Di
semidei e tinte pastello.
Ronzii – Parte I.
Jean-Paul
Marat l’aveva avvisata.
E
con ben duecentoventi anni di anticipo, perciò Azzurra non
poteva proprio dire
di non saperlo: mai fidarsi di una donna francese. Nemmeno –
e soprattutto! –
se ha un nome che sembra quello di una crema per dolci. Chantal.
Chantilly. Forse era questo il motivo per cui Achille era
entrato in confusione. Pensava di avere a che fare con della soffice
panna
montata aromatizzata alla vaniglia e si era ritrovato tra le mani un
secco
fuscello transalpino impregnato di J’adore.
Maledetto lui e la sua zuccheropatia.
Chantal
era un nome carino per indicare un metro e sessantacinque di snobismo
napoleonico, tutto sommato sopportabile, se non fosse stato per il
fastidioso
prefissuccio – che, tra l’altro, il soggetto in
questione tendeva a dimenticare
– che precedeva la normalissima connotazione di ragazza: ex.
Azzurra
e Achille non erano usciti che quattro o cinque volte, prima che
l’indesiderata
intrusione della dernière femme de
France
si compisse. Avevano preso le cose con calma, credendo di avere tutto
il tempo,
profezie Maya permettendo. In realtà, Achille si era
mostrato pronto e
disponibile in qualsiasi occasione, ma ciò che rimaneva
nelle macerie della sua
galanteria e una certa ritrosia – piuttosto latente
– di Azzurra avevano
prevalso sulla razionale logica dei suoi ormoni. Ma
l’arrapato bancario avrebbe
potuto smettere di trattenere il fiato e di immaginare la decrepita
professoressa Savarese in lingerie per calmare i bollenti spiriti entro
un paio
di giorni. Quattro, per essere precisi… ma chi li contava?
In previsione della
presunta fine del mondo, infatti, Azzurra aveva intenzione di
organizzare una
cena a sorpresa la sera del 20 dicembre, a casa sua, dove per la prima
volta
avrebbe aperto la porta della camera da letto ad Achille. Avrebbero
così finito
quanto iniziato settimane prima sul divano del suo appartamento, il
giorno in
cui si erano conosciuti al supermercato; e che diamine,
d’accordo fare la
ragazza perbene, ma i capelli ricci e ribelli di lui sarebbero stati
così bene
tra le sue cosc… ehm cuscini,
i suoi
cuscini. Stavano entrambi impazzendo e Azzurra aveva cominciato a
intravedere –
e persino intrasentire – doppi sensi del tutto inappropriati
in ogni singola
frase pronunciata dall’altro.
-
So che lo vuoi… prendilo! Piace più a te che a me
il torrone.
-
Lecca-lecca? Mia nipote deve avermelo infilato nella tasca del cappotto.
-
Poco alla volta, altrimenti ti fa male. Piano con quella granita!
Entrambi
erano sul punto di voler evitare contatti troppo ravvicinati
– perché Achille
aveva visto un qualcosa di estremamente sexy nel modo in cui Azzurra
aveva
maneggiato il torrone, scartato e mangiato il chupa-chups della piccola
Diana o
come le goccioline di ghiaccio sciolto della granita le fossero
accidentalmente
scivolati dalla bocca alla gola e poi giù, fino
all’incavo tra i seni – e le
uscite in pubblico in compagnia erano parse la soluzione migliore.
Ormai era
deciso: avrebbero mantenuto la loro verginità contestuale
fino all’arrivo dei
Maya e non erano ammesse proroghe o deroghe. Per questo motivo, un giro
dei
mercatini di Natale in compagnia della coppia di neo ex sposi,
nonché neo
amici, composta da Sergio e Dalila De Carlis era il pretesto perfetto
per
continuare a torturarsi a distanza, cercare di distrarsi dalle manie
ninfomani
e ultimare l’acquisto dei regali per le feste.
Naturalmente,
se avesse saputo dell’improvvisa perturbazione di gelo ammazzalibido proveniente dal sud della
Francia, l’architetto
Trentini avrebbe molto più che volentieri rinunciato ai suoi
buoni propositi di
una pseudo purezza e si sarebbe rotolata voracemente tra le lenzuola di
Achille. O le sue. Ma pure senza lenzuola! Direttamente sul corpo di
lui.
Si
erano fermati tutti e quattro a prendere un krapfen ripieno ciascuno e
inutile
dire che il riccio aveva insistito per prenderne tre per se stesso,
perché
ormai, alle due e trenta di pomeriggio, era ‘tempo
di fare merenda’.
Un
tiepido sole illuminava la città, nonostante da settimane le
previsioni del
tempo indicassero piogge e neve imminenti. Purtroppo, il colonnello
dell’aeronautica
della tv non aveva previsto nauseabonde ondate di costosa colonia
francese.
-
Achille?
Lui
aveva ancora della crema pasticcera sul mento – krapfen
numero due –, quando si
era voltato d’istinto nella direzione in cui si era sentito
chiamare. Azzurra
era troppo concentrata a contrattare insieme a Dalila il prezzo
dell’ennesima
boule à neige da aggiungere alla sua pacchianissima
collezione, per accorgersi
che il sorriso del suo accompagnatore era passato dallo smagliante
all’apprensivo in pochi secondi.
-
Chantal? – Si girò a controllare che Azzurra fosse
ancora impegnata a
chiacchierare con l’ambulante, poi si rivolse di nuovo alla
ragazza dal lieve
accento francese. – Ch-che ci fai qui?
Si
sforzò di essere educato e sperò che lei non
avesse notato il leggero tremolio
nella sua voce. Era uno shock trovarsela davanti agli occhi, in carne
ed ossa,
dopo anni di silenzio. Poteva pure essere morta, per quanto ne sapeva
lui. Beh,
con tutte le maledizioni e le bambole voodoo decapitate da Elettra, sua
sorella, nel nome della ex fidanzata, era quasi sorprendente che non lo
fosse
davvero. Elettra aveva preparato anche l’elogio funebre, ma
parlare di elogio era un
po’ fuorviante; più che un
discorso accorato, sembrava una dichiarazione di Al Qaeda.
