia di sangue e neve dai vestiti e dalle scarpe,
trasfigurai gli oggetti sottratti ai Mangiamorte e li nascosi negli
stivali, poi bevvi un sorso di Polisucco, avendo cura di prenderne da
una seconda boccetta, una diversa da quella usata in precedenza,
così da assumere un aspetto nuovo e confondere Karkaroff, se
mi avesse avvicinato. Appena pochi istanti dopo, mentre ancora il mio
corpo si contorceva negli spasimi della trasformazione, sentii la voce
concitata del Mago balbettare sconnesso, quindi urlare il nome del
compare, sentii i suoi passi pesanti sulla neve, diretto verso il
corridoio in cui mi trovavo. Stava seguendo le tracce di sangue
lasciate dai miei piedi, ebbi solo il tempo di asciugarmi e gettarmi a
terra, uno dei tanti avventori svenuti per la sbronza. Karkaroff
superò ad ampie falcate lo spazio esiguo del corridoio,
quando mi raggiunse, si chinò, lo sentii voltarmi la faccia,
tremante, percepii la luminosità tipica di un Lumos puntato
contro gli occhi, grugnii di fastidio e biascicai parole incoerenti,
strizzando gli occhi, il Mago non mi riconobbe, mi odorò e
sentì la puzza di alcool, io finsi proprio allora un attacco
di vomito. Karkaroff mi maledì, schifato, mi diede un pugno
sulla faccia ora glabra e mi ributtò a terra, poi mi
assestò un calcio alle costole, facendomi gemere di dolore.
Si allontanò, incerto sulle gambe, rientrò nella
sala, seguendo il sangue sul pavimento: avevo avuto l'accortezza di
imprimere le mie orme ben oltre il punto in cui mi ero lasciato cadere,
se non l'avessi fatto, ne ero certo, a quel punto mi avrebbe
già ammazzato.
La voce dell'oste e quelle del Mago si levarono alte e rabbiose, si
affrontarono, cercando di dominare l'una sull'altra, poi improvviso un
lampo verde illuminò la stanza e riverberò fino a
metà corridoio. Calò il silenzio. La mattanza era
iniziata. La luce verde risplendette rapida ancora e ancora, mentre la
gente urlava. Dopo un lampo intenso, color amaranto, un boato
squassò l'aria, tutto attorno a me parve tremare, le urla si
alzarono ancora più violente e disperate, insieme al pianto.
Dovevo muovermi: sempre fingendomi instabile sulle gambe, mi
risollevai, raggiunsi la sala, tutto era avvolto nel fumo e nella
polvere, vidi tavoli incendiati, corpi martoriati a terra, morti, gente
ferita che si contorceva, altra che correva, una parete e il soffitto
della bettola erano crollati.
Salazar... non ci pensare, non è colpa tua... lo stava
già progettando... l'hai visto là fuori...
Percorsi il corridoio che conduceva alle camere, Karkaroff era
già lì, vidi molti, mezzi nudi, fuggire via da
lui, terrorizzati, diretti verso l'ingresso principale, nel buio e nel
freddo della notte: nella corsa, quasi mi travolsero. Vidi molti di
loro cadere sotto gli incantesimi del Mago, colpiti alle spalle, l'uomo
era pochi passi davanti a me, colpiva sempre più spesso,
come impazzito, ubriaco di sangue, alternava gli Avada agli
Schiantesimi, senza una logica apparente: apriva una porta dopo
l'altra, accecato dall'odio, alla ricerca di tracce del possibile
assassino. Dovetti nascondermi più volte, radente al muro,
dietro gente ferita o morta, rallentando così il mio
inseguimento. Aveva ragione Jànos, lo capii solo in quel
momento: mentre io mi occupavo di Karkaroff e Ivanovic, lui doveva
fermare l'uomo di Durmstrang... a quest'ora potevamo già
essere lontani da lì; invece, adesso, c'era il rischio che
Karkaroff trovasse Borislav e l'uccidesse, oppure, peggio, che capisse
che non era stato un semplice furto e chiedesse rinforzi. Ero diviso,
una parte di me pensava che dovessi trovare Jànos e
scappare, l'altra che dovessi, anche, eliminare quel terribile nemico.
