Lui
le aveva fatto la strada e lei, per riempire il vuoto di
una comunicazione che non aveva nemmeno accennato un timido decollo, si
era concentrata sullo studio dettagliato di quello strano uomo, mai
visto prima, che sembrava conoscerla così bene. Non
apparteneva
certamente alla servitù, viste le stoffe e la fattura
pregiate dei capi
che indossava. La pelle naturalmente dorata ma non scottata dal lavoro
nei campi lo posizionava, sicuramente, nella nobiltà. I
capelli erano
neri come la notte e gli occhi sembravano due tizzoni roventi in
qualche modo sedati da uno strato ghiacciato. I lineamenti erano
spigolosi ma non erano di così facile attribuzione etnica.
Che fosse il
suo fidanzato? Possibile? Facendo mente locale, aveva scoperto di non
ricordare molto della sua vita prima.
Solo sprazzi di immagini
significative, fotogrammi di quel cinema sfarfallante cui aveva
assistito in compagnia....in compagnia di chi? Non lo ricordava.
Eppure, ne era certa, era stato uno spirito libero.
Quando i primi camerieri li notarono e corsero a chiamare il
maggiordomo, lo vide rilassarsi.
“Padron
Danjal...” lo apostrofò il vecchio servitore. Era
stempiato e canuto,
con grossi baffoni che gli coprivano le labbra e un paio di pince-nez a
cavallo del naso aquilino.
Danjal folgorò con lo sguardo il vecchio
servitore, ma disse solo “Ringrazia il cielo che non sia
successo nulla
a Dasa, in tutte le volte che le avete consentito la fuga.”
quindi,
l'afferrò per il polso e la strattonò all'interno
della grande casa.
“D'ora in poi vigilerò io stesso sulla tua
sicurezza. Non ti
abbandonerò mai più” ringhiò
in un suono gutturale simile a una bestia.
La
condusse, ora con una gentilezza sconcertante, lungo gli ampi corridoi,
fino a raggiungere il grazioso salottino in cui Dasa prendeva
abitualmente il tè delle cinque.
“Accomodati” la invitò, lasciandole la
mano e affacciandosi un istante oltre la soglia, forse a dare ordini
alla servitù.
“Faccio
già come se fossi a casa mia. Da due settimane. Non ti
disturbare”
avrebbe voluto rispondergli sprezzante. La realtà era che si
sentiva
stordita e avere qualcuno che le dicesse cosa fare le rendeva tutto
più
semplice.
“Dasa, Dasa...” mugugnò Danjal andando a
prendere posto
nella poltroncina accanto al sofà dove si era accomodata,
computa e
impettita. Appoggiava il viso sulla mano, l'indice vicino all'occhio,
quasi a massaggiarsi la tempia, le altre dita quasi a coprirgli la
bocca. Sembrava studiarla e valutare come comportarsi. Si
alzò,
evidentemente a disagio, e passeggiò fino alla grande
finestra. “Mi hai
molto deluso” disse infine.
Lei sgranò gli occhi. Deluso? Chi? Quel
damerino che neanche faceva lo sforzo di presentarsi? A distanza di
oltre due settimane. Avrebbe voluto ridergli il faccia, ma si
trattenne, come si addiceva a una signorina di buona famiglia.
Passò
un minuto buono, durante il quale Danjal non fece che fissarla
insistentemente. Il leggero bussare del maggiordomo, spezzò
la tensione
e il giovane gli consentì di entrare, armato di
tè speziato, il cui
aroma si diffuse istantaneamente in tutta la stanza, impregnando ogni
angolo.
Ora Dasa sapeva che il nome del vecchio era Bies: finalmente qualche
informazione su cui elucubrare.
Bies...
Quel nome le scatenò un lawāmi,
un lampo di cocienza, come lo chiamano i Sufi di cui aveva tanto letto
prima della reclusione.
Con
uno scatto meccanico, che forse sentì solo lei, le rotelle
del cervello
completavano una parte del complesso puzzle. Dasa, Danjal e Bies erano
tutti nomi legati a qualcosa... a qualcosa che, a sua volta era legato
allo stemma che ricorreva in tutta la casa come un marchio, sulle
maniglie, nella carta intestata, sui cancelli, sulle posate e sui
servizi di finissima porcellana come sui ricami decorativi delle
redingotte e dei grembiuli della servitù: due triangoli
rovesciati, la
base in comune e le estensioni che si arricciolavano a creare la
struttura di una A, la cui stanghetta orizzontale era composta da una V
in carattere tipografico. Poi, le parole del giovane risultarono essere
particolarmente evocative quando, rampognando i servitori, si
appellò
al nome del casato: Alastor era il nome che legava tutto e che, dal
profondo della sua memoria, cercò di trascinare in
superficie tutto ciò
a cui esso era vincolato. Quasi per avvisarla.