Chantal
si avvicinò ad Achille, togliendogli con un dito la crema
dal mento. Il riccio
rimase immobile, mentre lei si portava disinvolta l’indice
alla bocca,
leccandolo con aria soddisfatta.
-
Buona! –
ammiccò. – Sono qua per qualche
giorno, a cercare opere di artisti di strada. Sto preparando una mostra
a
Nîmes.
-
Fantastico, complimenti.
Non
gliene fregava nulla, ma un’ondata di ricordi lo
investì in pieno e lui non
riuscì ad evitarla: Chantal e la sua ossessione per la
carriera. Chantal e il
suo amore per il cinema muto. Chantal e la sua risata cristallina.
Chantal e i
suoi tre nei vicino all’ombelico. Chantal e la sua terribile
codardia. Chantal
e il suo cuore spezzato. Di lui, però.
-
Dov’è Achille?
Sergio
distolse lo sguardo dalla scena a cui aveva appena assistito tra
Achille e la
sua amica e lo posò per una frazione di secondo sulla
bancarelle delle palle di
plastica con la neve finta per cui Azzurra andava matta. Mah, tutti
quegli
addobbi natalizi gli stavano facendo venire voglia di cambiare
religione. E, in
ogni caso, lui preferiva continuare a guardare la ragazza carina con
cui
Achille si stava intrattenendo. Non molto alta, magrissima, con un
cappello
nero sulle ventitré da cui fuoriuscivano degli ordinati
capelli neri, aveva
l’aria scanzonata e un ampio sorriso e…
Azzurra
gli passò la mano davanti alla faccia, facendogli intuire
che doveva essersi
imbambolato a fissare un punto indefinito.
-
Che c’è? – chiese, riscuotendosi.
-
Achille? – gli ripeté scocciata.
Erano
arrivati da poco in piazza e già Azzurra era provata dal
lungo negoziato con Hermann,
l’ambulante altoatesino della bancarella più
kitsch dell’intero mercatino. Però
si sentiva soddisfatta e felice: la tradizione della boule à
neige nuova ad
ogni Natale era rispettata. E con uno sconto di venticinque centesimi
sul
prezzo pieno! Un vero e proprio affare.
-
Sta parlando con quella fanciulla… – le rispose
Sergio.
Lei
si alzò sulle punte dei piedi e cominciò a
guardarsi intorno per individuarlo;
in mezzo a tutta quella folla a passeggio non riuscì a
capire dove fosse.
-
Oh, dev’essere Elettra, sua sorella, –
congetturò, molto ottimisticamente,
senza perdere il sorriso. – La stava aspettando per cercare
un regalo alla loro
madre.
-
Certo, sarà lei. – le rispose l’amico,
seriamente interessato a quella moretta
col naso all’insù. Il gene dei Quaresmini non era
niente male. – Ho visto solo
che erano in confidenza, lei è stata così gentile
da ripulirlo dalla crema.
Azzurra
scosse la testa e ridacchiò.
-
Gli avevo appena dato un fazzoletto apposta!
-
Pazienza… non credo le sia dispiaciuto, almeno ha avuto
anche lei l’occasione
di assaggiare il ripieno del krapfen. – Sergio
ghignò, ma Azzurra e Dalila
smisero di sorridere, guardandosi con gli occhi spalancati. –
Che c’è?
-
Lei gli ha tolto la crema dal mento e l’ha assaggiata?
– appurò Dalila.
-
Sì, con le dita. Che mi sono perso?
Ecco
uno dei motivi per cui detestava uscire con quelle due, o con le donne
in
generale; tutte pappa e ciccia e lui solo come un povero vecchio
rincretinito a
cercare di capire l’incomprensibile linguaggio femminile.
-
Azzurra, calma, – disse la sua ex moglie, – non
traiamo subito delle
conclusioni affrettate.
Sergio
guardò una e l’altra ripetutamente,
nell’attesa che si lasciassero scappare
qualche altro dettaglio, oltre a quelle occhiate furtive e complici.
-
È stata carina, no? – provò,
arrendendosi all’evidenza di essere stato tagliato
fuori per l’ennesima volta.
– Devono
avere un rapporto molto stretto, quei due. Lo si capisce da come si
parlavano
fitto fitto. Ah, come mi sarebbe piaciuto avere una sorella! Devono
essere
andati a cercare il regalo, perché non li vedo
più…
Tagliato
fuori e anche completamente ignorato.
-
Tesoro, respira. – Dalila strinse gli avambracci
dell’amica. – Inspira ed
espira, su, inspira ed espira.
Azzurra
tentò di seguire il consiglio, con grande scarsezza di
risultati.
-
Ora come ora, tornerebbe utile il corso preparto che mi hai regalato
qualche
anno fa.
-
…una complicità non comune, a dire il vero.
Sembravano davvero affiatati…
Sergio
continuava a sproloquiare in solitudine sul presunto amore fraterno,
ignorando
gli sguardi di fuoco di Dalila, la quale stava sviluppando una sorta di
strabismo fisico ed emotivo, con un occhio iniettato di sangue rivolto
all’ex
marito e l’altro pieno di comprensione femminile verso
l’amica.
Dall’altra parte
della via, Elettra si stava
facendo strada tra famigliole felici e urla in qualsiasi lingua
mediorientale
degli ambulanti, trascinando per mano la piccola Diana che dava
l’idea di non
divertirsi troppo.
La
testa riccia della sorella di Achille si bloccò
d’un colpo, tanto che la figlia
finì con il viso direttamente nel suo fondoschiena, prima di
cadere sulla
strada col sedere. Lei l’aiutò a rimettersi in
piedi, senza schiodare lo
sguardo dalla terrificante visione che aveva davanti.
