Epilogo.
Uscii
dalla
libreria e chiusi la porta a chiave. Mi accesi una sigaretta. Era una
giornata
cupa, di quelle in cui il cielo è bianco e gli occhiali da
sole ti servirebbero
anche se di sole non ce n’è nemmeno
l’ombra. Strizzai gli occhi, infastidito.
Magari avrebbe piovuto. Sinceramente lo speravo: non avevo mai adorato
il caldo
umido di Agosto. Non avevo voglia di tornare a casa, sapevo che Rachel
aveva
organizzato una festa a sorpresa per il mio compleanno. Non era mai
stata brava
a nascondere le cose, e infatti nel suo cassetto dell’intimo
avevo trovato una
lista, una delle tante che era solita comporre, e un punto mi era
saltato
all’occhio: festa Seth. Pensavo fosse un gesto carino da
parte sua, voler
festeggiare con tutti i nostri amici i miei trentacinque anni. E io che
pensavo
sarei morto sotto un ponte, appena superati i vent’anni, per
via di tutta
quella droga. Avevo un sospetto, che tanto sospetto non era, dato il
tremolio
alle mani che mi perseguitava, di essermi bruciato qualche cosa nel
cervello.
Ma infine vedi sempre tutto da un’altra prospettiva, quando
hai vent’anni e non
sai come salvarti. Decidi che se nessuno lo farà al posto
tuo, tu ti lascerai
andare, tu non farai assolutamente nulla. E invece lei
mi aveva salvato.
Avevo
visto
Evie l’ultima volta qualche anno prima, quando ancora non
avevo conosciuto
Rachel, mia moglie, in un supermercato. Non l’avevo
riconosciuta subito, era
cambiata molto, con gli anni. I capelli, lunghi fino alla base della
schiena,
li aveva tinti di nero (il giorno del suo
diciottesimo compleanno, in camera sua, un muffin comprato al bar
all’angolo
sulle lenzuola, con solo la biancheria addosso, le canticchiavo
all’orecchio
‘tanti auguri a te’ soffiandole fra i capelli rosso
stinto che le arrivavano
alle spalle), il corpo, fasciato da un abito da lavoro blu
scuro, era
maturato, e sebbene fosse ancora magro, aveva l’aspetto sano (il giorno del suo diciottesimo compleanno,
in camera sua, un muffin comprato al bar all’angolo sulle
lenzuola, con solo la
biancheria addosso, le accarezzavo la pancia con le dita, sentendo la
pelle
cambiare aspetto, diventare come la buccia del limone, e capivo, lo
capivo
dalla sua pelle, che mi amava). Le gambe, quelle le erano
rimaste uguali:
lunghe e smilze, del genere che si avvicina alla perfezione (il giorno del suo diciottesimo compleanno,
in camera sua, un muffin comprato al bar all’angolo sulle
lenzuola, con solo la
biancheria addosso, posavo gli occhi sulle sue cosce sfregiate, e mi
ripetevo
che non era colpa mia, che non era colpa mia, che davvero, non era
colpa mia). Da dove mi
trovavo potevo osservarle
anche il volto: i lineamenti duri e seri, le labbra piene e le ciglia
lunghe.
La trovai cambiata, ma riconoscevo in lei tutto di quella ragazzina che
avevo
amato fino a farmi male, letteralmente. Mi ero avvicinato a lei,
indeciso se
chiamarla, oppure rimanere ad ammirarla, seppure più da
vicino, ma lei aveva
alzato lo sguardo e mi aveva trovato lì, con una felpa
grigia pendente sulle
spalle e le scarpe sportive ai piedi. Mi aveva sorriso, e accostatasi a
me, mi
aveva lasciato sulla guancia un bacio, senza alzarsi sulle punte, come
faceva
un tempo, a causa delle scarpe con i tacchi che indossava. Aveva detto «ciao»,
io gli avevo risposto lo stesso. Era
diventata un avvocato, mi disse, ed era per quello, che la vedevo
vestita in
quel modo, perché a lei piacevano ancora le calze e le
maglie lunghe come una
volta, mi spiegò. Le dissi che lavoravo nella libreria del
centro, quella in cui
andavamo sempre insieme, e dopo aver sorriso, disse che di tempo per
leggere ne
aveva davvero poco, ormai. Affermai che era una cosa triste, e lei
annuì, per
poi guardarsi i piedi. Le chiesi se era sposata – portava una
fedina al dito e
io non me ne intendevo molto né di matrimoni, né
di anelli – ma lei scosse la
testa e disse che stava davvero bene, ora. Domandò di mio
fratello, come stava
e se era riuscito poi a metterla incinta, quella ragazza che amava
tanto.
