Torno a scrivere da 0. Molti di voi
probabilmente non mi hanno mai letta e di questo,
sotto certi aspetti, sono addirittura grata; non ho molto da dire, alla fine
sono le parole di questo libro a parlare per me. Voglio solo dirvi che ho
deciso di tornare a scrivere a causa delle considerazioni di alcune persone che
ho incontrato che mi hanno spinta a tirar fuori quello
che avevo dentro.
Certe volte abbiamo così tanto da
dare, da ricevere e da conquistare che diventa addirittura difficile contenerlo
in un solo testo, parola o canzone. Così tutto appare incompleto, come se
mancasse sempre qualcosa. Così continuiamo a chiederci se forse quella virgola
andava messa realmente in quel punto, o se in una certa canzone ci voleva
quella precisa nota. Ora, e non so per quanto durerà la mia convinzione, sono giunta alla conclusione che già per il fatto di averci messo
del nostro, quel “qualcosa” è assolutamente speciale.
Dunque buona lettura, nella
speranza che “Ingiusto” sia quel “qualcosa” che vi possa regalare anche solo
una riflessione. Per quanto mi riguarda, essendo un misto di fatti reali e non,
mi ha già regalato moltissimo.
Dedicata a John Green, al suo genio e a quel suo modo
particolare di capire le persone che soffrono.
Disclaimer: “I personaggi di
“Ingiusto” appartengono al detentore di questo nikname;
chiunque dovesse utilizzarli senza il mio permesso starà infrangendo la legge”.
INGIUSTO
Capitolo I
Era confusa. Si sentiva sola e abbandonata, come se non
esistesse motivo alcuno per fare ancora un passo avanti. Fissava con occhi
vacui di fronte a sé, le palpebre socchiuse, il venticello di settembre che
agitava i capelli. Non riusciva più nemmeno a piangere. All’improvviso si alzò
in piedi, dirigendosi verso un auto là di fronte al
parchetto dove aveva deciso di consumare le proprie sofferenze.
“Vaffanculo!” strillava, calciando
con le sue Converse viola la FIAT punto rossa di chissà quale povero guidatore.
“Fanculo, fanculo, fanculo!” continuava, mentre dagli occhi scendevano lacrime
capricciose. Non aveva voluto nessuno con lei al funerale. Solo gli amici di
Marco, quelli più stretti, quelli delle serate in birreria, quelli delle
partite a calcetto e dei compiti in classe scopiazzati alla
bene meglio, anche all’università. Lei non aveva detto niente alle sue amiche:
voleva vivere da sola il proprio dolore e consumarsi nel senso di colpa perché
lei, il suo Marco, non era riuscita a strapparlo via dalla morte. Si inginocchiò per terra, la cascata dei capelli rossi
scivolata sul viso, alcune ciocche appiccicate alla faccia a causa delle
lacrime che, copiose, disegnavano piccoli percorsi sulla pelle. Si passò una
mano sugli occhi e prese un lungo sorso d’aria. Quanto avrebbe
voluto morire anche lei. “Te ne sei andato da solo” sussurrava tra i
singhiozzi, ricordando il terribile incidente che le aveva portato via Marco. Sentì dei passi dietro di lei poi qualcuno che
strillava.
“La mia auto!” si alzò in fretta in piedi, poi corse via senza ben capire dove stesse andando, perché gli
occhi erano appannati e bruciavano. Arrivò davanti al
portone del proprio palazzo, il fiato corto, i singhiozzi che ancora uscivano
dalla bocca. Quando entrò in casa vide suo padre
esattamente al centro del corridoio, una teglia in mano e l’aria distratta.
“Piccola,” disse lasciando cadere
l’oggetto a terra e prendendo tra le braccia la figlia “Era oggi” constatò
l’uomo, mentre Mary annuiva, trattenendo l’ennesima ondata di lacrime. “Perché
non mi hai detto nulla?” le chiese premuroso,
carezzandole i folti capelli rossi. “Vieni” disse ancora, accompagnandola in
camera sua e tenendola ancora tra le braccia. La ascoltò piangere per un po’,
sussurrare preghiere sconnesse, parole d’odio verso quella vita che l’aveva
resa così triste a soli diciotto anni. Avrebbe di gran lunga
preferito provare lui tutto quel dolore, assorbirne un po’ per lo meno, ma
sapeva essere tutto impossibile. “Tesoro”, le disse ad
un certo punto quando i suoi sospiri gli parvero troppo deboli per essere veri.