Danjal si interruppe
all'improvviso e congedò l'uomo. Quindi, sigillò
la porta con un giro
di chiave che si infilò nel taschino
“Dasa?” chiamò, distraendola dal
suo tentativo di comprendere.
“Ha detto che l'ho deluso” disse
soltanto fissandolo in quegli occhi impenetrabili. Lui
sbuffò e si
sedette scompostamente, facendola arrossire.
“Ti lascio sola per un
po' di tempo...e guarda cosa mi diventi...” sputò
con livore. Dasa era
sconcertata. Cos'aveva mai fatto? Oltre indossare i pantaloni e andare
in bicicletta? E, ovviamente, mal sopportare il controllo maschile
sulla sua persona. “Io ti avevo creata in un modo. E tu sei
diventata
tutt'altro. ”
Quell'uomo non conosceva bene le parole o, forse, non
voleva usarle, pensò. Quello che provava non era solo
delusione. Era
qualcosa di più profondo e cocente: era disprezzo.
E c'erano tanti
modi per dimostrarlo, non che uno risultasse meno abominevole o
più
facile da sopportare di un altro. Poteva fingersi offeso o deluso;
avrebbe potuto anche decidere di prendersi gioco di lei, con ferocia e
cattiveria; o sbandierare ai quattro venti i motivi per cui lei
l'avrebbe deluso (e in virtù di quale rapporto, tanto per
completezza
d'informazione); o, ancora, fingere di non considerarla abbastanza
importante da degnarsi di risponderle, anche se questo atteggiamento
avrebbe avuto ragion d'essere solo nel caso in cui lei, la colpevole,
avesse dimostrato attaccamento nei confronti di quell'uomo che
cominciava a infastidirla coi suoi modi arroganti. Poteva, altre
sì,
decidere di fregarsene e non calcolarla proprio, se era un
così grande
errore. Ma, visto che lui aveva scelto la tattica più
crudele, cercando
di farla sentire in colpa, senza fornirgli alcun contesto, motivazione
o scusa, lei si sarebbe attenuta a quell'ultima opzione. Disprezzo
chiamava disprezzo, soprattutto se gratuito e ingiustificato.
Perché
poteva pure disprezzarla per comportamenti vergognosi che non avesse
capito. Ma lui sembrava capire e non accettare, di conseguenza, il
fatto che lei fosse uscita dal seminato. Un seminato, a suo avviso,
totalmente invisibile.
Così, incrociò le braccia, rifiutando il
tè e cercando di convincersi di essere sola nella stanza.
Danjal,
nel frattempo, si era coperto gli intensi occhi neri venati da bagliori
rossastri con la mano, quasi a schermarsi da una visione orrenda.
Rimasero in quella posizione di stallo per lunghi minuti.
Dasa aveva
finito per sorseggiare il suo tè, senza averlo realmente
gustarlo,
troppo infastidita da quella strana situazione. Poggiò la
delicata
ceramica sul tavolino intarsiato e fece per alzarsi: il suo ospite non
esisteva, non era presente nella stanza – continuava a
ripetersi - e,
dunque, lei era libera di fare come se fosse stata sola. Ma Danjal
sollevò subito lo sguardo infuocato, incenerendola e Dasa
cercò di
ignorare la sensazione sgradevole che ciò le comporta.
“Dove vai?” le domandò non appena le sue
dita sfiorarono la maniglia, dimenticandosi che fosse chiusa a chiave.
Un
attimo di esitazione: sarebbe stata cortesia rispondere. Ma lei
calò la
mano e tentò di aprire la porta. Stava già
tentando di scuoterla
un'altra volta, convinta che fosse solo bloccata, quando Danjal la
strattonò, reclamando la sua attenzione
“Non ti ho dato il permesso
di andartene” sibilò irritato. Dasa lo
studiò, ora, con malcelato
fastidio. Quindi abbassò lo sguardo sul proprio polso, quasi
potesse
cambiare le cose solo osservandole. “Torna a sedere, dobbiamo
parlare”
Il tono si era fatto improvvisamente gentile. Tutto le puzzava di
imbroglio, ora. Lui si sedette, lei, orgogliosa, rimase in piedi,
appoggiata pervicacemente alla porta: la posizione le dava un senso di
sicurezza, quasi potesse fuggire in un istante di distrazione del suo
nuovo carceriere. Notata la sua muta risposta, Danjal fece spallucce
“Come preferisci”
“Dunque, Dasa...” cominciò, studiandola
intensamente, dopo un attimo in cui, forse, aveva raccolto le idee. Le
braccia erano abbandonate sul grembo, le lunghe gambe accavallate
pigramente: decisamente un atteggiamento poco signorile. Dasa
assottigliò gli occhi: si era fatta confondere dall'aspetto
di
quell'uomo e non sarebbe caduta due volte nello stesso errore.