-
Diana, tappati le orecchie. – le ordinò e la bimba
obbedì subito, abituata a
quel tipo di richieste materne. – Mamma deve dire una
cosuccia ad alta voce:
che ci fa quella stronza qui?
Una
volta individuati il presunto fedifrago e la lapalissiana sgualdrina,
Dalila
provò a spronare Azzurra a farsi avanti, adducendo scuse
come la preservazione
del territorio, l’amore per la propria dignità e,
se avesse saputo delle
origini della suddetta giovincella, avrebbe aggiunto anche il rispetto
per il
lavoro svolto da Giulio Cesare alla conquista della Gallia. Ma di
fronte alla
titubanza dell’amica, un bello spintone le parve la scelta
più saggia.
La
ragazza urtò una signora, causando una reazione a catena che
terminò sulla
nobile schiena dell’amica di
Achille,
che si voltò infastidita, le narici aperte come un drago
all’attacco.
Azzurra
e il riccio si scambiarono un’occhiata imbarazzata; lui
abbozzò un sorriso e
sperò di porre rimedio a quel disagio generale facendo le
presentazioni
ufficiali.
-
Oh, Azzurra, sei qui. Lei è Chantal.
Chantal?
Dunque era francese, l’intrusa. Bene, sembrava il nome di un
formaggio, di
quelli vecchi e ammuffiti.
Azzurra
si limitò ad un sorriso forzato, mentre le porgeva la mano,
gelida quanto le
occhiate che le stava lanciando. Si ritirò immediatamente
dietro al ragazzo,
nell’attesa che liquidasse la tizia a breve.
-
È un piacere conoscerti, – rispose la francese,
dimenticandosi di lei nel
momento stesso in cui scorse la solita espressione di sfida sulla
faccia della
sorella di Achille, che stava arrivando a grandi falcate. –
Bonjour Elettra, ti
trovo bene. Beh, Achi, – Achi?
– se
ti va di fare due chiacchiere senza tutto questo reggimento, chiamami.
So che
hai ancora il mio numero. Buona giornata.
So
che hai ancora il
mio numero.
Azzurra
pensò a quanti metodi di tortura cinese sarebbe incorso il
caro Achi, se solo avesse osato
chiamare la
nipote di Sarkozy. D’accordo, lui non era il suo fidanzato,
né poteva dire con
assoluta certezza che le cose fossero serie tra loro, ma non avevano
più
vent’anni, erano persone mature… e lui non poteva
tornare con quella, dai! Lei
era molto meglio!
Elettra
sembrò leggerle nel pensiero ed espresse ad alta voce
ciò che lei aveva osato
dire solo a se stessa. Sorrise falsamente a Chantal, che stava agitando
la mano
a mo’ di saluto, prima di dileguarsi tra la folla.
-
Passerai sul mio cadavere mummificato, prima di telefonare a quella
baguette
rinsecchita. – minacciò subito il fratello.
– Che sfacciata! Dopo tutto questo
tempo, torna e finge che non sia successo nulla!
Achille
cercò di contenere la furia omicida della sorella, fisica
nei confronti di
Chantal e a parole nei confronti di se stesso e degli astanti,
perché Elettra
sapeva bene come esasperare cose e persone con la sua parlantina.
-
Ele, per favore, – provò a placarla, invano.
-
…no, dico, l’hai vista? Fa la gattamorta, di nuovo
alla carica. Ti ha lasciato
due anni fa come uno straccio, non ti ho mai visto in quello stato,
stavi per
mollare armi e bagagli per rincorrerla in Francia o chissà
dove. E Dio solo sa
se ti sei mai ripreso! Non dirmi che sei ancora innamorato di lei o
giuro che
ti ammazzo con le mie mani! Diana, mamma sta scherzando, eh…
-
Elettra! – l’urlo di Achille zittì tre
coppie di passaggio, ma non colei per
cui era stato pronunciato.
-
…che c’è? – gridò,
infatti, lei in risposta. – Diciamo le cose come stanno,
nulla di nuovo!
Santa
Elettra
Quaresmini, protettrice della verità.
-
Nulla di nuovo per te, forse,
– le
fece notare il fratello, indicando con gli occhi la figura alle sue
spalle di
Azzurra, visibilmente confusa. Se ne stava mesta, racchiusa
nell’immaginario
abbraccio di Dalila e Sergio, che li avevano raggiunti giusto in tempo
per
godersi l’one woman show.
Achille si
pentì subito di essersi girato verso di lei: si sentiva nudo
come un verme,
spogliato dalla propria sorella – e già la cosa
gli faceva un certo ribrezzo –
davanti alla sua pseudo ragazza e ai suoi amici, riguardo il suo assai
poco
virile e lusinghiero passato di ameba piangente post rottura di una
relazione.
Chantal lo aveva davvero ridotto in pezzi, gli aveva fatto toccare con
mano e
sedere e schiena il fondo, aveva rappresentato il periodo
più bello e poi più
buio della sua vita sentimentale, dopo il pugno rifilato a Fabrizio
per… Elena?
Elisa? Quella là, insomma.
-
Oh. Oh! – Elettra riordinò i pezzi e comprese la
propria leggerezza: aveva
lasciato la piastra accesa a casa. E Achille la stava guardando in
cagnesco: lo
sapeva pure lui? – Che c’è?
-
Niente, – rispose scocciato.
-
Perché fai quella faccia, allora? – Achille scosse
la testa, passandosi una
mano sulla fronte con vigore. – Per quella? Ti dà
fastidio che tua sorella ti
metta di fronte alla realtà? È colpa mia se la
guardi famelico come se fosse
una ciambella superglassata, affogata in una gigantesca cioccolata
calda con
panna, ricoperta da gelato? Non so se mi sono spiegata bene…
-
C-cosa? – tentò di difendersi.