Rapido, tenendomi nella penombra, con Karkaroff a pochi passi da me,
cercai di raggiungere la stanza che avevo affittato, dovevo svegliare
Jànos e farlo fuggire nel bosco, prima che fosse coinvolto,
Avevo recuperato la pergamena, forse era la stessa che volevamo che
Borislav consegnasse a noi... forse sarebbe bastato a capire quali
fossero le intenzioni del Lord. Forse potevamo andarcene senza troppi
rimpianti lontano da lì, non era necessario correre altri
rischi. Quando raggiunsi la camera, però, era già
stata aperta: il terrore mi corse lungo la schiena, entrai, nel letto
devastato dalle fiamme, non c'era nessuno, tutto era ridotto a
un'infernale confusione, Karkaroff doveva aver appellato la pergamena
senza trovarla e, furioso, aveva distrutto tutto, poi era uscito.
Tremante, spaventato all'idea di cosa avrei potuto vedere tra quelle
macerie, controllai tutta la stanza senza trovare nulla, prima di
riprendere l'inseguimento: non c'erano tracce di sangue, certo, ma
questo non significava che Jànos... Uscii nel corridoio,
c'era ancora una sola porta da aprire, in fondo a quel budello stretto
e buio, Karkaroff era proprio davanti a me, pronto a entrare. Pregavo
che Jànos non fosse tra quanti avevano già perso
la vita, mio padre e Fear non me l'avrebbero mai perdonato. Io stesso
non me lo sarei mai perdonato; pregavo che fosse tra quelli che avevo
visto fuggire nel bosco, e soprattutto che non fosse stato tanto
stupido da rifugiarsi proprio dietro quell'ultima porta. Conoscendolo,
però... Decisi di giocarmi il tutto per tutto: estrassi la
bacchetta e corsi silenzioso alle spalle di Karkaroff, ma ancora una
volta non feci in tempo, lui era già entrato. Sentii delle
urla agghiaccianti, vidi il buio solcato dalla luce spettrale degli
Schiantesimi, corsi fino alla porta, cercai di sporgermi, guardare
dentro, riuscii a evitare per un soffio un paio di fatture, ma la terza
mi prese a un braccio di striscio, facendomi sanguinare. C'era uno
scontro in atto, tra Karkaroff e, immaginavo, Borislav, ma non riuscivo
a vedere nulla, perché qualcuno aveva gettato un incantesimo
di oscurità, più potente del Nox. Lanciai uno
Stupeficium non verbale appena l'oscurità si
diradò un poco, permettendomi di riconoscere la sagoma
dell'uomo col colbacco che ostruiva la porta. Karkaroff, impegnato a
ribattere a ciò che aveva di fronte, non riuscì a
difendersi da me che ero alle sue spalle, crollò in avanti,
la potenza del mio incantesimo lo mandò quasi a colpire la
parete di fronte. Il suo avversario, a sua volta, aveva lanciato un
incantesimo contro di lui prima che cadesse, così ebbi solo
un istante per abbassarmi ed evitare di essere centrato in pieno.
«Salazar... sei tu... per
fortuna... Temevo che l'altro Mago ti avesse Schiantato o...
peggio...»
«Cosa... diavolo... ci fai...
qui? Ti avevo detto di aspettarmi nella nostra stanza! E
guardati!»
Esaurito l'effetto della Polisucco, davanti a me non c'era
più il giovanissimo Jànos, ma Margareth McKinnon,
la figlia di Orion, la ragazza che aveva deciso di seguirci e aiutarci.
E, da degna discepola di Fear, di perseguitarmi e tormentarmi,
naturalmente. Continuò a puntare la sua bacchetta contro il
Mago privo di sensi ai miei piedi, mentre gli si avvicinava, si
chinò su di lui e con sguardo assente, mi chiese se lo
volessi vivo o morto. Non sapevo che cosa risponderle, lei
insofferente, scelse per me e l’Obliviò. La fissai
alcuni istanti, turbato: ancora una volta, senza che avessimo mai perso
molto tempo a parlarci, in quei giorni, aveva capito quello che mi
passava per la testa. Andai a sedermi sul letto, controllandomi la
ferita e cercando di riprendere fiato, poi però, tornai a
guardarla, perché iniziavo a rendermi conto che c'era
qualcosa di strano in lei: i capelli di Margareth di solito erano corti
e corvini, ora erano lunghi e biondi... inoltre, al posto della casacca
da cacciatore, aveva una tunichetta che le dava l'aspetto di un pulcino
bagnato, molto simile a...
«Salazar! Che roba
è? Perché sei vestita così? Sembri...
Non...»
«Respira, Sherton! Non volevo
tenderti un agguato e provare a sedurti quando fossi tornato in camera,
se è questo che temi. se non altro per Sile e per i soldi
che tuo padre ha sprecato per te...»
«Al diavolo, McKinnon... se
t’illudi che io sprecherei mai i miei pensieri su una come
te...»