“Immagino che tu non ti ricordi di me. Altrimenti non credo
proprio mi
guarderesti a quel modo e non mi parleresti così
freddamente” Un
sopracciglio, scettico, scappò involontariamente al suo
controllo:
pensava di avere a che fare con una stupida?
“No, Messere, sono
sicura di non aver mai avuto il piacere di incontrarla né,
tanto meno,
conoscerla” replicò fredda. La buona educazione la
spinse a rispondere
a mute domande anche quando non avrebbe desiderato far altro che
andarsene di là
Lui chinò il capo, meditabondo. Quindi, sospirò
“Ti
ho creata io così...ma certo non pensavo di correre un
rischio simile.
Sono stato via per un po'... e sei diventata così
indisciplinata. Vesti
anche alla maschiaccia.” scosse la testa, deluso
“Oggigiorno, l'epiteto
corretto per designare una donna come te sarebbe teppista.”
A Dasa
sfuggiva qualcosa, qualcosa di importante. Ma non diede a vedere questa
sua ignoranza per non mettersi, da sola, in posizione di svantaggio.
Lei era fiera, orgogliosa. Forse un po' restia alle leggi impartite
dalla classe maschile. Forse, durante la sua prigionia, quei termini
avevano assunto un valore spregiativo. “Io sono il padrone di
questa
tenuta” si presentò, finalmente, Danjal
“Io ho creato – e sono quindi,
a ogni buon diritto, possessore – tutto ciò che
trova all'interno del
perimetro che tu, così spesso, hai valicato senza
permesso”
“Mi permetto di dissentire” disse lei,
interrompendolo con voce calma ma ferma “Io ero
prigioniera.”
“Certo.
Io stesso ti ho rinchiusa in quella stanza” le
rivelò senza il minimo
segno di rammarico “Io ti ho creata per quello che
sei”
“Mi ha
creata il Padreterno, compresa la mia vena ribelle. Lei, per quanto ne
so, potrebbe, eventualmente, aver solo alimentato una tendenza
preesistente” sibilò lei, punta nel vivo
“Inoltre, un così abile
carceriere, non dovrebbe liberare la sua preda”
“Il tuo abile
carceriere, come mi chiami tu, ti ha rinchiusa lì dentro
solo per il
tuo bene. Mi sono dovuto assentare e ti ho messo al sicuro. Nessuno
doveva trovarti” replicò lui, freddo.
C'era qualcosa che non
tornava, in tutto il suo ragionamento. O forse, lei non era in grado di
comprendere un essere così cinico e calcolatore. Era
disgustata dalla
sola possibilità che esistessero persone del genere.
“Benissimo”
acconsentì, reggendogli il gioco “Allora gradirei
che il mio Signore mi
concedesse il permesso di farmi un bagno. Due settimane e la
servitù mi
ha impedito l'accesso ai bagni. Non mi sembra il trattamento che deve
ricevere qualcuno che va protetto”
“L'acqua fa male” tagliò corto lui,
considerando chiuso il discorso.
Dasa
trasecolò. “Ma...” obiettò,
incapace di credere alle proprie orecchie
“Ovunque nel mondo esistono addirittura sistemi pubblici per
l'igiene
personale: dalle saune dell'estremo nord, agli hammām delle
regioni
arabe ai bagni pubblici giapponesi... e già ai tempi dei
romani...”
“Basta
così!” tuonò l'altro, spazientito,
mettendola a tacere “Le tue
fantasie, alimentate dalle assurde mode di quest'epoca così
bizzarra,
qui non troveranno alcuno sfogo. L'acqua fa male. Il bagno in
sé, fa
male. Porta le più terribili malattie se non anche alla
corruzione,
visto che mi citi proprio l'epoca romana. Fine della
discussione”
Dasa,
a quel punto, abbandonò ogni pretesa di cautela,
infervorandosi “Oh,
certo, Padrone, allora perché non mi obbligate a rientrare
nell'orrenda
gabbia di tortura che è il corsetto? Perché non
mi impedite ancora i
movimenti con innumerevoli crinoline? I medici, e addirittura gli
architetti, di tutto il mondo sono concordi nel demonizzare un certo
codice suntuario che prevede...” l'improvvisa, quanto
sguaiata, risata
di Danjal la interruppe, facendole stringere i pugni per mantenere la
calma
“Una suffragetta... Ci manca solo che tu voglia tagliare
anche i tuoi bei capelli...”