D’accordo, Chantal era una bella ragazza, ma lui
non la vedeva assolutamente come una ciambella! Le ciambelle erano
morbide e
soffici e lei era rigida e spigolosa, fisicamente quanto
nell’animo. Così in
forma da farlo sentire in colpa se non frequentava la palestra almeno
tre volte
a settimana, così stronza da abbandonarlo con un bigliettino
e la scatola piena
delle sue cose già sul pianerottolo, dopo mesi a discutere
di convivenza e
matrimonio. Azzurra, piuttosto, lei sì che era morbida.
Avrebbe voluto poter
dire che lo erano i suoi fianchi e magari anche più
giù, in prossimità del
monte di Venere, ma la realtà era che al momento poteva
dirlo solo del suo seno
e solo perché ci era inciampato casualmente
un paio di volte. La prima con il braccio, credendo di darle una
gomitata
leggera nelle costole dopo una battuta terribile; in base al rimbalzo
che il
suo braccio aveva ricevuto, era in grado di stimare una terza coppa b
molto
piacevole al tatto. La seconda era avvenuta con la mano, mentre
l’aiutava a
rimettersi il cappotto e… d’accordo, poteva non
essere stata del tutto casuale.
Azzurra aveva sorriso, lui si era scusato, lei era uscita dal suo
appartamento,
lui avrebbe voluto verificare di non aver creato danni con il gomito la
volta
precedente. Ma, a giudicare da come Elettra aveva ingarbugliato la
situazione,
probabilmente il dubbio gli sarebbe rimasto per sempre.
-
Una ciambella, Achille. Una ciambella, – ripeté la
sorella.
La
piccola Diana distrasse la madre per qualche istante, indicandole una
bancarella piena di bambole e giocattoli. Le due si spostarono di un
paio di
metri, lasciando il gruppo in un silenzio innaturale. Dalila si
schiarì la gola
e quel suono basso fu l’unica cosa che il gruppo
pronunciò in due minuti. In
sottofondo, una trita e ritrita Jingle
Bells accompagnava la strana quiete, attorniata da famiglie e
coppiette
felici in umore festivo. Achille era mortificato, Azzurra avrebbe solo
voluto
pestare i piedi e frignare – confermando di essere una quasi
trentenne del
tutto maturata – e gli ex coniugi De Carlis si domandavano
perché non se ne
fossero rimasti nelle loro rispettive case, a decorare
l’albero o mangiare pan
di zenzero davanti al fuoco scoppiettante.
-
Fa freddissimo, ho i piedi congelati. – Dalila ruppe
quell’inusuale momento di
stasi tra di loro. – Sergio, torniamo a casa?
Lui
arricciò il naso, sorpreso: aveva accettato quella
passeggiata in centro,
sfidando freddo e marmocchi urlanti, per cercare un vecchio libro nelle
bancarelle dell’usato e ora se ne volevano andare a
metà giro?
-
Ma non ho ancora visto la bancar… – il tacco dello
stivale della consorte d’un
tempo si abbatté contro la sua caviglia e distrusse anche il
più remoto e
timido accenno di protesta, – ahia! Andiamo.
-
Tesoro, ti diamo un passaggio noi, – aggiunse la donna,
prendendo sottobraccio
Azzurra, – così Achille e sua sorella hanno il
tempo di comprare il regalo.
Il
riccio respirò a fondo e finalmente si voltò di
nuovo verso di loro; non voleva
che se ne andassero, non voleva che se ne andasse lei,
soprattutto senza aver almeno provare a mettere una pezza alle
parole di Elettra.
-
No, aspettate. – li bloccò. – Mia
sorella se la può cavare benissimo anche da
sola. Sappiamo entrambi che comunque lo avrebbe scelto lei, il regalo.
La
accompagno io, se non vi dispiace.
Azzurra
si sganciò dal braccio di Dalila e annuì con il
capo; non sapeva esattamente
come si sentiva – era un misto di rabbia, umiliazione,
tristezza, sdegno e
istinti omicidi –, ma non voleva rischiare di allontanare
ulteriormente
Achille. Voleva fare la persona adulta. Sarebbe tornata a casa con lui.
Magari
dopo averlo pugnalato con la punta dell’albero da Natale.
-
Perfetto, – li salutarono i De Carlis. – Ciao
ragazzi!
Il
riccio si rivolse di nuovo ad Azzurra, indicandole col capo la bambina
che era
con Elettra.
-
Saluto mia nipote un attimo e arrivo.
-
Ciao zio Achi! – Achille la prese in braccio e la
riempì di baci sulle guance.
Diana rise, finse di non gradire tante attenzioni e poi si rivolse alla
strana
signorina che accompagnava lo zio. – Ciao.
-
Ciao, – la ragazza le sorrise in risposta.
-
Ficcanaso, questa è Azzurra. Azzurra, lei è Liana.
Achille
sembrava divertirsi parecchio a stuzzicarla e prenderla in giro e
sbagliare di
proposito il suo nome non fece altro che aumentare lo stato di cucciolosità della situazione
agli occhi
di Azzurra.
-
Mi chiamo Diana! – protestò la nipotina.
-
Oh, scusa, sai che mi sbaglio sempre. – La bimba mise il
broncio e gli morse la
punta del naso. – Ahia, ma una volta non davi solo pizzicotti?
-
È nella fase dei morsi, – spiegò
Elettra, avvicinandosi con una borsa di
plastica in mano. – Immagino che averle preso un cane che non
fa che
distruggermi tende e ciabatte abbia avuto una certa influenza.
– Sbuffò e
s’interessò alla graziosa giovincella che sembrava
nascondersi dietro le spalle
larghe di suo fratello. Oh, tesoro,
penserai mica di sfuggirmi? – Ciao, io sono
Elettra, sua sorella. Tu sei…?
-
Azzurra.
