A
Flower In Its Prime
A Gilda piace
l’estate. Le piace il sole, e il caldo che le si appiccica
alla pelle, e i cieli ampi e puliti, senza nuvole, di un blu intenso e
luminoso. Le piacciono lo zaino abbandonato a prendere polvere in un
angolo della sua cameretta e i maglioni pesanti rinchiusi
nell’armadio.
Le piacciono i
primi giorni dopo la fine della scuola, passati sul sellino di una
bicicletta con le sue amiche al Tiergarten o sotto le coperte fino a
mezzogiorno finché sua madre non la costringe ad alzarsi.
Non le piace quando vanno in Austria dalla zia.
L’Austria
è noiosa. Non può vedere le sue amiche, e con lei
ci sono solo suo padre, sua madre e sua zia – eternamente
occupate a chiacchierare o, come pensa Gilda con un vago senso di
disgusto ma senza dire nulla, a scambiarsi pettegolezzi – e
sua sorella. E i vicini sono degli snob.
I suoi
genitori pensano che stare con Lu le basti, ovviamente,
perché è un po’ il compito dei genitori
pensare di sapere tutto e non capire niente e perché
così suo padre può uscire per le sue passeggiare
e sua madre e sua zia possono chiacchierare senza sentirsi in colpa per
non badare a loro. E quando si lamenta, le dicono di uscire a fare amicizia con
qualcuno.
Stare con
Lutgard non è un problema: è la sua sorellina,
per quanto sia seccante doverla sempre tenere d’occhio come
le dicono mamma e papà, ed è una bambina sveglia
– per la sua età. Ma avere qualcuno con gli anni
giusti con cui parlare non le dispiacerebbe, ecco. E
l’Austria non le piace, quindi, per estensione, è
certa che non le piaceranno nemmeno gli Austriaci.
È
solo il peso schiacciante della noia che, alla fine, la fa crollare e
la costringe a muovere i primi, fatali passi verso la villa degli
Eldestein.
Rodelind non
è esattamente una sua amica – non escono insieme
in bicicletta, non si vedono tutti i pomeriggi, e a volte si
imbronciano, smettono di parlarsi e rimangono arrabbiate
finché non riescono più a ricordare
perché e poi chiacchierano per pomeriggi interi come se non
fosse mai successo nulla perché tra loro le scuse non
servono. È qualcuno con cui parlare – di quanto
tutto sia così terribilmente noioso, di quanto la sua
famiglia sappia essere irritante, di tutto -, con cui discutere e
litigare.
È
una sfida, un gioco in cui vince ogni volta che le fa abbandonare il
suo sorriso gentile e il suo tono distante e vagamente annoiato e le
sue buone maniere, rimpiazzandole con un rossore furioso sulle guance
bianche, una smorfia sulle labbra sottili o una risata sincera con la
stessa facilità con cui potrebbe accendere un fiammifero. E
a Gilda piace vincere, le è sempre piaciuto: la fa sentire
forte e leggera insieme, sicura, con un bizzarro tepore nel petto.
Elek arriva
solo qualche anno dopo. La sua famiglia si è appena
trasferita dall’Ungheria – perché
qualcuno voglia venire a vivere in Austria di sua spontanea
volontà, Gilda non lo capirà mai – e
lui ha un accento stupido, un’irritante tendenza a
contraddirla e un bagliore negli occhi fin troppo verdi.
A volte
vorrebbe solo prenderlo a pugni, eppure si ritrova sempre
più spesso a passare tutto il giorno con lui, con le sue
prese in giro e il suo brutto carattere e con il suo sorriso
così fastidiosamente ampio e luminoso. A volte, quando si
sorprende a riflettere su questa sua piccola contraddizione, si dice
che è solo perché in questi anni non ha mai
conosciuto molti suoi coetanei austriaci, e perché
è troppo pigra per cominciare ora.
Continua a
parlare con Rodelind, ma – non è più la
stessa cosa, anche se non saprebbe dire esattamente come. E poi, lei ha
bisogno di tempo per esercitarsi con il suo adorato pianoforte, no? Non
se le prenderà, se si vedono un po’ di meno. Rodie
è quella calma e razionale, in fondo.
E anche se
è difficile ammetterlo a se stessa, Elek non è
poi tanto male. È simpatico. Sa essere gentile.
E talvolta, se
chiude gli occhi, vede i suoi occhi brillanti, la luce del sole tra i
suoi capelli spettinati e nella piega allegra delle sue labbra
– e nel suo petto c’è qualcosa di caldo
che risale sul collo e sul viso fino a farle scottare le guance.
La prima volta
che Gilda sente il bisogno di farsi bella è anche la prima
volta che si sente stupida, debole, sbagliata. È terribile,
quest’ansia che le brucia nello stomaco, questo bisogno di
attenzione – della sua
attenzione – che le fa sentire la testa leggera e il cuore
pesante.
Lei non vuole
farsi crescere i capelli, che sono così comodi corti, anche
quando si arruffano e le vanno negli occhi e certe mattine, quando si
guarda nello specchio del bagno subito dopo essersi alzata, sembrano
dotati di vita propria e le stanno ritti in testa come soldati
sull’attenti. Non vuole indossare gonne scomode che le
impediscano di correre e di saltare, bei vestiti da stare attenta a non
sporcare, tacchi su cui traballare instabile cercando di sembrare
elegante. Non vuole fiocchi o fermagli o pizzi o trucchi con cui
imbrattarsi la faccia. Sa di essere carina, sa di essere forte, sa di
essere magnifica.
