CAPITOLO
.1
<> Un giovane ragazzo dal viso stanco
e spaventato,
indietreggiava sempre di più, mentre il suo pusher di
fiducia accompagnato dai
suoi due tirapiedi, era pronto ad attaccare.
<<
Dove
sono i miei soldi fottuto bastardo? >> Slim
sferrò un pugno sul volto del
giovane ragazzo e lo lasciò sanguinante
sull’asfalto.
<<
Ti do ventiquattro
ore per pagare la merda che ti fumi con i tuoi amichetti,
dopodiché ti
ritroverai con una pistola puntata alla tempia. >> Si
chinò e prese il
ragazzo per la maglia facendolo rialzare. Poi gli voltò le
spalle e sparì
nell’oscurità di quel vicolo della
città di Milano.
Slim
era il
peggior spacciatore in circolazione, non perchè facesse male
il suo lavoro, ma
perché era una pessima persona.
Tutti
lo
descrivevano come una bestia, un mostro di uomo privo di sentimenti, il
suo
cuore era gelido come il ghiaccio. Tutti a Milano parlavano di lui, e
tutti
sapevano che, se gli avessero mancato di rispetto, si sarebbero trovati
con
un’arma da fuoco puntata alla tempia e il cervello nelle mani
di Slim. Insomma
era il boss della città di Milano.
Ovviamente
come
tutti i boss che si rispettano, anche Slim aveva dei tirapiedi. Una
banda di
ragazzini pronti a morire per il loro capo. Avevano tutti tra i sedici
e i
vent’anni e nessuno di loro girava senza un’arma.
I
migliori per Slim
erano Mike e Alan, due fratelli di diciannove e diciotto anni che lo
seguivano
ovunque, da quando avevano capito che andare a scuola non sarebbe
servito a
nulla e che l’unica cosa importante nella vita erano i soldi
e il rispetto. Che
cosa si poteva pretendere da quei ragazzi, con un esempio del genere
davanti?
Slim
non aveva
passato una bella infanzia. I suoi genitori erano morti quando aveva
dieci anni,
a causa di un incidente stradale. Nessuno dei suoi parenti volle
prendersi la
briga di crescere un bambino squilibrato e casinista, quindi il piccolo
Slim fu
sballottato da un orfanotrofio all’altro, ma anche
lì non ebbe fortuna, nessuna
famiglia volle adottarlo, fino all’età di
quattordici anni.
Così
la
proprietaria dell’orfanotrofio in cui si trovava decise di
portarselo a casa.
Quello
fu lo
sbaglio più stupido che potesse fare. Slim iniziò
a uscire, a farsi la sua
comitiva di amici e a combinare i primi casini in giro. Dai quattordici
anni ai
diciotto non fece altro che entrare e uscire dal carcere minorile, con
l’accusa
di spaccio di sostanze stupefacenti, furti e violenze. A
vent’anni se ne andò
di casa e si trasferì in un appartamento nella periferia di
Milano. Ora, a venticinque
anni, era diventato un uomo cattivo e con un odio profondo verso ogni
essere
umano. La gente rabbrividiva solo a guardarlo.
Nonostante
le
sue brutte maniere, era sempre circondato da donne, di ogni
età. Ovviamente con
loro il suo comportamento non cambiava, le trattava tutte come degli
oggetti.
Dopotutto
era
un bel ragazzo: alto all’incirca un metro e ottanta,
corporatura da giocatore
di rugby, capelli leggermente ricci e di color castano come i suoi
occhi colmi
d’odio.
Aveva
lo sguardo stanco, lo
sguardo di uno che ne aveva passate tante, ma aveva ancora la forza di
lottare
e andare avanti.
<<
Che ci facciamo qui
Slim? >> Chiese Alan guardandosi intorno.
Quel
posto metteva i brividi. Era
una strada senza uscita dove le uniche cose che
c’èrano erano dei bidoni della
spazzatura e un lampione che illuminava i volti dei tre ragazzi.
<<
Aspettiamo un cliente.
>> Rispose il capo sorridendo.
Dopo
qualche secondo un ragazzo
magrolino apparve dal fondo della strada. Era vestito in modo elegante
e
camminava insicuro verso i tre ragazzi.
<<
è
lui? >> Chiese Alan sorpreso. << Un figlio
di
papà, non gli manca nulla, perché si distrugge
con questa merda? >>
Continuò guardando Slim in cerca di risposte.
<<
Ragazzo, non ci
interessa la sua storia ma solo i suoi contanti. >>
Rispose il boss,
tirando fuori dalla tasca dei suoi pantaloni una bustina trasparente.
<<
Mike, tocca a te.
>> Disse poi avvicinandosi al ragazzo.
<<
Raddoppio il prezzo a
questo fighettino? >> Domandò il ragazzo
prendendo in mano la busta con
la coca.
<<
Vedo che hai stoffa
ragazzo! >> Slim diede una pacca sulla spalla al suo
allievo e lo spinse
verso il ragazzo che ormai era a pochi metri da loro.
Aspettarono
che Mike finisse di
servire il loro cliente e dopodiché si spostarono in piazza
del duomo. Si
misero seduti sui gradini davanti alla cattedrale sorseggiando birra e
osservando la piazza ormai vuota a quell’ora.
<<
Slim. >> Disse
Alan facendo un tiro e passando lo spinello a suo fratello.
Slim
lo guardò sorseggiando la
sua birra e attendendo che il ragazzo andasse avanti.