«“Una come
te” significa che se non avessi un quarto di sangue babbano,
invece...»
«... Sangue babbano, sangue
Grifondoro, e soprattutto dannato sangue Black!»
«Credevo che Sherton e Black
fossero amici, anzi... che tu avessi proprio un debole per...»
La fissai con odio e distolsi subito lo sguardo, meritava una lezione,
era chiaro, ma non ora...
«Io sono amico solo di chi non
mi rompe continuamente i cog...»
«Che modi... l'ho detto...
questa vita ti sta privando di tutto il tuo fascino
aristocratico...»
«Sarà colpa della
convivenza con personaggi molesti e sgraditi...»
«Posso sempre mollarti qui, se
preferisci... hai appena dimostrato quanto sapresti cavartela da solo,
no? Dopo il tempo che ci abbiamo messo a trovarlo, stavi per farti
scappare Borislav...»
«Io? E tu cosa avresti fatto
di meglio? Non mi pare di vedere Borislav qui dentro!»
«Il fatto che tu non lo veda,
milord, non significa che non ci sia, ma solo che il “grande
principe del nord, sua grazia fanfaronia”, non ha spirito di
osservazione... fallo dai! Cosa aspetti?»
Mi fissò addosso i suoi intensi occhi grigi, ironica, mentre
le avevo puntato contro la bacchetta, esasperato. La misi
giù: nonostante la trovassi insopportabile, avevo un debito
di riconoscenza verso di lei e non dovevo dimenticare di chi fosse
figlia, dovevo portare rispetto al mio padrino e sopportare. Mi guardai
intorno, interdetto, quella era la stanza di Borislav, tornai a
fissarla, mi guardava ghignando e intanto si stava puntando la
bacchetta addosso per finire di recuperare le proprie sembianze.
All'improvviso compresi che cos'era successo: Margareth non aveva
trovato rifugio lì, messa in fuga da Karkaroff... lei era
lì da prima che iniziasse tutto: aveva finto di ubbidirmi,
ma non era andata a dormire, si era nascosta nell'ultima stanza libera,
quella riservata dall'oste a Borislav e lì aveva atteso
l'arrivo del Mago di Durmstrang per coglierlo di sorpresa e
affatturarlo. Quando aveva visto Lenka entrare con lui, aveva
trasfigurato i propri capelli e i propri vestiti così da
assomigliarle: in questo modo aveva ingannato anche Karkaroff, quando
era entrato.
«Ce l'hai fatta ad arrivarci,
finalmente...»
Con indosso la casacca e i pantaloni adatti alla vita nei boschi, si
chinò sul letto, estrasse qualcosa da sotto il cuscino e mi
si avvicinò, tendendo la mano; quando l'aprì,
davanti a me, vidi tra le sue dita la seconda pergamena e una biglia,
minuscole. Puntò la bacchetta e pronunciò un
Engorgio, gli oggetti s’ingrandirono fino alle dimensioni
originali. Presi la pergamena, l'arrotolai e la misi sotto i vestiti,
senza leggerla, quello che mi attraeva era la biglia, trasformata in
una sfera piena d'acqua in cui nuotava un pesce rosso, con il pizzetto
di Borislav sulla barba e un orecchio umano in testa.
«Non è perfetto, lo
so, non è da molto che Fear mi sta insegnando questi
incantesimi...»
«Salazar... che cosa diavolo
hai fatto? La Trasfigurazione umana è illegale e...
pericolosa!»
«Illegale? Pericolosa? Avevi
bisogno del mio aiuto ed io te l'ho dato, cosa diavolo vuoi ancora? Non
mi umilierò a chiederti scusa per non aver rispettato i
precetti dei tuoi sacri insegnanti di Hogwarts! O le sacre regole del
Ministero? E non credere di essere solo tu un vero mago!
«Non ho mai detto una cosa del
genere, non ho mai...»
«È ciò
che pensi... ed io ne ho abbastanza di te! E ora basta, andiamocene di
qui prima che arrivi qualcuno, o che a questo idiota passi la
sbornia...»
«Mi dispiace... ti ringrazio
dell'aiuto e... sbagli se pensi... ehi, dove vai? Aspettami...
Margareth... che ne è della ragazzina che era con Borislav?
Non le hanno fatto del male, spero...»
«Non hanno torto un capello
alla Babbana... Sherton... cuori di burro e lacrima facile!»
La fissai e sentii di nuovo accendersi la mia faccia d’ira e
disprezzo.
«Come cazzo ti
permetti?»
«Andiamo... potrai fare
l'offeso tutto il tempo che vuoi... una volta al sicuro!»
