Come sei veramente
Evening*
Questa storia si colloca, cronologicamente parlando,
il giorno successivo agli avvenimenti della precedente "Come sei
veramente", ma può essere letta anche da sola.
"Johnny? E' permesso?"
"Avanti..."
Ancora prima di entrare nella stanza 319, al suono della voce flebile
di Johnny Smith, Marie Michaud capisce che qualcosa non va in lui, e
ne ha la conferma non appena apre la porta e varca la soglia. Il
giovane è sdraiato a letto, rannicchiato sul fianco sinistro
verso la porta, con la faccia pallida e stanca e gli occhi
cerchiati e arrossati di chi ha appena pianto, o di chi ha un'atroce
emicrania. Sul comodino, il vassoio della cena che Marie è
venuta a ritirare è ancora intatto.
"Johnny, che c'è?" domanda Marie, allarmata, socchiudendo la porta e avvicinandosi al letto. "Ti senti male?"
Lui fa cenno di sì. "Mi fa male la testa. Ho avuto una giornataccia."
"L'ho saputo. Poco fa ho incontrato Mike... il tecnico che stava
all'apparecchio mentre Weizak ti faceva l'elettroencefalo..."
"Ti ha raccontato quello che è successo, vero?" la domanda
è retorica, e l'espressione sul viso di Johnny non è
interrogativa nè preoccupata: piuttosto, è rassegnata.
"Già", Marie si accomoda sulla poltroncina di pelle nera,
accanto al letto, lisciandosi la gonna della divisa da infermiera. "Si
è preso una paura dell'accidente. Ha detto che quando ti sei
messo a cantare quella nenia in lingua straniera, con una voce di donna
che non era affatto la tua, per poco non ha cacciato un urlo."
"Era la ninnananna preferita dalla madre di Weizak", precisa Johnny senza scomporsi. "In polacco."
"Mi dispiace dovertelo dire, ma Mike ha già sparso la voce in
tutta la clinica, e quando finirà il turno e se ne andrà
a casa..."
"... lo dirà alla moglie, all'amante, ai figli, ai parenti, agli amici, e a
chissà chi altro. Posso immaginarlo."
"Johnny..."
"Però Mike non sa la fine della storia", conclude Johnny, tirandosi faticosamente a sedere.
Marie inarca le sopracciglia. Il fatto che Johnny Smith si sia
risvegliato da un coma di quasi cinque anni, alle cinque del pomeriggio
del giorno precedente, non è l'unica cosa strana accaduta nelle
ultime ventisei ore. Anzi, a ben vedere, forse è la più ordinaria.
Quello che le altre infermiere sue colleghe hanno già
soprannominato Signor Occhioni Blu (neanche fossimo alle scuole
elementari, aveva pensato Marie), aveva ripreso conoscenza come se si
fosse svegliato da un comune sonno di una notte, proprio
mentre lei si apprestava a praticargli la quotidiana iniezione
di vitamine. L'aveva guardata sorridendo e l'aveva salutata chiamandola
per nome, e lei aveva fatto un salto all'indietro, lasciando cadere la
siringa che si era schiantata sul pavimento spargendo il suo contenuto: non le era mai successo
che un paziente in coma profondo si svegliasse in modo tanto
repentino.
E dal momento che era stato in coma fino a quel momento, Johnny non poteva
sapere come lei si chiamasse, a meno che il coma non fosse altro che un
particolare stato di veglia, ipotesi che sembra essere stata ormai smentita da tempo.
Cosa ancor più singolare, gli occhi del giovane, in quel
momento, non erano blu, o meglio azzurri, come li aveva sempre visti e
come li avrebbe sempre visti in seguito: erano più scuri, di un
colore a metà fra l'indaco e il viola, e Marie avrebbe giurato
di avere visto in essi il proprio riflesso: un'infermiera di
mezz'età, piccolina e formosa, con un caschetto di capelli neri
a coprirle le orecchie, gli occhi scuri dilatati dallo spavento, le
mani strette al seno l'una nell'altra.
Gli occhi di Johnny Smith stavano riflettendo la sua immagine, e a un tempo vedevano dentro di lei.