Eppure, non si
sente così quando pensa a Elek, ed è per questo
che chiede aiuto a Rodelind comunque. Lei dovrebbe essere pratica di
queste cose, pensa Gilda, con i suoi boccoli ordinati, le sue unghie
curate, i suoi vestiti sobri ma belli.
C’è
un’ombra negli occhi blu di Rodelind, un’ombra che
per un attimo trasforma tutto il suo viso pallido dai lineamenti
delicati. – Non ne hai bisogno – le dice, il
sorriso sulle sue labbra come un raggio di sole flebile e incerto in un
cielo pieno di nuvole, e la sua voce è gentile e
amara allo stesso tempo.
- Lo so, Rodie!
– esclama Gilda, esasperata. È questo il problema.
Però, le fa piacere sentirselo dire da lei –
riesce quasi a sentirla vicina come una volta.
Per un momento
Rodelind sembra voler dire qualcos’altro, schiude e richiude
le labbra e sospira. Poi soccombe sotto l’urto delle sue
proteste e delle sue preghiere.
Il cuore le
brucia, quando Elek guarda Rodelind e non lei. Lei ha un fermaglio tra
i capelli e un velo di lucidalabbra sulle labbra e vestiti ordinati e
senza strappi e pieghe e rattoppi e continua a sorridergli e a cercare
di non essere troppo beffarda quando gli parla.
Rodelind non
li degna di uno sguardo, immersa nella sua musica dietro la finestra
della villa che dà sul giardino. E gli occhi di Elek sono
pieni di sole e la osservano con lo stesso sguardo che lei riserva al
suo stupido spartito.
Il fuoco che
ha consumato Gilda per tutto questo tempo le esplode dietro gli occhi,
trasformandosi in un prurito fastidioso che la costringe a strizzare le
palpebre e a sfregarle con il dorso di una mano. Mi si rovinerà tutto
il trucco, pensa, e quasi scoppia a ridere.
Corre via
prima che Elek possa vederla piangere.
Pensava di
essere guarita dalla scottatura anni fa. Pensava che ormai fosse solo
un’ombra scura sul suo cuore, niente più che una
cicatrice pallida e sottile da coprire con un po’ di
fondotinta.
Fran tenta di
parlarle sopra la musica e il chiacchiericcio di sottofondo del pub.
Anita sta lanciando una serie di sorrisi smaglianti e ammiccamenti
divertiti a una ragazza dall’aria familiare e piuttosto
imbarazzata. Lei si guarda le unghie laccate di rosso, lunghe e curate
come sempre da quando ha imparato a farsi una manicure decente da sola,
dopo aver scoperto che effettivamente le piacevano di più
così ed essersi ricordata di non avere nessuno per cui farlo.
Questa sera,
prima di uscire, ha pulito una piccola sbavatura del rossetto con un
fazzoletto e ha sorriso allo specchio. Si è passata una mano
tra i capelli, sempre corti e sempre privi di fermagli e nastri e altre
cose graziose e inutili ma leggermente meno intrattabili. Si
è sentita bella, magnifica.
Ora si sente
confusa, mentre osserva di sottecchi quegli occhi verdi, quei riccioli
castani, quel sorriso. Potrebbe essere solo la birra, ma sente qualcosa
pungerle il petto, ed è un dolore sordo, nebuloso, ma fa
male – come il ricordo di una scottatura viva e pulsante.
Sì,
si è scottata, è quella la parola giusta. Si
è avvicinata troppo al sole senza pensare alle conseguenze,
e ne ha pagato il prezzo per tanto – troppo – tempo.
Sorride,
un’idea potenzialmente folle che attraversa come un lampo
ardente la sua mente, e poi si alza dalla sua sedia e si dirige verso
di lui, decisa e aggraziata insieme, sicura sulle sue scarpe basse. E
lui la guarda e gli si accende un bagliore negli occhi.
Non sa
esattamente cosa vuole dimostrare a se stessa, o a lui.
Sa solo che
bisogna imparare dagli errori, e che sull’ombra della vecchia
scottatura si è accesa una scintilla nuova e diversa
– una che, stavolta, può controllare.
- Ci
conosciamo? – le chiede Elek, scrutandola cauto come se fosse
un’opera d’arte moderna, complicata e affascinante.
Gilda ride: -
No. Certo che no. Non mi hai mai vista prima d’ora -.
Non mi hai mai guardata. Non mi
hai mai conosciuta.
Note finali:
A yanyan, che
spero apprezzerà. Anche se ho la mezza convinzione di aver
combinato un casino.
Il titolo
viene dalla canzone Cell
Block Tango, dal musical Chicago –
che non centra molto, sì, ma per qualche motivo mi sembrava
adatta per Gilda. Ah, e la fanfiction partecipa alla challenge The Four
Elements Challenge, con la tabella Fire e il prompt 4. Scottatura.
The
Four Elements: Fire
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1.
Fiamma
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2.
Falò
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3.
Cottura
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4.
Scottatura
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5.
Sole
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6.
Calore
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7.
Cenere
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8.
Incendio
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9.
Fuoco greco
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10.
Fuoco fatuo
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11.
A scelta
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12.
Fuoco
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Completate
3/12
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