Mi cedette il passo, io le diedi le spalle, offeso e ammutolito. Non la
sopportavo, tra lei e Fear quei giorni erano stati una condanna
continua, eppure... Eppure la guardavo e non potevo fare a meno di
essere confuso e ammirato: non tanto per la trasfigurazione,
benché non avessi mai visto nemmeno mio padre eseguirla, ma
per il sangue freddo che Margareth aveva dimostrato, e per il suo
mettersi in gioco, in fondo, in una missione che, con la sua vita, non
c'entrava nulla. Mi doleva ammetterlo e non glielo avrei mai confidato,
certo, ma... nonostante gli istinti omicidi e la voglia di prenderla a
randellate che mi suscitava venti volte al giorno, lei iniziava a
piacermi, così coraggiosa e tosta. Ed io ero felice che al
mio fianco, e soprattutto accanto a Sile, ci fosse una persona simile.
*
Odiavo la notte, il silenzio, il restare solo con i miei pensieri:
nonostante la stanchezza, non c'era pericolo che mi addormentassi,
perché al termine di quelle lunghe giornate, in cui la
necessità di sopravvivere e difendere ciò che
avevo di più caro mi tirava fuori forze e risorse che mai
avrei creduto di possedere, i soliti sensi di colpa tornavano e
m’impedivano di prendere sonno. Non riuscivo a fare a meno di
pensare all'uomo che avevo ucciso e a tutta la gente ammazzata da
Karkaroff... certo, eliminare un Mangiamorte doveva essere motivo di
sollievo, non di turbamento, e le persone morte nella bettola, per il
male che facevano a quelle ragazzine, meritavano una punizione. E,
Karkaroff avrebbe ucciso quei babbani, anche se io non l'avessi preso a
pugni... Era così, lo sapevo, ma non riuscivo a chiudere gli
occhi senza rivedere le mie mani bagnate di sangue.
Stringendomi addosso il mantello, ravvivai il fuoco, anche se non
spettava a me montare la guardia: avevamo raggiunto gli altri in piena
notte, Margareth aveva sostituito il vecchio al posto di guardia vicino
alla tenda più grande, dove Fear si era messo subito al
lavoro sulla pergamena sottratta ai Mangiamorte e sulle cose rubate a
Barislav. Il maestro e la ragazzina erano con lui, svenuti, in pratica
nostri prigionieri: l'idea era quella di Obliviare il maestro, cambiare
i suoi ricordi e lasciarlo libero, non prima, però, di
averlo posto sotto Imperius, perché la pergamena, per quanto
utile, non sembrava essere ciò che stavamo cercando. Quanto
a Lenka... Fear voleva Obliviarla e lasciarla andare, ma Margareth
l'aveva convinto a fare qualcosa di più, trovarle un posto
sicuro, lontano, un'alternativa alla vita disgraziata che aveva
condotto finora. Mi aveva fissato mentre lo diceva ed io ero rimasto
senza parole, mi turbava che avesse capito i miei pensieri senza che io
le avessi detto nulla del mio bizzarro progetto di salvare quella
bambina. Fear, invece, mi aveva fatto capire in modo inequivocabile che
mi considerava responsabile di quell'ennesima stronzata, fissandomi con
un cipiglio carico di disapprovazione. Sospirai, non era importante,
contava solo essere riusciti a portarla via, avere fatto la cosa giusta
per qualcuno... senza voler niente in cambio.
Sile dormiva poco lontano da me, nella tenda più piccola, io
restavo fuori, vicino al fuoco: sfinita com'era, non mi aveva sentito
ritornare, ed io, pur volendola rivedere subito, dopo tre giorni
passati lontano, non me l'ero sentita di svegliarla, sebbene sapessi
che si sarebbe dispiaciuta, l'indomani.
Nei nostri pochi giorni felici da novelli sposi, Sile mi aveva fatto
apprezzare la sua filosofia, secondo la quale il sonno era solo tempo
rubato alla vita. Io ero sempre stato un po' pigro, ma al suo fianco,
alla scoperta delle gioie dell'amore, avevo iniziato a pensarla come
lei: ora però non era la sola voglia di intimità
a farci considerare sprecato il tempo passato a dormire, ma la
necessità di vivere insieme quei rari momenti di
normalità e condivisione. Da quando eravamo partiti,
c’eravamo visti pochissimo: ci muovevamo di continuo, di
solito divisi, per poi ritrovarci in punti convenuti; i gruppi non
erano mai gli stessi, per non essere riconoscibili, nel caso ci
pedinassero: a volte Fear andava con Margareth e Sile, lasciando me da
solo, altre volte ci dividevano in coppie; per lo più, Sile
restava ferma in un luogo sicuro con Margareth, mentre Fear ed io
affrontavamo ciascuno una missione diversa. Lei non restava mai da
sola, ma non stava mai con me, a parte la notte, quando dormivamo
insieme, al termine di missioni che potevano durare anche dei giorni.