Si
tesero la mano e la più vecchia dei fratelli Quaresmini
prolungò la stretta,
nell’eventualità assai poco probabile che
ciò le potesse servire a captare
qualche informazione in più.
-
Quella Azzurra?
Achille
era di nuovo teso come una corda di violino: non era normale che la
sola
presenza di sua sorella lo inquietasse tanto!
-
Beh, immagino non ce ne siano molte altre in giro, – rispose
lui per Azzurra.
-
È un piacere conoscerti. Sei appena arrivata?
Magari.
-
No, purtroppo c’era anche prima, –
continuò il riccio.
-
Prima quando?
-
Prima, – disse laconico.
-
Oh. Prima. – Elettra per
poco non
fece cadere un piccolo presepe ecuadoregno con il braccio. Ops, forse
il moto
di assoluta verità che l’aveva colpita in presenza
di Chantal era stato udito
da terzi... – Perdonami, mi lascio sempre prendere un
po’ la mano.
-
Ce ne siamo accorti. Beh, per evitare che tu mi complichi ulteriormente
l’esistenza, noi ce ne andiamo. – Prese il
portafoglio e ne trasse due
banconote. – Eccoti trenta euro, nel caso non bastassero a
coprire la mia
quota, fammelo sapere. Ciao Liana.
La
bimba gli fece la linguaccia e una pernacchia, al quale lui rispose con
un occhiolino.
Era adorabile, ma se avesse permesso ad Azzurra di parlare con Elettra,
invece
che farlo al posto suo…
Prima
ancora di discutere della ciambella francese – in
realtà, prima ancora di
raggiugere la macchina parcheggiata –, Azzurra era furiosa.
Achille Quaresmini
era un bastardo; giocarsi la carta della nipotina piccola e paffuta e
mostrare
il suo lato più tenero e maledettamente efficace con i
bambini non avrebbe
funzionato. E con in testa quei ricci, poi! Pensava forse di raggirarla
con
tutta quella dolcezza? Nossignore, si sbagliava di grosso.
-
Mia sorella parla troppo, – si scusò con un
sorriso, chiudendo lo sportello
dell’auto. – Avrei voluto raccontartelo io, con
calma.
Con
calma? Cioè una
volta sposata, felice e cornuta?
-
Già, – gli rispose atona.
-
Sei arrabbiata?
Azzurra
si conficcò i denti nella lingua. Quella era in assoluto la
domanda che più
detestava le fosse fatta da parte del proprio partner. Era del parere
che se
qualcuno sentiva la necessità di porla, evidentemente era
perché sapeva di aver
fatto qualcosa di sbagliato.
-
No.
-
Mi odi?
Achille
stava seguendo il perfetto schema dell’uomo colpevole con
rimorso: tastare il
terreno, cercare di capire il tasso di scontrosità e di
rabbia della partner –
ricordandosi di tradurli nelle percentuali femminili, sempre molto
più alte e
meno ragionevoli di quelle maschili –, infine provare ad
abbassare tale tasso
con la faccia da cucciolo denutrito, bastonato e abbandonato sul ciglio
dell’autostrada nel giorno più torrido
dell’anno.
Peccato
che Azzurra non lo stesse guardando. Fissava dritta davanti a
sé, la borsa
sulle ginocchia e le gambe unite. Il riccio le diede una rapida
occhiata
rassegnata: era ufficiale, dopo la piazzata di sua sorella, non
c’era
possibilità di vederle aperte. Non per lui, quantomeno.
-
No, – disse secca.
Santo
cielo, basta con
quei monosillabi!
Achille li temeva come una minaccia
nucleare, perché sapeva che erano il preludio di una
imminente Terza Guerra
Mondiale, in cui lui avrebbe combattuto solo, contro il battaglione
armato di
Azzurra e di tutto il gentil sesso. Esclusa Chantal, forse.
-
Sei gelosa?
Lei
finalmente si girò verso di lui, soltanto per regalargli
un’occhiata indignata.
-
Ovvio che no, – le venne quasi da ridere al pensiero che lui
avesse anche solo
potuto concepire un’idea tanto assurda.
-
Perché non ne avresti motivo. Chantal è acqua
passata.
Azzurra
si morse un labbro dal nervoso. Ora il signorino si concedeva pure la
libertà
di chiamare quell’essere per nome. E lo aveva pure sbagliato,
perché Chantal si
scriveva: C h a c q u e t t a.
-
Okay.
-
È tutto a posto, quindi?
Nei
tuoi sogni, idiota.
-
Certo, – gli sorrise per una frazione di secondo,
controllando la strada.
Mancava poco più di un chilometro per giungere al suo
condominio in viale della
Quercia 27: bastava solo che al semaforo svoltasse a sinistra e poi
c’erano due
curve a gomito, dopo le quali cominciava la zona residenziale. Dai, premi quell’acceleratore! Mai
tragitto le era sembrato tanto lungo.
Ma
Achille girò a destra, lasciandola di stucco.
-
Andiamo da me? – le propose, mentre ingranava la terza.
Oh,
questa domanda proprio non se l’aspettava.
-
Preferisco tornare a casa.
-
Pensavo avremmo trascorso la serata insieme… – le
disse lui, di nuovo con quel
faccino da molosso dimenticato all’autogrill.
-
Sono stanca, – vacillò lei, subito – Ma
tu, se vuoi, esci pure.
Ed
eccola, la trappola: dargli la possibilità di essere libero,
o almeno
l’illusione di essa. La parte pregnante di quel ‘se vuoi’ era quella nascosta,
sottintesa. Come dire che sì, poteva,
magari anche voleva, ma la verità è che non
doveva.
-
Farò qualche chiamata, qualcosa troverò.