Poi lui aveva continuato - Marie può ricordare le parole esatte, una
ad una, non le dimenticherà mai: "Stai tranquilla. Gli occhi ora sono a posto, ci vedrà
come se non avesse mai avuto problemi", e lei aveva saputo che
Johnny stava parlando del suo figlio più piccolo, Mark,
dodici anni,
cieco dalla nascita, che sei giorni prima aveva subíto un
delicato intervento chirurgico allo scopo di donargli quella vista che
non aveva mai avuto. Un trapianto delle cornee, provenienti da una
persona deceduta, un intervento nuovo e rischioso.
Quella settimana, a Marie spettava il turno dalle
quattordici alle ventidue: ma il giorno precedente, mercoledì,
il giorno del
risveglio di Johnny, aveva chiesto un cambio, scegliendo di lavorare in
giornaliero, dalle nove e trenta del mattino fino alle cinque e
trenta del pomeriggio. Un turno insolito, che però le era stato
concesso, in quanto alle sei avrebbe dovuto trovarsi all'Eastern Maine
Medical Center, l'ospedale statale di Bangor, dove a Mark avrebbero
tolto il pesante bendaggio che gli copriva gli occhi per la prima volta
dopo l'operazione. Quando Sam Weizak le aveva chiesto il perchè
della richiesta di quell'orario - Marie era una
stacanovista e aveva un sacco di ferie arretrate: non ci sarebbe stato
alcun problema a darle tutta la giornata libera - lei aveva risposto
con sincerità, com'era abituata a fare: se fosse stata a casa
tutto il giorno, non avrebbe fatto altro che rosicchiarsi le unghie,
solitamente lunghe, curate e laccate, in vestaglia
davanti alla televisione spenta.
Il lavoro l'avrebbe distolta dal
pensiero di Mark.
Aveva lavorato quindi fino alle cinque e mezzo (e durante il turno
aveva assistito al risveglio di Johnny: cosa che non avrebbe potuto
fare, se avesse scelto di rimanere a casa), poi si era cambiata,
era uscita, e per le sei meno cinque era all'EMMC.
Dove Mark, appena libero dalle bende, gli occhi ancora gonfi e
tumefatti, dopo un primo momento di smarrimento aveva sorriso e le
aveva detto: "Sai mamma? Sei proprio bella come ti ho sempre
immaginata."
Johnny Smith, chissà come, aveva avuto ragione. Mark era guarito e ci vedeva.
Non appena arrivata alla St. Francis, il giorno successivo, prima
ancora di cambiarsi, Marie era corsa nella camera di Johnny, che stava
riposando, reduce da un'intensa mattinata di esami, gli aveva
comunicato che Mark era davvero guarito, l'aveva ringraziato abbracciandolo, ed era scoppiata in lacrime, incapace di trattenersi.
Johnny, confuso e ancora assonnato, aveva bisbigliato che non avrebbe
dovuto ringraziarlo, non era stato lui ad operare Mark, e lei
all'improvviso si era resa conto di ciò che stava facendo: aveva
svegliato un paziente che stava riposando, un paziente che si era
appena ripreso da un coma eccezionalmente lungo in modo eccezionalmente
straordinario, un paziente che aveva perso una buona fetta di vita, avrebbe dovuto lavorare duro per ricostruirsela, e
doveva sentirsi a dir poco sottosopra, per tediarlo con i propri patemi
personali e piangergli fra le braccia come una sciocca, lasciandolo
ancora più turbato. Molto professionale, per un'infermiera con
oltre venticinque anni di esperienza.
Ma aveva dovuto dirglielo. Da quando Mark aveva aperto gli occhi confermandole la riuscita dell'intervento, Marie non ha avuto in
mente altri che Johnny, il suo sorriso caldo e dolce e i suoi occhi
freddi e scuri, dove lei si era specchiata.