Era per questo che, quando finalmente ci ritrovavamo, consideravamo un
sacrilegio sprecare tempo a dormire, tempo che passavamo a parlare,
baciarci, ridere, o semplicemente guardarci: io sarei rimasto ore e
giorni a guardarla, a stringerla tra le braccia e soprattutto baciarla.
Era grazie all'idea dei piccoli, brevi momenti con lei che mi
attendevano al ritorno, che riuscivo a sopportare l'orrore di tutto il
resto. E per Sile era lo stesso.
Sospirai, mi voltai verso la tenda e immaginai mia moglie che dormiva
abbracciata alle coperte, sognando la mia pelle, come io sognavo la
sua. Avrei voluto raggiungerla, per amarla tutta la notte. Ma non
eravamo più soli, adesso: lei aspettava un bambino, lei
aspettava mio figlio... ed io non volevo che lei rinunciasse al giusto
riposo per me. Quel pensiero, il pensiero del bambino, mi provocava
idee contrastanti, a volte immaginavo di fuggire lontano, per tenerla
al sicuro, avrei cercato di attrarre l'attenzione del Lord su di me,
per distrarlo da lei e da mio figlio... altre volte, avrei voluto
prenderla e scappare con lei nella notte, lontano da Fear e da tutto il
resto, al diavolo la missione, Herrengton, Habarcat, Milord... andare
lontano, tanto lontano, lei ed io, e nostro figlio, insieme, una vita
nuova, solo noi.
Sospirai. Non era questo che avevo immaginato. Avevo paura, paura degli
stress inauditi e inadatti alle sue condizioni che Sile doveva
sopportare a causa mia, sapevo che meritava tutt'altro, una casa
sicura, una vita tranquilla, giornate passate a pensare al colore della
stanza del bambino, o a far compere con le amiche, notti fatte di
tenerezze scambiate nel nostro letto. L'unica cosa che potevo fare per
lei, invece, l'unico dono che potevo offrirle, era non disturbare il
suo riposo, consapevole che anche così, sottraendomi, la
facevo soffrire.
Accesi sul fuoco uno dei sigari che mio padre aveva infilato nella mia
sacca da viaggio, uno dei piccoli piaceri che mi riportavano al
passato, aspirai profondamente e ripensai a quei pochi giorni...
pochissimi giorni in cui le nostre vite erano state stravolte. Era
successo di tutto, ma avevo solo ricordi fugaci. L'unico ricordo che
brillava nitido nella mia mente era la mattina in cui avevo scoperto
che Sile era incinta... ricordavo come tremava, nella sua tunichetta
leggera, quando era venuta a svegliarmi, i suoi occhi resi grandi dalla
consapevolezza e dal timore misto a gioia, il suo viso rosso per
l'emozione, felicità e paura, paura della mia reazione. A
quelle parole, mi ero messo a piangere di felicità, in
ginocchio ai suoi piedi, le avevo stretto le gambe tra le mie braccia e
avevo iniziato a baciarle la pelle, finché lei aveva
affondato le mani tra i miei capelli.
«Ne sei felice anche tu,
allora? Ne sei davvero felice, Mirzam?»
«Felice e orgoglioso... come
potrei non esserlo? Avremo un figlio, io e la donna che
amo...»
In quella mattina brumosa, in quella locanda sperduta avevo capito
quanto fosse ridicolo il mio progetto di vivere solo con lei per un po'
prima di pensare ai figli: quando Sile me l'aveva detto, avevo sentito
accendersi la luce in una parte di me che esisteva giàmsenza
che io lo sapessi, avevo capito quanto desiderassi lei e i miei figli,
i nostri figli, non era possibile scindere l'una dagli altri...