Arrivarono
ad una rotonda, alla quale Achille fece retro-front, diretto finalmente
verso
casa di lei. Azzurra dovette fare appello a tutto il self-control
possibile per
non sbranarlo a morsi, sulle orme tracciate dalla nipotina. Non capiva
se lui
la stesse deliberatamente provocando – e in ogni caso, non le
pareva nella
posizione di farlo –, o se fosse davvero
così… uomo da
non comprendere che l’unica cosa che lei – e dunque
la
legge – gli consentiva di fare era andare a casa, in castigo
in un angolo,
possibilmente munito di cilicio, a rimuginare sul proprio comportamento
e
implorare tutti i Santi al gran completo perché lei lo
perdonasse. Gli avrebbe
permesso anche di stracciarsi le vesti.
-
Ne sono sicura, – grugnì a denti stretti.
Stava
per esplodere, era stata fin troppo cortese e ora la sua pressione
interna
stava vertiginosamente aumentando.
-
Buonanotte, allora. Mi dai un bacio?
Lei
sgranò gli occhi: non poteva credere che lui glielo avesse
appena chiesto. Che
faccia tosta!
-
Ho il raffreddore, – disse lapidaria.
-
E da quando?
-
Da quando mi hai fatto aspettare fuori al freddo per parlare con la tua
amica.
Si
diede un pizzicotto sulla gamba per essersi lasciata sfuggire quel tono
acido e
sarcastico: stava andando così bene!
Achille
sorrise debolmente, sbirciando come le unghie della ragazza fossero
ormai
ficcate a nel povero sedile del lato passeggero. Ora lo sapeva con
certezza:
quella non era Azzurra, ma Gialla. Come la gelosia.
-
Non è una mia amica.
-
Come vuoi.
All’ennesimo
sbuffo di lei, il riccio si arrese; fino a quel momento ammetteva di
essersi
divertito a vederle dipinto negli occhi l’intera gamma dei
colori
dell’arcobaleno, corrispondenti ad altrettanti stati
d’animo, ma non voleva
correre il rischio che un banale incidente di percorso pregiudicasse
qualsiasi
cosa stesse nascendo tra di loro.
-
Trent, se hai qualche problema a riguardo, discutiamone.
-
Problema? Ti sembra che io abbia qualche problema?
Oddio,
queste domande a bruciapelo. Achille esitò: se avesse detto
di sì, come era
evidente che fosse, lei sarebbe andata su tutte le furie. Se avesse
detto di
no, lei avrebbe comunque trovato il modo di farlo risultare colpevole.
-
Mi sembra solo che questa situazione non ti lasci del tutto
indifferente.
Azzurra
lo guardò sorniona: questa gliel’aveva proprio
servita su un piatto d’argento.
-
Neanche a te.
Lui
accusò il colpo e abbandonò
la
diplomazia, in favore di un sano confronto tra persone civili e
ragionevoli.
-
Dimmelo, se sei arrabbiata. Anche se, francamente, non ne capisco la
ragione.
Stupidi,
ingenui uomini. Povero, lui non ne capiva la ragione. Lei aveva fatto
la figura
della stupida davanti a ex, famigliari ed amici, ma se lui non ne
capiva la
ragione…
-
Secondo te sono arrabbiata? Somiglio ad una che è
arrabbiata? Eh? No, dimmi!
-
Azzurra, calmati. Sinceramente sì.
Azzurra,
stai
tranquilla. Respira. Ti manca pochissimo perché lui se ne
vada e tu possa
prendertela col cassonetto, il lampione o con il primo malcapitato.
-
Tu non hai la minima idea di come sia una donna arrabbiata! Ed io non
sono una
cazzo di donna arrabbiata, hai capito? Buonanotte Achille, goditi la
tua libera
uscita!
Scese
dall’auto, non prima di essersi impigliata nella cintura di
sicurezza e aver
sbattuto la portiera così forte da far tremare
l’intera macchina, imprecando.
Achille impiegò qualche secondo, prima di comprendere
ciò che era appena
successo; la situazione era passata dall’essere un piccolo
battibecco quasi simpatico
ad uno litigio epico in meno di trenta secondi.
Era
quasi certo di aver sentito ‘Camembert
di
merda!’ – e l’idea che
l’uragano d’ira chiamato Azzurra lo avesse
effettivamente pronunciato non era così remota –,
ma decise di lasciar perdere,
darle tempo per sbollire il nervosismo e soprattutto consolarsi di
quella
futile litigata, divorando l’ultimo krapfen avanzato.
Lo
zucchero era senza dubbio la più potente delle droghe; e se
a ciò si aggiungeva
dell’olio di frittura e un’abbondante dose di
ripieno alla marmellata di
lamponi, beh… poteva anche morire in tutta
tranquillità di overdose glicemica.
Resistette fino a casa, ma, non appena appoggiato il sedere sul divano,
con una
mano agguantò il telecomando e con l’altro il
sacchetto della pasticceria ambulante.
Il secondo tempo della replica di una partita di serie A e il krapfen
furono in
grado di risollevargli l’umore, dopo un pomeriggio a dir poco
disastroso, tra
incontri indesiderati con ex, sorelle con logorrea e quasi fidanzate
mortalmente gelose e assolutamente indisposte ad ammetterlo. I dolci e
la Juve
dovevano essere state create proprio per questi momenti.
Il
bidet. Tutto ciò a cui riusciva a pensare Azzurra era che si
stava facendo
battere da una che non aveva neanche il bidet. Fino a quel momento,
l’arrivo
inaspettato della Chacquetta le
aveva
portato solo disavventure: un pomeriggio di shopping natalizio con
barboso
sottofondo musicale rovinato, trecento metri di percorso extra a piedi
con le
scarpe nuove – purtroppo non si era accertata di essere
già giunti sotto casa
sua, prima d’inscenare la drammatica discesa
dall’auto di Achille al semaforo –
e una barretta di autentico Toblerone
svizzero per lenire il dolore di piedi ed emotivo. In tutto questo,
poi, ciò
che davvero la infastidiva maggiormente era la consapevolezza di aver
dato
all’odiosa francesina un vantaggio non indifferente: Achille
– anzi, Achi –
era libero per tutta la serata, ‘senza
tutto quel reggimento’,
potenzialmente con il suo numero ancora salvato in
rubrica. No, non poteva permetterle di riprendersi la testa ricciuta di
Achille. A costo di tirarglielo addosso, quel dannato bidet.
