Josefine
Konrad
E'
il 27 gennaio 1961 e io mi ritrovo a camminare per le vie del centro
storico di questa città con il sole che mi illumina il viso
da
sinistra. Cammino per strada e intanto la gente mi osserva e io osservo
la gente. Turisti che si scattano fotografie, uomini con il cappotto e
la ventiquattr'ore che camminano frettolosamente e donne che con la
bici raggiungono il mercato. Alcuni conoscono il mio nome, altri vedono
solo il mio volto ma nessuno di loro conosce la mia storia.
Avevo solo undici anni quando, in un bollente pomeriggio dell'estate
del 1943, giocavo insieme alla mia piccola sorellina che in quel tempo,
di anni, ne aveva solo sette. Mia madre, Annegret, stava già
preparando la cena e in camera arrivava un profumo squisito. Stavamo
disegnando: io un fiore per Josefine e mia sorella un
aeroplano
per me. A un certo punto qualcuno bussò alla porta. Mia
mamma aprì la porta pregando di non vedere due
tedeschi. Si
trovò
davanti un uomo alto che con la sua divisa e la sua postura incuteva
terrore. Io spiavo la scena dallo stipite della porta, cercando di non
farmi vedere.
<< E' lei la Signora Annegret Keller? >>
chiese l'uomo con fare inquisitorio
<< Sì, sono io. >>
L'uomo entrò in casa mentre mia mamma si guardava ancora in
torno con aria spaesata. Sapeva cosa sarebbe successo ma non voleva
credere che quel giorno sarebbe arrivato.
<< Prepari le valigie per lei e i suoi figli.
>>
<< Porti coperte e vestiti per due giorni. Non avrete
bisogno di cibo, lì c'è. >> disse
il compagno.
Mia madre obbedì e ci chiese di raggiungerla in camera.
Presi
Josefine per mano e facendomi coraggio arrivai in camera passando sotto
gli occhi vigili del tedesco.
Fatte le valigie, abbandonammo la nostra casa. Una fila che sembrava
interminabile sulle scale di quel palazzo. La vicina era sulla porta
con suo figlio, il mio migliore amico. Lui era più grande,
sapeva ciò a cui sarei andato incontro e provò
grande
dolore a vedermi per l'ultima volta con quelle valigie in mano. Mamma e
la Signora Jäger si salutarono rapidamente, erano
molto
legate e si confidavamo molte cose, perfino la paura. Josefine, vedendo
trasparire il dolore nelle lacrime di tutti, disse: << E'
un solo
un viaggio, poi torniamo. >>
Il tedesco ci spinse e fummo costretti ad andarcene. Ebbi solo il tempo
di dare a Konrad un orologio che trovammo una volta insieme per strada
e che era diventato molto importante per noi; il simbolo della nostra
amicizia, in un certo senso.
Abbandonammo il palazzo. Nel breve cammino fino al camion che ci
avrebbe condotti in un luogo a me sconosciuto notai che c'erano molte
persone alla finestra ad assistere a quello che per loro era un bello
spettacolo. Chissà cosa ci trovavano di divertente. C'era
gente
che urlava: << Sporchi ebrei! >> oppure
<< Ebrei al
rogo! >> o cose di questo genere. Ma cosa abbiamo fatto
di male
noi ebrei per meritarci tutto questo odio e tutto questo male?
Saliti su quei camion, fummo portati in un posto orribile. Il cibo non
c'era. Era un campo immerso nella campagna per cui ogni tanto qualche
buona donna nascosta tra gli alberi ci lanciava il cibo da fuori senza
farsi vedere. Era tutto recintato da un tagliente filo spinato.
Baracche mal messe da tutte le parti che fungevano da dormitori, uffici
e tutto ciò che potesse essere utile. Tre
infermiere dovevano prendersi cura di migliaia di persone. Condizioni
disumane. Gente non usciva viva neanche da quel posto. E pensare che
poi ci avrebbero portato in un posto ancora peggiore! L'avevo sentito
dire tra alcuni generali.
<< Quando li faremo partire? >>
<< Gli uomini tra tre giorni. Donne e bambini piccoli il
giorno dopo. >> ordinò il generale.
<< E i bambini più grandi? >>
<< Tra sei giorni. >>
<< Bene. >> concluse.
Origliare quella conversazione fu la miglior cosa che potessi fare. Non
sapevo ancora come usarla, ma a qualcosa mi sarebbe servita.
Così confidai quell'inconfessabile segreto all'unica persona
che
mi aveva sempre aiutato, che mi era sempre stata vicina, che aveva
sopportato insieme a me la perdita di mio padre, che mi voleva
veramente bene e di cui mi potevo realmente fidare: mia madre.
Annegret, colei che mi aveva partorito e accudito da sola e con un
altro figlio in pancia in tempi difficili, in tempi di guerra. Non gli
sarò mai abbastanza grato per ciò che ha fatto
per me e
per il consiglio che mi diede.
<< Mamma devo dirti una cosa! >> dissi
ansimando.
<< Cosa succede? >>
<< Ho sentito che un generale diceva che ci avrebbero
portati in un altro posto e che ci avrebbero divisi! >>
<< Non possono farlo! Non devono, non possono!
>>
<< Sono i tedeschi mamma, fanno ciò che
vogliono! >>
Pochi istanti di riflessione precedettero quella parola, quel consiglio
che poteva sembrare un ordine: << Scappa! Devi scappare
prima di
partire! >>
<< Non lascerò te e Josefine qui! Non me ne
vado senza di voi! >>
Sapevo benissimo che avrei dovuto andarmene da lì, lo sapevo
che
era l'unica cosa da fare, ma non avrei mai accettato di farlo senza
Josefine e mia madre.