La paura era venuta fuori solo dopo: Fear, che già nutriva
sospetti sullo stato di Sile, mi aveva fatto pesare la situazione come
al solito, a modo suo, e tra noi le cose erano definitivamente andate a
rotoli, perché quel dannato bastardo aveva osato prendersela
anche con Sile, accusandola di scarsa serietà e di essere
un'irresponsabile, come me. Avevo avuto una reazione violenta, l'avevo
minacciato che, se avesse ancora mancato di rispetto a mia moglie,
avremmo fatto armi e bagagli e ce ne saremmo andati, al diavolo la
missione e la Confraternita. Era stata la prima e unica volta che avevo
visto Fear tacere, anzi, da quel giorno, aveva smesso di darci il
tormento e non aveva più fatto storie alla nostra pretesa di
dormire insieme. Conoscendolo, dubitavo che comprendesse, piuttosto
doveva essere offeso e il suo pensiero, ora, si era di certo fissato
sulla missione e sulla sicurezza del bambino. Quella mattina, furioso,
ero uscito... e la giornata era finita con l'attacco di Karkaroff:
avevo passato solo pochi giorni di spensieratezza e speranza, poi,
appena ero stato colpito, avevo capito che nulla sarebbe stato come
l'avevo immaginato. Il destino mi stava dando la famiglia che avevo
sempre sognato, ma io non potevo garantire loro la sicurezza che
meritavano, la vita di pericolo e rinunce cui avevo costretto Sile, era
ciò che attendeva anche mio figlio.
Osservando il cielo stellato che faceva capolino tra le cime degli
alberi e il profilo della montagna, spensi il sigaro a terra. Alla luce
del fuoco mi sollevai il maglione che avevo addosso e controllai le
bruciature che avevo ancora al fianco. Stranamente, fortunatamente, la
missione di quella notte era andata bene, né io
né Margareth eravamo stati feriti, usando solo un poco di
astuzia e sfruttando bene i tempi, eravamo riusciti a colpire e rendere
inoffensivi tre avversari molto più forti e scaltri di noi,
recuperare le pergamene, e mettere le mani su Borislav...
«Perché non mi hai
svegliato quando sei tornato?»
Mi voltai, Sile, con una coperta di lana ad avvolgerla tutta e la
treccia allentata, si era affacciata dalla tenda e ora si avvicinava al
fuoco, si sedette vicino a me, le sorrisi, mi prese le mani tra le sue,
mi guardò intensamente, poi alzò il volto per
farsi baciare, accarezzandomi la testa, io le stampai dei baci lievi
sulle guance e sugli occhi, resi piccoli dal sonno.
«Dovresti dormire, Sile...
è notte fonda e hai bisogno di riposare...»
«Non voglio... so che non
sarai qui, quando si farà giorno... e mi manchi
già... infinitamente...»
«Non andrò da
nessuna parte: abbiamo catturato Borislav e abbiamo preso delle
pergamene... crollasse il mondo, ora voglio stare con te... almeno tre
giorni... Se ci muoveremo, lo faremo insieme... Se resteremo, tu ed io
arriveremo nel villaggio più vicino, ti comprerò
un nastro per i capelli e passeremo la giornata insieme, a ridere e
mangiare, mentre Fear lavorerà sulla pergamena e Margareth
si occuperà del prigioniero... perciò ora riposa,
io starò qui fuori, a pochi passi da te...»
«È troppo anche un
solo passo, Mirzam... sei stato via per giorni, ti voglio con
me...»
«Sile... non è
così semplice...»
La fissai, lei guardò me, in attesa: avevo giurato a me
stesso che non le avrei più taciuto nulla, ricordai momenti
dolorosi in cui avevo fallito, in cui avevo quasi mandato a monte la
mia vita per uno stupido segreto. Non l'avrei fatto più, non
le avrei più nascosto pensieri, fragilità,
dubbi...
«Non so se mi vorrai ancora al
tuo fianco, dopo, ma... non sarei onesto con te se non te lo dicessi...
ed io ho giurato... Ho ucciso un uomo, stanotte, Sile: le mie mani sono
sporche di sangue...»
Mi guardò, non riuscii a decifrare la sua espressione,
pensai di aver appena fatto la mia ennesima cazzata, ma dentro di me
ero convinto di essere nel giusto, quindi non abbassai lo sguardo.
«Hai desiderato farlo, Mirzam?
Sei soddisfatto di averlo ucciso? Ti ha fatto sentire potente? Avevi
altra scelta, ma hai preferito infierire per il gusto di vedere la
paura nei suoi occhi?»
«No, non avevo altra scelta,
no, ma, invece di scappare, ho piantato un pugnale nel suo
petto...»
«Che cosa sarebbe accaduto,
Mirzam, se non l'avessi fatto? Vivere o morire, Mirzam... sapevi che
prima o poi sarebbe accaduto... per difendere te stesso, me, nostro
figlio... Tu non sei un assassino... Io non ti avrei mai sposato, non
ti avrei mai amato, se tu lo fossi veramente...»