Doveva
solo escogitare qualcosa per attirarlo. L’opzione dolci venne
scartata quasi
subito, nella testa di Azzurra rimbombavano ancora le parole di Elettra
circa
ciambelle, gelati e creme; di banche non sapeva nulla e tantomeno di
economia,
perciò eliminò la possibilità di
stupirlo con conoscenze e discussioni sulla
crisi o in generale su tutto ciò che aveva a che fare con il
suo lavoro. Dopo
ore di ragionamenti, non vide altra soluzione che accalappiare il
Pelide con
l’unica chance rimasta da giocare: il sesso. Ma non poteva
essere del banale
sesso – aveva sentito da qualche parte che le francesi
sapevano essere delle
zozzone a letto e non credeva che ciò dipendesse solo dalla
carenza di igiene
intima, causata dalla mancanza di bidet –, perciò,
almeno per una sera, si
sarebbe trasformata in Dita Von Teese e lo avrebbe sedotto. Se davvero
lui era
rimasto a bocca aperta davanti a Chantal, lei lo avrebbe fatto sbavare
come un
cucciolo di San Bernardo.
Rimaneva
soltanto da stabilire come riuscire
a
fare tutto ciò. Lettura del Kamasutra,
spettacoli di burlesque su Youtube,
era disposta perfino a guardare quei video vietati ai minori che
circolano su
internet. Chantal Bonaparte, o qualunque fosse il suo cognome, sarebbe
finita
in esilio come il suo trisavolo.
21.45.
Fabrizio sarebbe arrivato in meno di mezzora; era il caso di alzarsi
dal
divano, farsi una doccia e prepararsi. Il punto era che Achille era
maledettamente comodo lì, stravaccato sul sofà,
una gamba distesa e una
poggiata sul tavolino da caffè, insieme alla carcassa di una
confezione di
biscotti alle mele e una bottiglia di birra ancora mezza piena. Aveva
scoperto
che la combinazione biscotti e birra non era così fenomenale
come si era
presentata nella sua testa. Anzi, faceva piuttosto pena. Come lui dopo
sei ore
filate di televisione del resto. Raccolse sufficienti energie per
alzare il
fondoschiena e dirigersi in bagno, dove lo specchio non fu per nulla
clemente,
restituendogli un’immagine costituita da occhi rossi e
stanchi, capelli
indomabili e dotati di vita propria, vestiti stropicciati e occhiaie
profonde.
Signore
e signori, ecco
a voi Achille Quaresmini in versione senzatetto.
Si
lavò i denti per togliere quella sgradevole sensazione di
bocca impastata e si
fece una doccia bollente, che non sortì altro effetto che
intontirlo
ulteriormente. Avrebbe dovuto accorciarsi la barba, ma non ne aveva
voglia,
perciò tornò subito in camera da letto per
cercare qualcosa da mettersi. La sua
camicia a quadretti, ecco cos’avrebbe messo. La Leone, il suo
capo, aveva espresso
in tutte le smorfie possibili il suo disgusto per lo stile campagnolo
chic, ma
a lui piaceva… e vaffanculo alla Leone, era comunque
domenica.
Nel
momento in cui Fabri suonò il citofono, Achille stava
già indossando il
cappotto. Si mise la sciarpa, controllò di aver preso
portafoglio e chiavi e,
per ultimo, afferrò il cellulare. Lo infilò nella
tasca e uscì sulla tromba
delle scale, ma dopo poco cambiò idea e ritirò
fuori il telefono; voleva
scrivere qualcosa ad Azzurra. Sapeva che ce l’aveva con lui e
che probabilmente
non aveva intenzione di parlargli, però ciò non
toglieva che lui avesse voglia
di sentirla. Un sms non l’avrebbe uccisa, suvvia.
-
Non sono sicuro di sapere come siano
tutte le donne quando sono arrabbiate, ma so quando lo sei
tu…
Mise
via il cellulare, prese un respiro profondo e scese velocemente le
scale.
Quando
Fabrizio gli domandò in che
locale intendevano fermarsi per bere qualcosa, Achille era assorto nei
suoi
pensieri e gli venne spontaneo
rispondere il Tre di cuori. Si
trattava di un bar vicino al residence in cui Chantal aveva vissuto per
tutto
il periodo durante il quale era stata in Italia. Conosceva bene quel
posto, con
lei si era seduto al bancone grigio metallizzato centinaia di volte,
ordinando
sempre la stessa cosa, stabilendo una routine che si era illuso sarebbe
durata
per decenni. Dopo la loro rottura non ci aveva messo piede per un anno,
perché
tutto gli ricordava lei e, ad essere del tutto sinceri, i cocktail
erano
annacquati e il cibo non un granché. Finché
c’era stata lei, però, non gliene
era importato molto; gli piaceva sedersi sugli sgabelli, sgranocchiare
patatine
e salatini, mentre Chantal gli raccontava la sua giornata, imprecando
in
francese contro i galleristi che la consideravano una ragazzina ricca e
viziata.