<<
Credo di essermi
innamorato. >> Disse poi timidamente.
<<
Cazzate! >> Disse
Slim in tono cattivo.
<<
No, è così. Lei è bellissima
e dice di amarmi. >>
<<
Sì, è così che funziona.
Dicono di amarti, fanno qualche smanceria e poi quando sei cotto al
punto giusto,
ti fottono. >> Sì alzò in piedi e
si dispose davanti ai due ragazzi.
<<
Ascoltate bene. >>
Disse poi. << Non dovete mai e dico mai mostrare amore.
L’amore è cosa da
sfigati, è per i deboli. >> Quelle parole Slim
non le pensava davvero,
lui sapeva bene quanto fosse importante amare qualcuno, ma sapeva anche
che
avrebbe dovuto trovare la persona giusta.
<<
Giusto. >> Esclamò
Mike, alzandosi in piedi e brindando con il suo capo che intanto rideva
compiaciuto.
Alan
non disse più nulla, rimase
seduto in silenzio. Non condivideva il pensiero di Slim ma se voleva
salvarsi
la pelle, non aveva altra scelta, doveva tacere e accettare qualunque
cosa
dicesse il suo capo.
_____________________________________
<<
No, no e ancora no.
Angelina le ho detto mille volte che mia figlia non deve mangiare
carboidrati a
colazione. Butti questa roba e le prepari una tisana alle erbe, svelta.
>>
Aurora,
una donna dai lungi
capelli rossi e con più silicone in corpo che carne,
rimproverava la propria
domestica. Angelina, terrorizzata, fece dietrofront e tornò
in cucina.
La
donna dai lunghi capelli
attraversò l’enorme salone della sua meravigliosa
villa appena fuori Milano, ed
entrò nella camera di Josefine, la sua unica figlia.
<<
Amore è ora di alzarti,
non lo sai che dormire troppo invecchia la pelle? >> Si
avvicinò alle
grandi finestre e aprì le tende. In un attimo la stanza
dall’alto soffitto s’illuminò.
<<
Mamma lasciami dormire.
>> Mugugnò Josefine da sotto le coperte.
<<
Tesoro abbiamo il grande
gala questa sera, dobbiamo prepararci al meglio. Ho preso la briga di
prenotarti un massaggio al centro benessere e subito dopo manicure e
piega.
>>
Josefine
si scoprì il volto e si
mise seduta: << Fantastico! >> Sorrise e si
voltò a guardare la
porta della sua camera, dalla quale entrò Angelina.
<<
La sua colazione
signorina. >> Posò il vassoio sul comodino e
uscì dalla stanza.
<<
Vado dall’estetista, a
più tardi cara. >> Aurora prese quattro
banconote da 500 euro e le posò
sul comò di fronte al letto a baldacchino di sua figlia,
dopodiché uscì dalla
stanza.
Josefine
si alzò dal letto, prese
la sua tisana e iniziò a sorseggiarla. Poi si
avvicinò al comò si guardò allo
specchio e subito dopo abbassò lo sguardo. Sfiorò
con le dita le banconote e sorrise
soddisfatta.
Josefine
era la classica ragazza
snob, viziata e superficiale. Era cresciuta pensando che i soldi
potessero
comprare qualunque cosa.
Passava
la metà delle sue
giornate dall’estetista, dalla parrucchiera o a fare shopping
con le amiche.
Fin
da bambina aveva sempre avuto
tutto ciò che desiderava. Lei non aveva idea di cosa volesse
dire faticare o
lottare per ottener qualcosa. I genitori l’avevano sempre
accontentata in
tutto.
Non
era da tutti ricevere come
regalo dell’ottavo compleanno una fattoria vera e propria, o
una casa in
montagna per i suoi diciotto anni.
Posò
la tazza sul comò e si guardò
nuovamente allo specchio.
Era
una ragazza splendida. Aveva
un corpo perfetto: la pelle bianca come il latte e una liscissima
chioma
bionda.
Entrò
nella sua cabina armadio
che assomigliava molto a un negozio di abbigliamento.
Prese
un paio di jeans e una
magliettina a maniche corte e si cambiò. Lasciò
la vestaglia e le ciabatte sul
pavimento accanto al letto, tanto sarebbe passata Angelina a riordinare.
Funzionava
così, lei non alzava
un dito in casa dal momento in cui Angelina era ai suoi ordini.
Avrebbero
dovuto farla santa a
quella donna. Ormai erano vent’anni che lavorava per la
famiglia di Josefine e
non aveva mai sbottato. Serviva una pazienza infinita per sopportare i
capricci
della piccola Jo, i compiti assegnati dalla padrona di casa Aurora e le
prediche
e i rimproveri del signor Alessandro, L’uomo di casa, il
quale era sempre fuori
per lavoro.
Josefine
scese la lunga scalinata
e arrivò nel salone, dove c’èra
l’entrata principale della villa.
<<
La sua auto l’aspetta
infondo al vialetto signorina. >> La governante si
avvicinò alla ragazza
e le porse la borsa.
<<
Grazie Angelina.
>> Josefine sorrise, prese la borsa e si
precipitò fuori dalla porta.
Attraversò
il vialetto fatto di
mattoncini, contornato da bellissimi fiori.
Salì
sulla sua limousine nera e
dopo aver salutato l’autista, gli ordinò di
portarla in centro a Milano, dove
avrebbe incontrato le sue due amiche, Elisabetta e Caterina.
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