Poi, quel pomeriggio aveva incontrato Mike Lewis nel corridoio, il
quale riconoscendola come l'infermiera presente al miracoloso risveglio
di John Smith, le aveva raccontato l'ultima impresa del paziente,
durante l'esame elettroencefalografico al quale aveva assistito il dottor Weizak. Secondo il racconto di Mike, Smith era
caduto in una specie di trance, aveva mormorato delle cose strane,
parlando di fuoco dappertutto e persone urlanti e morenti uccise
dal grande lupo tedesco, e alla fine aveva sentenziato che la
madre del dottor Weizak era viva e vegeta e abitava in Svizzera, a
Montreaux, con un marito ingegnere e due figli.
Ciliegina sulla torta, Smith aveva cantato una specie di
ninnananna in una lingua a Mike sconosciuta, forse russo, o forse
tedesco, con una voce di donna che non poteva appartenergli.
"Non sei curiosa di sapere la fine della storia?" le domanda Johnny,
con un sorriso tirato e ironico. "Sam Weizak poco fa è venuto
qui. Mi ha detto di avere cercato il numero di telefono di sua madre tramite i
servizi internazionali. L'ha ottenuto e l'ha chiamata, ma quando lei gli ha
risposto, non è riuscito a parlarle e ha buttato giù."
"Come, scusa?" Marie non crede alle proprie orecchie. "Ha sempre
creduto che sua madre fosse morta nell'assedio di Varsavia, durante la
Seconda Guerra Mondiale... più di trent'anni dopo scopre che
è viva... e non ha avuto il coraggio di parlarle?"
"So che suona assurdo. Ma non ti sembra tutto quanto assurdo?"
"Sì, ma... dal momento che, assurdo o no, è riuscito a trovarla..."
"Forse ha fatto la cosa giusta, buttando giù la cornetta."
"Johnny!"
"Sam dice che ci sono cose che non vanno dette, altre che non vanno
viste, altre che vanno ignorate", dice Johnny, guardandosi le mani, che
stanno giocherellando con il lenzuolo nel suo grembo, avvolgendone un
lembo su sè stesso a partire dall'orlo. "E perchè
no? Durante la guerra, sua madre è rimasta ferita e ha perso la
memoria, si è rifatta una vita con un altro uomo e ha avuto
altri due figli... perchè minare adesso la tranquillità
di una donna ormai anziana, più o meno in pace con sè
stessa?"
"Stai cercando di giustificare la scelta del dottor Weizak, ma sono convinta che non la pensi così."
Johnny sospira. "Francamente, non so come la penso. Mi sembra tutto un
gigantesco incubo. Magari lo fosse, e potessi risvegliarmi di nuovo nel
1970..."
Marie si sente invadere dalla tenerezza, come se il giovane pallido ed
emaciato che le sta davanti fosse il suo quarto figlio. Si stupisce di
sè stessa: lo conosce appena, ma
già gli si è affezionata a tal punto da pensare a lui in
questi termini - non che Marie del resto impieghi molto tempo ad
affezionarsi alle persone: sua madre l'ha sempre rimproverata di essere
oltremodo sentimentale, e l'ha sempre avvertita, a ragione, che se non
fosse cambiata, questo suo modo di essere l'avrebbe fatta soffrire
inutilmente.
Forse si è già legata a Johnny perchè è da
tre anni che se ne prende cura, anche se gli ha effettivamente potuto
parlare solo dal pomeriggio precedente?
O forse per quel suo sorriso tanto dolce e spontaneo, a dispetto degli
occhi ghiacci, quando l'ha rassicurata sulla riuscita
dell'intervento di Mark?
Come Johnny stesso le ha ricordato poche ore prima, mentre lei gli
bagnava il pigiama con le proprie lacrime, non era stato lui ad operare
il ragazzino, e non era lui che Marie doveva ringraziare: questo, con
la ragione, Marie può riconoscerlo. Ma ugualmente, ripensando alle
prime parole che Johnny le aveva rivolto dopo averla salutata e
chiamata per nome, sente il proprio cuore sciogliersi in un mare
di tenerezza, e gli occhi riempirsi di nuovo di lacrime.
Di chi è la frase "Il cuore ha le proprie ragioni che la ragione non conosce"?
Sua madre, settantenne dalla lingua pungente come uno stiletto, le risponderebbe: Della carta di un cioccolatino.