Il viso della sua bambina era contratto dal dolore, una smorfia di stanchezza
rendeva il tutto ancora più tremendo. Era un po’ come se fosse morta anche lei
e, sensibile com’era, non sarebbe riuscita a nascondere bene quel dolore che
probabilmente l’avrebbe accompagnata per il resto della vita. “Perché non vieni con me alla Rai per l’intervista? Così esci un po’, guardi tutti quegli attori che si credono chissà
chi e poi ci andiamo a mangiare una pizza… eh?” la fissò un istante in più
dandosi dell’idiota perché non riusciva a capire cosa frullasse per la testa di
sua figlia. Ora giaceva sul letto, la faccia immersa nel cuscino e le
labbra tremanti di pianto.
“Papà,” sussurrò
ad un certo punto, mentre Carlo si domandava se per caso l’avesse sentito.
“Quando scrivi come fai a capire così bene il dolore?” aveva domandato a
bruciapelo, la faccia ora rivolta verso di lui.
“Cosa intendi, Piccola?”
“Quando leggo quello che scrivi sembra che tu
provi realmente quello che i tuoi personaggi sentono. Come se anche tu
stessi piangendo, ridendo, soffrendo. Come fai? Io non pensavo nemmeno potesse
esistere un dolore del genere. Nemmeno con tutta
l’immaginazione del mondo pensavo potesse fare così male”. E scoppiò in
altri singhiozzi, come se non ne potesse avere mai abbastanza.
Carlo la strinse ancora a sé e comprese che nessun diversivo, almeno in quel
momento, avrebbe potuto distrarre sua figlia dal dolore.
“Ci vorrà del tempo” quelle parole suonarono come una
promessa, quella fatta da un padre che, nonostante fosse uno scrittore di indubbio successo, spesso non sapeva realmente quale
fosse la cosa giusta da dire o da fare. In quel momento riuscì solo a serrare
le labbra e a stare vicino al suo mondo, la sua bambina.
*
Quando si pensa ad una catastrofe
la mente rimanda quasi sempre ad avvenimenti di grandezza infinita: un attentato,
uno tsunami o, magari, a qualche incidente mortale. In verità nonostante la
gravità di tali avvenimenti, per sconvolgere la vita di una persona, che di per
sé è un piccolo mondo, basta realmente poco. Una telefonata che arriva
improvvisa mentre sta pranzando; una lettera giunta nella buca o, come nel suo
caso, la diagnosi sbagliata di un medico. Daphne era
nata sana. La classica bimbetta dalle gambe paffutelle, un
paio di occhi grandi e vispi e la parlantina sempre attivata, per smorzare le
situazioni più imbarazzanti tra grandi e piccini. Ma
una febbre troppo alta, una corsa in ospedale e un medico che quella sera non
aveva tanta voglia di svolgere il proprio lavoro l’avevano catapultata in un
mondo fatto più di ombre che di luci. Dopo un’infanzia passata tra un ospedale e l’altro aveva dovuto cedere e la malattia aveva fatto il
proprio corso, strappandola alla luce. Era diventata cieca; i suoi occhi,
insomma, non funzionavano più e da quattro anni a quella parte conviveva con
quella condizione alle volte stressante, altre
semplicemente tragica.