Lui la guardava infuriarsi per quella che sapeva essere la pura
verità: i
signori Delacourt – che aveva incontrato solo in rare
occasioni – erano due
collezionisti d’arte provenienti entrambi da famiglie
facoltose, nella vita non
avevano fatto altro che prestare opere di loro proprietà a
grandi mostre
internazionali, o vendere qualche quadro in cambio di altri. Il
patrimonio dei
loro avi era sufficiente a mantenere almeno quattro o cinque
generazioni
future. Grazie a Dio, Chantal non era così; aveva studiato
storia dell’arte
all’università e poi si era trasferita in Italia,
per vedere e toccare con mano
quello che i manuali di pittura, di scultura e architettura le avevano
solo
mostrato per immagini e parole. Aveva sempre cercato di fare trovarsi
qualche
lavoretto, i soldi erano dei suoi genitori, non i suoi. Achille amava
quel suo
spirito d’indipendenza, quella voglia di farcela con le
proprie forze, a
dispetto della facilità con cui il suo cognome avrebbe
potuto aprirle porte e
portoni. Purtroppo, quello stesso spirito d’indipendenza ero
lo stesso che le
aveva permesso di alzarsi un giorno e decidere che no, la prospettiva
di un
matrimonio e una famiglia non faceva per lei, così come
l’Italia o tantomeno
Achille. Era tornata in Francia, dai suoi, dal lavoro che le avevano
offerto
per convincerla a lasciare un bancario senza troppe prospettive di
guadagno e
un Paese straniero. L’avevano comprata e, soprattutto, lei si
era lasciata
comprare.
Quando
Achille era rientrato al Tre di cuori,
ormai erano cambiate molte cose; il barman, innanzitutto. E il colore
delle
pareti. E il fatto che fosse con un uomo, invece che con una donna, ma
non
perché avesse cambiato orientamento sessuale. Ci tornava una
volta ogni tanto,
sempre e soltanto con amici; non ci aveva mai portato una ragazza, non
dopo
Chantal. Scegliendo quel locale proprio quella sera, Achille era
cosciente che
una parte di sé temeva di rincontrarla lì. O
sperava.
-
Birra? – gli chiese Fabrizio.
Non
c’erano biscotti al bar, perciò la birra poteva
andare. Mentre lui si sedeva ad
un tavolino, l’amico si allontanò per raggiungere
il bancone ed ordinare per
entrambi e pagare il primo giro. Prevedeva che ce ne sarebbero stati
molti
altri: le donne della sua vita erano un casino totale; Chantal era
tornata, Elettra
non era in grado di farsi i cazzi suoi, Azzurra non voleva parlargli.
L’unica
che si salvava era Diana, ma le conversazioni con lei si limitavano ai
rapporti
ambigui tra Ken, Barbie e Skipper e alla complicata doppia vita di Hannah Montana.
Il
cellulare suonò dall’interno della tasca: una
nuvoletta sullo schermo gli
annunciava che Azzurra aveva finalmente risposto al messaggio.
-
Ho un po’ esagerato,
mi spiace. Diciamo che ero alterata, ma certamente non per quella!
È solo che
faceva freddo, i neuroni si erano congelati…
Achille
si stupì di una tale disponibilità al dialogo;
alzò un sopracciglio dallo
stupore, rileggendo per la quinta volta l’ammissione di
essere stata in errore.
Azzurra Trentini, donna, aveva appena detto di aver sbagliato.
C’erano persino
delle scuse, sottese. Dove stava la fregatura? Decise di mangiare la
foglia,
cercando di volgere la situazione a suo favore.
-
Spero non gli ormoni,
però.
Non
appena posò il cellulare, una bottiglia di birra gli
scivolò nella mano. Non
era della marca che lui e Fabri erano soliti bere. Si
soffermò un attimo in più
a fissare il vetro freddo tra le sue dita.
-
Rimpiango i giorni in cui bastava dire ‘il
solito’ e Pippo ci portava una Corona
per me e una Heineken ghiacciata
per
te.
Chantal
gli si sedette accanto, poggiando gli avambracci sul tavolino. Achille
lanciò
un’occhiata al bancone, dove Fabri si stava intrattenendo con
una bionda
formosa e sconosciuta. Mollò la presa sulla birra e si
sfregò le mani sulle
cosce.
-
Sono passati anni, è cambiata anche la gestione.
-
È un peccato.
Achille
si strinse nella spalle.
-
È la vita.
Chantal
mise le sue mani su quelle di lui. Il cellulare suonò
nuovamente sul tavolo
e Achille
ringraziò colui o colei che
stava cercando di contattarlo, togliendolo da un
bell’impiccio. Chantal lesse
il mittente del messaggio senza pensare minimamente che non fossero
affari
suoi. Il riccio lo lesse veloce e lo mise in tasca.
-
…quelli stanno benissimo. Che ne
dici di
controllare domani sera a casa mia? Diciamo per le 9…
-
Azzurra è la tua fidanzata?
Achille
soppesò attentamente le parole; capiva che il destino di
quella conversazione
dipendeva da quella risposta. Non voleva mentirle, ma non voleva
neppure che
lei se ne andasse; dopotutto e nonostante tutto, lei era Chantal e
andando
indietro nel tempo di qualche anno, lui avrebbe pagato oro pur di avere
l’occasione di starsene seduti a parlare ancora una volta al Tre di cuori come se niente fosse
accaduto.
-
No, – disse semplicemente, sperando di non aver appena fatto
un torto ad
Azzurra.
Chantal
afferrò la birra e ne bevve un sorso.
-
Non posso dire di esserne dispiaciuta.
Catturò
tra l’indice uno dei ricci del ragazzo. Lui rimase per un
attimo a corto di
parole, incerto su cosa dire; era così inopportuna,
così fuori luogo… non
poteva davvero credere di tornare dopo anni e pretendere di riprendere
da dove
avevano interrotto. Da dove aveva interrotto.
E se aveva intenzione di giocare ancora, come in fondo, con il senno di
poi,
Achille aveva realizzato che lei aveva sempre fatto, allora era persino
più
crudele e meschina di quanto ricordasse.
Chantal
notò la sua distrazione e provò ad aiutarlo
nell’unico modo in cui era capace
di risolvere i problemi: gli impedì di pensare
nell’istante stesso in cui lo
baciò.
|