Al diavolo. Il pomeriggio precedente era tesa e preoccupata, per tutto
il giorno aveva lavorato come un automa, muovendosi e parlando quasi
per inerzia, senza la solita passione e il solito buonumore, conscia
che se fosse rimasta a casa sarebbe stato ancora peggio e cercando,
probabilmente invano, di nascondere il proprio tormento interiore a
pazienti e colleghi... e Johnny Smith, che neanche la conosceva, le
aveva letto dentro, aveva compreso il suo stato d'animo e l'aveva
rincuorata con le parole giuste, con le parole che lei avrebbe voluto
sentirsi dire.
Quando le aveva comunicato l'esito positito dell'intervento chirurgico,
Marie non aveva creduto che Johnny lo conoscesse per davvero. Chi mai avrebbe potuto conoscerlo, del resto?
Ma i fatti poi avevano parlato chiaro.
Ma come poteva sapere che l'intervento era riuscito, una persona in coma che non era mai uscita dalla clinica?
Marie non è una persona superstiziosa, non lo è mai
stata, non crede ai fantasmi nè agli extraterrestri, nè
ai vampiri nè alle streghe, ma sa che ci sono cose che la mente
non è in grado di capire, e che tuttavia accadono, e sono
perfettamente e totalmente reali.
Conosce di fama Peter Hurkos ed Edgar Cayce e, senza bisogno di
spostarsi troppo, conosce un signore che abita
a due isolati da casa sua, che di professione fa il pranoterapeuta e
sostiene di guarire tramite l'imposizione delle mani, alla faccia della
medicina ufficiale. Quella primavera Oliver, il marito di Marie, gli si era
rivolto dopo avere preso una dolorosa contrattura alla coscia durante una
partita a calcio domenicale, e dopo la prima seduta il muscolo si era sciolto
come per miracolo.
Johnny sapeva della riuscita dell'intervento di Mark, sapeva della
madre del dottor Weizak: questo forse lo qualifica come sensitivo. Ma
non lo rende nè migliore, nè peggiore, di
qualsiasi altra persona: è semplicemente in possesso di un dono,
come chi ha il talento della musica, della danza o del disegno, o di
che altro, e non lo rende meritevole di affetto più di
chiunque altro con qualsiasi altro talento, nè di chiunque altro
con nessun talento particolare.
Se Marie si sta affezionando a lui tanto da considerarlo come un figlio, se fin da subito le è sembrato una persona speciale,
non è certo per le sue presunte doti di veggente, e non è
nemmeno
perchè l'ha informata in anticipo del recupero della vista
del suo figlio più piccolo: è solo perchè è
stato
l'unico che ha saputo comprenderla in un momento in cui si era sentita
particolarmente bisognosa di comprensione, e ha scelto le parole
adatte a
rassicurarla, quando chi la conosce da anni è riuscito solo a
pronunciare qualche banale frase di circostanza.
"Vieni qui", dice, circondandogli le spalle con le proprie braccia
tornite, e tirandolo a sè proprio come farebbe con uno dei
propri figli. Non
è una sensitiva, ma non ha bisogno di poteri particolari per
capire quanto la morte di Vera Smith contribuisca a peggiorare le
condizioni di Johnny, psichiche e fisiche: le è sufficiente il proprio buon cuore, e
la propria
naturale empatia, che tanto l'ha aiutata con i pazienti nel corso degli
anni. E' quello il suo dono.
"Marie..." fa lui, e lei sente i suoi muscoli tendersi, resistere al proprio abbraccio.
Ma è solo un momento, dopodichè Johnny si rilassa,
sopraffatto dal bisogno di lasciarsi andare. Il suo corpo si distende,
chiude gli occhi e appoggia la testa contro la sua spalla.
"Ecco, così, bravo", gli sussurra lei all'orecchio,
carezzandogli piano i capelli, che decisamente avrebbero bisogno di una
sistemata. "Rilassati. Tutta questa tensione non fa bene al tuo mal di
testa."
"Io vorrei solo sapere perchè ho iniziato a vedere queste cose.
Non mi era mai capitato prima d'ora, e... voglio dire, non è normale. Prima gli occhi di tuo figlio... poi la madre di Sam... e tutto corrisponde alla realtà, per cui..."