Avrebbe
voluto rispondergli che anche in paesi – che loro
consideravano –
arretrati, come quelli del vicino oriente, proprio in quegli anni, i
giovani stavano lottando dispotismo e sessismo, ottenendo grandi
risultati. Ma era meglio tacere le informazioni che aveva acquisito dai
libri: guai che quello pensasse anche che dovesse rimanere illetterata.
Improvvisamente si trovò a desiderare essere altrove.
Avrebbe voluto
avere l'arguzia e la mente fredda della sua eroina, Sharazade e far
capitolare quel borioso che si permetteva di trattarla come una
bambola. Ecco cosa voleva: che lei stesse zitta, che non pensasse e si
limitasse a essere graziosa. Come una bambola. Ma lei, a differenza
della principessa persiana, non aveva la lingua lunga e tagliente
né
era abbastanza colta per rigirarlo come un calzino. Chiuse gli occhi un
istante, cercando di calmarsi.
“Chiedo solo di potermi fare un
bagno. Anche alla fonte, se all'interno della villa i bagni sono
così
sporchi da ospitare colonie di ratti. Devo indossare i guanti anche per
mangiare...” protestò.
Danjal la studiò intensamente. Aveva soffocato una risata
quando lei aveva accennato ai ratti ma si era subito ricomposto.
Si batté, quindi, i palmi delle mani sulle cosce, prima di
alzarsi “E sia... ma ti laverò io”
impose.
Dasa
sbiancò. Non c'era proprio limite al peggio. Certo, una
signorina di
buona famiglia non poteva certo arrangiarsi nello sbrigare compiti
tanto terreni. Ma farsi lavare da un uomo era fuori discussione: quello
doveva essere malato. Ricordava qualcosa degli scritti di Freud. Certo
era che aveva qualche disturbo serio se non si accontentava nemmeno di
spiarla.
“A te”
precisò lui, vedendo la strana espressione sul suo
viso “...l'acqua fa male! E nessuno della servitù
saprebbe come
comportarsi nel caso ti succedesse qualcosa.”
“Mi lavo da sola!” protestò lei,
imbarazzata
“Oh,
ma guarda...finalmente un residuo della Dasa che avevo creato... dimmi,
amore mio, ora ti ricordi anche di me?” domandò
divertito mentre la
raggiungeva. Le passò molto vicino, nel tentativo di
raggiungere la
maniglia. Una vicinanza sgradita e inappropriata.
Ma subito si avviò
lungo il corridoio. Non l'attese, anche se, sicuramente, s'aspettava
che lei lo seguisse. Dasa non rispose alla domanda e trottò
al suo
seguito, rapita da un dettaglio che continuava a comparire nel loro
scambio di battute: lui continuava a porsi come suo creatore. Ma in
quale senso? Se l'aveva iniziata alla libertà del corpo e
della mente,
come poteva, ora dirsi così contrariato?
La condusse nei sotterranei
umidi della villa, illuminati da strane torce appese direttamente al
soffitto. Era la prima volta che penetrava in quella parte della
residenza e si guardava attorno con l'aria stupita e rapita di un
bambino. Sembrava quasi – si vergognò nel
formulare l'ipotesi – un atto
di stregoneria. Idea assurda, suggerita da letture assurde, ma che
avrebbe giustificato alcune cose.
Si riscosse quando sentì l'uomo
armeggiare con gli ingranaggi di una pesante porta di legno massiccio.
Al di là della soglia si estendeva un ambiente magnifico che
le
ricordarono, ancora, le sue letture esotiche. Maioliche decorate sulle
pareti, mosaici sul fondo di una vasca grande quanto due stanze. Fiotti
bianchi sgorgavano incessanti da diverse fonti, riportando quel fondale
decorato sul pelo dello specchio d'acqua e creando giochi ottici di
spettacolare bellezza.
Danjal le indicò un paravento “Farai il bagno
nella vasca più piccola” disse indicando una
piccola conca poco
distante dalla grande vasca.
“Mi arrangio, grazie!”
Lui sbuffò, forse arresosi, ormai, alla sua testardaggine
“Resterò dietro il paravento...”
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