Mi baciò la mano e se la passò lentamente sulle
labbra, mi si sedette in grembo, aprì la coperta per
avvolgerci entrambi dentro, non aveva nient'altro addosso ed io la
strinsi tra le mie braccia, baciandola con passione, perdendomi nel
profumo del suo collo, stordito dal desiderio, ma anche dalla forza del
suo perdono. Volevo stendermi con lei, stringerla forte, fondermi con
lei, amarla. Era evidente quanto la desiderassi anch’io. Feci
scorrere le mani sulla pelle vellutata della sua schiena, indugiando
sulla spina dorsale e morsi, leggero, le sue labbra, per poi scivolare
sul lobo del suo orecchio, strappandole un gorgoglio. Ero rapito,
ipnotizzato dalle sensazioni e dalle ombre purpuree del
falò. Quando sentii un rumore lieve nel buio oltre il fuoco,
tornai immediatamente vigile, mi ricomposi e mi alzai, con Sile stretta
al mio fianco e la bacchetta in pugno, ci avvicinammo alla tenda,
sollevai il tessuto e la feci entrare, guardandomi indietro prima di
entrare a mia volta, finché la tenda scivolò di
nuovo giù, dietro di noi, difendendoci dal resto del
mondo...
Fissai Sile, era fragile e infinitamente forte, bella ancor
più di quanto fossi abituato a vederla, una bellezza fatta
di amore pieno.
Mi avvicinai, mi chinai a baciarle il collo, mormorandole all'orecchio
quanto l'amassi.
Spensi tutte le candele tranne un paio, le feci scivolare la coperta
dalle spalle e le cinsi i fianchi, portandola a sedersi e a sdraiarsi
sul letto, accanto a me. Con un colpo di bacchetta mi spogliai
anch’io. Sile scivolò con lo sguardo sul mio
corpo, vidi i suoi occhi soffermarsi sulle ferite al mio fianco,
accucciata, sentii le sue dita accarezzarmi la pelle, mormorando parole
che non compresi. Accarezzai il suo viso, così piccolo nelle
mie mani grandi, poi immersi le dita tra i suoi capelli folti e neri,
il mio sguardo nel suo. Si strinse a me, premendo il seno caldo sul mio
petto, le mie labbra rapite dalla sua bocca; le sue mani si
appoggiarono sulle mie spalle e premettero, sentii i suoi capelli
solleticarmi la faccia, mugolai appena un po', poi ruotai per mettermi
supino, come desiderava lei, così che il mio mondo fossero
solo i suoi occhi meravigliosi, le sue lentiggini, il suo calore
stretto sopra di me. All'improvviso la sentii attorno a me, lenta e
delicata, un caldo, accogliente, nido di vita; mi strappò un
gemito profondo. Scivolai con le dita a percorrerle tutta la schiena,
mentre si muoveva. Sile era forte e fragile ed io tremavo esattamente
come lei, preso dal desiderio e dal timore di spezzare qualcosa di
tanto perfetto e fragile. Come se mi avesse letto nel pensiero, mi
prese le mani, quelle mie mani che avevano tolto la vita, le
baciò, se le portò al collo e le fece scivolare
leggere lungo il suo corpo, fino a fermarle alla base delle costole.
Sentii il suo respiro, immaginai la vita che stava crescendo
là dentro, la vita che aveva creato con me. Insieme. Mi
sollevai a baciarla, mordendo il suo collo delicato, le mani sulle sue
gambe, sulle sue cosce, che sapevano essere deliziosamente morbide,
sotto le dita, e incredibilmente forti intorno ai miei fianchi. La
fissai, mentre la sorreggevo, persa nei sospiri che le strappavo,
continuai a tempestarla di baci e umide carezze, lasciando che il
nostro amore cancellasse tutto, l'orrore, la paura, la colpa, che
tornasse tutto come quella magica notte di Maillag, in cui ci eravamo
ritrovati, dopo infinite tempeste, finalmente uniti, finalmente
sposati, diversi e al contempo noi stessi.
Innocenti e buoni.
*
... Tutti noi siamo fatti di luce e di oscurità, e dinanzi a
noi si aprono continuamente sia la strada che porta alla
virtù sia quella che conduce alla perdizione; non
è prestabilito quale delle due percorreremo nella nostra
vita, è una scelta esclusivamente nostra, da rinnovare ogni
giorno. Crescendo, inoltre, scoprirai che queste strade non sono linee
rette, ma percorsi tortuosi che spesso si sovrappongono, al punto che
il male diventa, a volte, l'unica strada per far prevalere il bene...