<< Josefine verrà con te. >>
disse con voce tremante non riuscendo a trattenere le lacrime.
<< E tu? >> quasi disperato.
<< Io rimarrò qui. Sono adulta, me la so
cavare. Forse
scapperò anche io, ma non da qui, dal posto in cui ci
porteranno. >>
<< Scappa da qui con noi. >>
<< Prenditi cura di tua sorella. Ci rivedremo prima o
poi. >>
Così si concluse il nostro colloquio.
Il giorno dopo, quando la Signora Ziegler venne a portarci un po' di
pane e qualche biscotto, mi confidai con lei riguardo al mio piano di
scappare con Josefine il giorno successivo. Promise che sarebbe venuta
per aiutarci e che ci avrebbe ospitati. E questo fu esattamente quello
che fece.
Il giorno seguente, mentre alcuni bambini mangiavano ed altri
ricevevano il cibo dalla figlia della Signora Ziegler, il mio amico
Siegward rovesciò il piatto in terra, attirando l'attenzione
di
tutti. Fu in quel breve minuto che oltrepassammo il filo spinato. Prima
di iniziare la corsa che ci avrebbe portati "fuori pericolo" rimasi in
piedi a guardare il volto di mia madre per l'ultima volta. Sorrise e mi
augurò buona fortuna.
Raggiungemmo la casa della Signora Ziegler che non distava molto dalla
nostra casa. Ma dopo soli due giorni che ci trovavamo in quella casa
successe la peggior cosa che mi sia mai successa.
Josefine si ammalò, probabilmente fu a causa del lungo
viaggio.
Aveva la febbre a quaranta quindi la Signora Ziegler chiamò
il
dottore. Quest'ultimo disse che non c'erano molte speranze, anche
perché Josefine era una bambina molto debole e si era ferita
con
il filo spinato che le aveva causato una notevole perdita di sangue.
Infatti di speranze non ce ne furono e Josefine morì.
Non mangiai per una settimana e avrei continuato ulteriormente se la
Signora Ziegler non mi avesse costretto. Mi sentivo terribilmente in
colpa. Avrei potuto, anzi avrei dovuto, darle tutto ciò che
potevo ma non credo di averlo fatto. Ina, la figlia undicenne della
Signora Ziegler, cercava di darmi conforto e devo ammettere che in
certi momenti ci riusciva. Giocavamo insieme in casa e ogni tanto,
quando sembrava che i tedeschi fossero lontani dalla nostra zona,
giocavamo anche per strada.
Ina era divertente, solare e molto carina ed io stavo bene insieme a
lei ma nessuno avrebbe mai potuto sostituire Josefine. Lei era
l'arcobaleno dopo l'uragano.
Arrivò settembre, tempo di tornare tra i banchi di scuola.
Ma
come poteva un ebreo presentarsi al pubblico? Non poteva! Fu per questo
che ci trasferimmo in Spagna. Non fu semplice farmi passare per un
normale tedesco, considerato che non avevo neanche un documento falso.
Quando arrivò il controllore la Signora Ziegler
consegnò
una busta con i propri documenti e quelli della figlia; al posto dei
miei c'era una somma in denaro alquanto elevata che fu intascata dal
controllore e che mi permise di giungere in Spagna. Qui conclusi la
scuola insieme ad Ina, qui conobbi quelli che sono i miei amici
più cari e qui presi la laurea in medicina e qui mi
innamorai
per la prima volta della ragazza che dalla perdita di mia sorella mi
era sempre stata accanto, la ragazza che con un sorriso riempiva il mio
mondo: Ina.
Solo alla fine della guerra Ina mi accompagnò in Germania.
Tornai a Berlino, tornai nel mio quartiere, nella mia strada, nella mia
casa. Cercai Beatrix, la moglie del portiere del palazzo che lo aveva
sostituito dopo la sua morte. Subito mi riconobbe. Le presentai Ina e
fu molto contenta di conoscerla e di sapere che ero vivo. Dopo aver
finito di parlare del più e del meno, quando inizia a
crearsi
uno strano silenzio, le chiesi di mia madre, di cui fino ad allora non
avevo saputo niente. Non era mai tornata. Me lo aspettavo ed ormai mi
ero abituato a fare i conti con il dolore delle perdite. Lei mi chiese
di Josefine ed Ina mentre parlavo si avvicinò a me per darmi
la
forza di raccontare. Non ne avevo mai parlato e forse era l'unica
perdita che non sono mai riuscito a superare. Beatrix si
mostrò
profondamente addolorata e per cambiare argomento le chiesi se Konrad,
il mio migliore amico di cui non mi ero certo dimenticato, viveva
ancora lì. Mi disse che si era trasferito a Parigi un anno
dopo
la mia deportazione, che era diventato un avvocato e che le scriveva
sempre delle lettere chiedendo anche notizie su di me. Mi feci dare il
numero di casa di Konrad e salutai la cara Beatrix.
Ormai è passato un anno dalla mia visita a Berlino e sono
riuscito a mettermi in contatto con Konrad. Lui non si era scordato di
me e la prima volta che sentì la mia voce al telefono si
commosse.
Così oggi, 27 gennaio 1961, sto andando alla stazione ad
aspettarlo e a rivederlo per la prima volta. Non so se lo
riconoscerò ma mi ha raccontato che da quel caldo pomeriggio
del
1943 non si è più tolto quell'orologio.
|