“Insomma, vuoi abbassare quella tv?” strillava Daphne mentre il getto dell’acqua s’infrangeva contro le
pareti del lavandino della cucina. Ivan di tutta risposta continuò a fissare il
fondo schiena dell’ennesima modella di cui si stava raccontando la storia in
quel servizio su Italia 1. La musica di sottofondo non gli dava minimamente
fastidio, anzi, non faceva che esaltare le immagini provocanti che passavano
davanti ai suoi occhi. Ma la sua amica non era dello stesso avviso: chiuse
l’acqua del rubinetto, s’asciugò le mani con un panno
poi afferrò il telecomando, spegnendo così la tv. Un grugnito d’assenso uscì
dalla bocca del povero ragazzo che si stava perdendo la fine di quel servizio
così interessante. “Te lo chiedo per l’ennesima volta: le hai fatte le versioni
di latino?” si era voltata verso Ivan, le mani sui fianchi e un’espressione
accusatoria in viso.
“Ti ho mai detto che con quella tuta larghissima e i capelli
raccolti in maniera improponibile stai proprio bene?”
domandò con il solo intento di farla arrabbiare ancora di più. La giovane di
tutta risposta strinse le labbra e tornò al lavandino, dove stava armeggiando
con una pentola sporca: ogni volta che il suo più grande amico andava a pranzo
da lei doveva cucinare per otto e la metà delle
pentole della cucina venivano utilizzate per tale intento.
“Sappi una cosa Ivan Boia: io non ti passo le versioni!” e
riaprì il getto dell’acqua, dichiarando come conclusa la discussione. Ivan si
alzò in piedi, iniziando a camminare per la cucina: non era sicuramente una
buona prospettiva. Durante l’estate non aveva aperto un libro perché tanto
sapeva di poter contare su quella secchiona della sua
amica; e il giorno dopo sarebbe ricominciata la scuola!
“Perché?” chiese girandole intorno, il cappellino di marca
che gli sfiorava la fronte: ogni volta che entrava in casa di Daphne lei gli chiedeva di
toglierselo e il giovane si rifiutava domandandosi, fra sé e sé, perché diavolo
le desse fastidio dato che non lo riusciva a vedere in faccia. Per questo si
tolse il cappellino, mettendolo sulla sua nuca bionda. “Visto?
Ti regalo anche il mio preziosissimo cappello!” esclamò
ancora con un sorriso larghissimo: sapeva che, nonostante tutto, Daphne coglieva ogni più piccola smorfia che passava sul
suo viso meravigliosamente bello. La giovane alzò lo sguardo verde su di
lui e con la mano sporca di schiuma afferrò il cappellino, lanciandolo sul
petto dell’amico più volte, con una forza che sapeva di non possedere.
“Io lo dico per te: devi studiare quest’anno che c’è la
maturità, o vuoi farti bocciare di nuovo?” era seria e Ivan non sapeva bene
come reagire. Era consapevole che aveva ragione, ma la pigrizia superava
qualsiasi tipo di buon proposito. Per questo decise di tirar fuori l’arma
segreta. Infilò una mano nella tasca dei propri pantaloni troppo larghi e ne
estrasse un CD, mettendolo poi tra le mani di Daphne. Quando le pupille della giovane si dilatarono
comprese che aveva capito.
“Il demo?” chiese, le mancava il fiato.
“Yes!” la giovane corse verso lo stereo posto sotto la tv
della cucina e in pochi attimi alcune note inondarono la stanza. “Volevo
dartelo sabato, ma bhè…”
“Shhh!” fece lei ascoltando le
note del pianoforte, il suo pianoforte, che inondavano
la stanza.
“Io non so com’è capitato. Ma è semplicemente tutto sbagliato. Io non
so com’è capitato, ma è ingiusto così!” il loro pezzo. Musica, parole,
note tutte loro. E con un paio di amici di Ivan, uno studio di registrazione un
po’ malandato ed il lavoro di un’estate era saltato
fuori, come se fosse il dono più prezioso della terra. Daphne
era seduta per terra, lo sguardo cieco fisso davanti a sé a contemplazione
della propria voce che cantava il ritornello e delle rime reppate
dal suo amico, che di fantasia ne aveva davvero tanta. Sì, forse quel DO
avrebbe dovuto farlo più pieno e meno spinto, ma a chi importava? Era
assolutamente meraviglioso! Ringraziò il proprio carattere piuttosto duro
perché non si mise a piangere, ma quando si alzò in piedi e strinse a sé il proprio
migliore amico, Ivan tirò un sospiro di sollievo: le versioni glie le avrebbe passate, ne era quasi certo.