Quando mi svegliai, poco prima dell'alba, mi attardai a ripensare alle
parole di mio padre, gli occhi fissi sulla tenda che ci sovrastava.
Sile ed io eravamo ancora avvinghiati, le gambe intrecciate, ci eravamo
addormentati così, uno nelle braccia dell'altra. Spostai i
capelli corvini dal suo viso, ammirai la linea delle sue labbra,
arrossate dai miei baci; con un ghignetto divertito, scansai un poco le
lenzuola e ammirai lo stesso rossore stampato sul suo collo e sul suo
seno, ancora traumatizzati dalla mia bocca.
Guardai le mie mani, con un brivido, ricordai la sera precedente, ma
pensai anche a come, sul corpo niveo di Sile, avessi smesso di vederle
sporche di sangue. Lei era la mia salvezza, le dovevo la mia vita, e
giurai a me stesso che avrei fatto di tutto per rendere concreto
l'amore che provavo per lei.
Avendo cura di non svegliarla, scivolai fuori dal nostro giaciglio e
uscii dal retro della tenda, lasciai che il freddo del mattino mi
baciasse la pelle nuda e sudata: mi sgranchii, osservando nella luce
grigiastra le Rune sulla mia pelle, notai come, ultimamente, avessi
perso un po' di tono e di peso. Pensai che anche Sile stesse mangiando
in modo troppo frugale: nonostante quanto diceva Fear, dovevo passare
un po' del tempo a mia disposizione andando a caccia... Sì,
Sile e il bambino sentivano di sicuro, forte, il bisogno di cibo, di
carne. Passai le dita sulla mia faccia, sentii di nuovo lunga la barba:
non avevo avuto né la voglia né il tempo di
radermi, ma ormai stavo assomigliando di nuovo all'uomo che era stato
visto sul luogo dell'incidente a Podmore. Mi stropicciai i capelli...
troppo lunghi...
All'improvviso, mentre prendevo la neve da avvolgere nelle bende di
cotone per i rituali del mattino, ebbi la sensazione di non essere
solo, mi guardai intorno, incerto, la luce non permetteva di capire
forme e distanze, ma alla fine vidi Margareth che si stava muovendo in
modo furtivo, diretta nella sua tenda. Non doveva importarmi, facendo
quella vita raminga e promiscua era normale, ma solo il sospetto che mi
avesse spiato, mi provocò imbarazzo e fastidio.
Stavo borbottando tra me, vergognandomi e arrabbiandomi all'idea che mi
avesse spiato non solo in quell'occasione, quando vidi qualcosa di
luminescente tra gli alberi della foresta: non era più buio,
ma non era ancora giorno, all'inizio pensai fosse un particolare gioco
di luce che annunciava l'alba, poi mi resi conto che la luce veniva da
Ovest. E che la luce era argentea, non rosata. Mi fermai, le bende di
cotone caddero nella neve, sentii un tuffo al cuore, quando vidi che si
avvicinava di corsa e sembrava diretta proprio verso di noi, proprio
verso la tenda. Sembrava una sfera d'argento, all'inizio, ma a mano a
mano che si avvicinava assumeva una forma precisa, una forma che
conoscevo.
Era un Patronus... Un Patronus che conoscevo. Un Patronus che conoscevo
bene.
Si fece largo tra il fogliame, si palesò maestoso, dinanzi a
me, ma non si fermò, mi superò e rapido
s’infilò nella tenda più grande, dove
Fear era ancora al lavoro; corsi dentro, con il cuore in gola, carico
di domande, consapevole che, per essere lì, qualcosa di
grave doveva essere appena accaduto a casa.
*continua*
NdA:
Ciao a tutti,
comincio con il
ringraziare quanti hanno letto, commentato e aggiunto alle varie
liste. - Questo capitolo è straordinariamente
lungo perché è il risultato della fusione (2015)
di due chap postati nel 2013 - . Riguardo la prima parte vorrei solo
ricordare che Meissa non ha ancora 12 anni, immagino perciò
che siano giustificabili le sue reazioni, un po' da bambina
piagnucolosa, un po' da ragazzina che inizia a arrabbiarsi e
ribellarsi, come pure la volubilità delle
impressioni sulle altre persone, tipo William Emerson. Meissa inizia a
capire le differenze nei comportamenti degli altri, e a percepire che,
pur criticabile per molti aspetti, William è onesto, e su di
lui potrà sempre “contare”, al contrario
di altri personaggi con cui ha interagito di recente.
Bon, ci
leggiamo prossimamente, un bacio e a presto.
Valeria
Scheda
Immagine
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