"... non si tratta di allucinazioni, e non sei pazzo", termina lei.
"Credo che vorrei esserlo", sospira lui. "Sarebbe tutto più
semplice. Non m'importerebbe niente della mamma, nè di Sarah,
nè di tutto quello che ho perso, nè di questi strane visioni. Non lo saprei neanche."
Il ragazzo è depresso, e non a torto. Marie non può e non
vuole propinargli una delle solite, stantíe frasi fatte, sa che sarebbe inutile, persino controproducente:
Johnny ha tutte le ragioni di questo mondo per sentirsi depresso.
La cosa più giusta da fare sarebbe tacere, e continuare ad accarezzargli la testa. Ma Marie è una donna sincera, troppo
sincera, e non riesce a trattenersi: "Io sono convinta
che ci sia un motivo, se ti sei risvegliato da un coma tanto lungo, nel
pieno posssesso delle tue facoltà mentali, e con questa... seconda vista."
Ecco, l'hai detto, pensa, non appena pronunciata l'ultima sillaba.
Stupida. Cosa vuoi che gliene importi di un ipotetico motivo, di una giustificazione metafisica alle proprie sofferenze, a un ragazzo che qui e ora si trova in una situazione a dir poco di merda?
E se ti rende pan per focaccia e risponde che non gliene
frega un accidente, per carità morditi la lingua e chiedi scusa,
anzichè ribattere.
Questa è una stanza di ospedale, non uno studio
di strizzacervelli, e tu sei solo
un'infermiera, non una psicanalista.
Ma Johnny non sembra irritato. Resta con il corpo abbandonato contro
quello di lei, cercando semplicemente di dirottare il discorso in
un'altra direzione: "Sam ha detto che farà delle ricerche.
Cercherà di capire cosa mi è successo, cos'è che
provoca queste visioni..."
Lei tira un sospiro di sollievo. "Nel frattempo, tu ti darai da fare per rimetterti."
"Sarà un lavoraccio. Sono ridotto a... un disastro. Sembro Lurch della Famiglia Addams."
Dalla sua espressione avvilita, Marie capisce che Johnny non
intende fare lo spiritoso, e trattiene la risata che stava per
uscirle dalla bocca, sonora e spontanea: questa volta, il giovane
non avrebbe potuto
lasciargliela passare liscia.
"Esagerato", ribatte semplicemente. "Se può tirarti su, sai come
hanno iniziato a chiamarti le infermiere? Signor Occhioni Blu."
"Marie!" Johnny si stacca da lei. I suoi zigomi sono chiazzati di
rosso, e Marie ora non riesce proprio a trattenere un sorriso: "Non mi dire che non
sai di essere... bè, attraente."
"Sinceramente, no. Io mi sono sempre sentito un perfetto... John Smith. Un perfetto Signor Nessuno. Slavato e anonimo."
"Via, non fare l'ingenuo. Non facevi l'insegnante? Scommetto che avrai
avuto frotte di studentesse ai tuoi piedi, e l'armadietto pieno di
lettere d'amore."
Lui è visibilmente a disagio, ma sorride ricordando i vecchi,
felici tempi: "Non me ne parlare... a volte era persino imbarazzante.
Però, che io sappia, nessuna mi ha mai chiamato Signor Occhioni
Blu. In compenso, alcuni ragazzi mi chiamavano Frankenstein."
"Tutta invidia, scommetto."
"Sai la cosa buffa? A quel tempo, lo trovavo divertente. Ho sempre
saputo di essere un pò spilungone, ma..." si stringe nelle
spalle, incerto su come continuare. "Probabilmente, mi sentivo
anche abbastanza sicuro del mio aspetto fisico per riderci sopra. Se
qualcuno mi chiamasse così adesso, mi offenderei e basta."
"Su... non è così terribile. Intanto, puoi iniziare con
il mangiare la cena." Marie si alza, va al comodino e prende il vassoio.
"Ma..." protesta Johnny. Lei fa orecchie da mercante e gli appoggia
il vassoio sulle gambe: "Dubito che qui ci sia qualcosa che possa
essere chiamato cibo, ma il tuo stomaco deve riabituarsi a poco a poco,
come quello di un bambino piccolo."