*
“Il massimo dei voti? Luca, sono
orgoglioso di te!” Giacomo Mattei parlava al telefono con il figlio maggiore,
il cordless in una mano e la caffettiera nell’altra:
doveva correre in ospedale per il turno, ma la notizia lo faceva quasi saltare
di gioia. “Sì, certo, immagino che sarai pieno di impegni.
Ma te lo dico con il cuore: fare l’Erasmus
è stata la scelta migliore che potessi fare! Salutami il Dottor Ledoux, mi raccomando. Ah, e mangia un
paio di croassant al burro anche per me!” chiuse la
chiamata e finalmente con la mano libera si potè
versare il caffè nella tazzina. Annalisa, sua moglie, compilava gli
inviti per un party di beneficenza.
“Che ne dici, meglio che nello stesso tavolo mettiamo i bontà con i Mirabella o i Bontà con i Giunti? Non ricordo chi aveva litigato con chi!” disse portandosi una
ciocca bionda dietro l’orecchio. Giacomo si sedette al tavolo insieme a lei.
“Ma non hai sentito la telefonata?”
chiese l’uomo stupito dal disinteresse della moglie.
“Certo caro, ma il nostro Luca è talmente bravo che ero
assolutamente certa che avrebbe preso il massimo”, dichiarò tranquilla, mentre
dietro di sé sentiva la porta chiudersi.
“Filippo”, disse Giacomo alzando il capo. Il
figlio percorse il corridoio con aria assonnata, in dosso una maglietta di
D&G e un paio di jeans della stessa marca. I capelli rossicci un po’
arruffati, l’espressione un po’ assente. Solo l’odore di caffè parve ridestarlo.
“Mmmh?” mugugnò semplicemente,
trascinandosi verso la cucina dove si versò un po’ di quel nettare caldo che
pareva l’unica soluzione al terribile sonno che gli inondava gli occhi.
“Ho appena sentito tuo fratello: ha preso la lode nel suo
ultimo esame!” esclamò l’uomo orgoglioso.
“Bravo” rispose l’altro con voce un po’ roca, scottandosi
come uno stupido con la caffettiera.
“Certo che potresti dimostrare un po’ più di entusiasmo”.
“Tesoro, non vedi che ha sonno? E’ il suo primo giorno di scuola, deve riabituarsi ai nuovi orari!”
disse Annalisa, cercando di mettere la pace. Giacomo si alzò in piedi.
“Anche tu quando frequenterai medicina mi darai le stesse
soddisfazioni” dichiarò perentorio, manco non fosse realmente un augurio che si
faceva. “Ora vado, non so a che ora tornerò”.
“Come, non hai il turno fino alle 15?” chiese la moglie.
Giacomo fece di “no” con il capo.
“Il Dottor Morgante è in mutua, è
possibile che debba sostituirlo e che dunque arrivi dopo cena”, dichiarò prima
di baciarla a fior di labbra e di lanciare un’occhiata al figlio che
sorseggiava il proprio caffè, poggiato sulla cucina. “Buon primo giorno di
scuola Filippo”. E si dileguò dietro la porta.
Per poco a Filippo non andò il caffè di traverso: il tempo
stava trascorrendo troppo in fretta. I giorni si sarebbero susseguiti uno dopo
l’altro, compiti in classe, gite scolastiche, desideri, voti e insoddisfazioni
per giungere, in fine, alla tanto agognata maturità. Che poi chi l’aveva deciso
che a 19 anni allora si era maturi? Lui certo non lo
era. O almeno, non era abbastanza maturo per dire a
suo padre che lui non voleva fare il medico come lui e suo fratello; che aveva
altri tipi di sogni, di prospettive. Tornò in bagno dove
si infilò le proprie NIKE poi tornò dalla madre. La cartella era mezza vuota,
solo un quaderno con le versioni di latino e l’Ipod ad occuparla. Il diario doveva ancora comprarlo, ulteriore prova del fatto che non voleva vedere iniziare,
poi finire, quell’anno scolastico.
*