"Io non..."
"Niente storie. Vediamo cosa c'è qui... crema di verdura.
Formaggio morbido. Mela cotta. Un pasto degno di un bambino di almeno
un anno." prende il cucchiaio e lo sventola sotto il naso di Johnny,
sorridendo con ironia. "Allora... sei abbastanza grande per fare da
solo?"
Lui prende il cucchiaio, imbronciato: "Spiritosa."
"Così mi piaci. Se finisci tutto, domani potrei anche sistemarti
i capelli. Oltre ad essere un'ottima infermiera, sono anche
un'eccellente parrucchiera."
"Mmm?" Johnny la guarda interrogativo, la bocca piena di passato di verdura.
"Ho tre figli, sai? Ed, di ventidue anni, Tom di sedici, e Mark, che ne
ha dodici. Ho fatto esperienza su di loro... e ovviamente su mio
marito, Oliver."
Dopo aver sorbito un'altra cucchiaiata di crema, Johnny commenta: "E'
buffo. Sapevo che Mark sarebbe guarito prima ancora dei medici che
l'hanno in cura, ma non sapevo che tu avessi altri due figli... non
sapevo niente altro di te, se non che sei bravissima a fare le iniezioni."
"Domani avrai modo di scoprire che sono anche bravissima a tagliare i capelli."
Lui posa il cucchiaio e le sorride, commosso: "Grazie, Marie. Di tutto."
Marie ricorda il primo sorriso che lui le ha rivolto, un sorriso e
caldo e dolce, abbinato a un paio di occhi freddi e scuri. Ora invece
anche gli occhi di Johnny sorridono, chiari, azzurri e luminosi, e
Marie Michaud scommetterebbe che se potesse vedersi in quel momento,
malgrado tutto, lui
capirebbe il perchè di tanto interesse da parte del genere
femminile.
Credits:
*”Evening” è un brano di Michael Jones,
dall'album "Touch", Narada Productions, 1996, che ha accompagnato un periodo particolare della mia vita...
Disclaimer: I
personaggi di Marie Michaud, suo figlio Mark, Johnny e Vera Smith, Samuel Weizak e Sarah Bracknell-Hazlett appartengono a
Stephen King. A volte mi chiedo cosa penserebbe, se potesse leggere quello che invento sulle sue invenzioni...
Se qualcuno
riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua proprietà,
mi creda se gli dico che non l’ho fatto apposta, e spero non si
offenda.
Preciso inoltre che questa storia è stata scritta senza alcuno
scopo di lucro... e che effettivamente non so quando è stato
inventato il trapianto di cornea: mi sono presa una piccola
libertà narrativa. Nel romanzo originale, il figlio di Marie non
era completamente cieco; qui invece, data la brevità del
racconto, mi sembrava di avere bisogno di qualcosa di più
incisivo.
Nota
dell’autrice: Questa storia è dedicata all'infermiera
ideale, l'infermiera da cui tutti vorrebbero essere accuditi, qui
impersonata da Marie Michaud.
L'infermiera ideale, in quanto tale, non dovrebbe esistere.
Io invece, ho avuto la fortuna di conoscerla, durante uno dei miei
svariati ricoveri in ospedale quando ero piccola. Si chiamava Loriana e francamente
ricordo poco altro di lei, se non che era mora e piccolina, con i
capelli corti, bravissima a fare le iniezioni e con una pazienza e
un buonumore infiniti - con me, di pazienza, ce ne voleva veramente
tanta: io non ero certo la paziente ideale
nè per un'infermiera, nè per un medico.
Siccome non posso più ringraziarla di persona, perchè non
conosco di lei nient'altro che il nome, ora che sono cresciuta ho
scelto l'unico modo che conosco per renderle in qualche modo omaggio:
ispirarmi a lei per il personaggio
della "mia" Marie Michaud, sia per questa storia, sia per il mio
vecchio fumetto, dove Marie aveva un ruolo molto più importante
di quello poco più che marginale che le ha dato Stephen King nel
romanzo "La zona morta".
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