Scoppiai a ridere: mio fratello l’aveva abbandonata dopo il
terzo figlio. Disse
che era proprio da lui, e rise con me. Volli chiederle dei suoi
genitori, e lei
si fece scura in volto, rispondendo poi che non li aveva più
visti, da quando
se n’era andata di casa, insieme a me. Mi vennero in mente
subito i mesi
passati dentro quel piccolo appartamento malsano, e sebbene avessi
dovuto
ricordare le litigate, che in quel periodo erano all’ordine
del giorno,
l’immagine che mi apparse fu quella di noi, seduti sul
divano, a mangiare
cereali perché senza un soldo, la sua testa posata sulla
mia, una canzone degli
anni sessanta che usciva dalle casse dello stereo
nell’angolo. Prima di
andarmene da quel supermercato l’avevo abbracciata,
sussurrandole all’orecchio
la parole che probabilmente le avevo detto più spesso «grazie».
Dovevo ringraziarla per aver passato con me il periodo più
brutto della mia, e
per avermi fatto uscire da esso amandomi come nessuno aveva mai fatto.
A
guardarla bene, a guardare quell’Evie che non assomigliava
alla mia Evie, mi
dissi che l’amavo ancora, l’avevo sempre amata (anche quando mi aveva puntato la pistola alla
tempia, quando eravamo
fatti, stra-fatti, in quel periodo buio che aveva seguito un altro
periodo
buio, e mi aveva supplicato di andarmene, per poi cercarmi due giorni
dopo, chiedendomi
di scomparire con lei dentro un
letto) e probabilmente l’avrei sempre amata. Anche
in quel momento mi
ripetei che era riuscita a salvarmi, era riuscita a salvarsi, era
riuscita a
salvarci entrambi.
Ora,
che di
anni ne avevo trentacinque, non mi drogavo più e amavo
un’altra donna che mi
stava aspettando a casa, avrei tanto voluto vedere Evie. Magari davanti
una
tazza di caffè, per chiederle come le stava andando il
lavoro e magari
regalarle un libro, magari ripensare a quella volta in cui ci eravamo
lasciati
perché finalmente eravamo cresciuti, e anche se non stavamo
ancora bene,
sapevamo che saremmo andati avanti, che ce l’avremmo fatta.
Avrei tanto voluto
vedere Evie.
E
la vidi.
Vidi i suoi capelli neri, i suoi occhi verdi, le sue labbra carnose
dischiuse,
ad accennare uno strano sorriso, i suoi zigomi alti. La sigaretta mi
scivolò
fra le dita, i piedi cominciarono a muoversi da soli. Fissavo la sua
foto, e mi
dicevo che non era possibile. Mi dicevo che non stavo davvero guardando
la sua
epigrafe, che non stavo davvero leggendo che era morta. Un signore,
fermatosi
affianco a me, un vassoio in mano, mi chiese se la conoscevo. Annuii,
incapace
di parlare. Disse che era morta in un incidente d’auto, che
non era stata colpa
sua ma del conducente che viaggiava nella direzione opposta, ubriaco
fradicio.
Disse che ogni mattina entrava nel suo bar, con il sorriso,
incespicando sui
suoi passi perché, come diceva sempre lei, odiava quelle
maledette scarpe con i
tacchi.
E
la vidi,
vidi di nuovo l’Evie fragile, quella che si sognava le urla
di sua madre
durante la notte e poi mi stringeva forte, impaurita. Vidi i lividi sul
suo
corpo quando, in quel giorno che si era presentata davanti casa, mi
disse che
quella volta non era stata colpa sua. Vidi il sorriso sul suo volto,
nei giorni
del suo, di compleanno, quando scartava i pacchetti e sapeva di
già che le
avrei regalato dei libri. Vidi l’Evie diplomata con il
massimo dei voti, che mi
diceva che ora si sarebbe meritata un premio. Vidi le sue lacrime, le
sue calze
bucate, i capelli rossi, i capelli neri, la sua mano fra la mia, le sue
spalle,
le costole che le bucavano la pelle, lei dentro una vasca,
l’acqua gelata che
la faceva tremare, una pistola puntata male, una pasticca sulla lingua,
lei che
si guardava la pancia allo specchio perché c’era
una vita che le nasceva
dentro, le sue lacrime quando aveva scoperto che quel bambino non
c’era più.
Vidi Evie, la ragazza che avevo amato, la donna che avrei amato per
sempre.
Mi
scese una
lacrima, e allungata una mano, accarezzai la sua foto con le dita,
lentamente,
con leggerezza, come se fosse ancora fragile, come se fosse ancora
quella che
avevo conosciuto su quella terrazza. Ma sapevo benissimo che era
diventata una
donna forte. E sorrisi. Sorrisi perché era proprio vero che
la vita era una
puttana.
Lasciai
suonare a vuoto il telefono, mentre camminavo verso casa. Presi le
chiavi dal
mazzo, e aprii la porta. C’era ancora il suo profumo
impregnato nelle pareti,
nella stoffa del divano in cui mangiavamo i cereali,
nell’aria di quel posto
che non ero mai riuscito ad abbandonare, quel posto che avevo
acquistato quando
ci eravamo lasciati. Ci eravamo lasciati perché ci eravamo
salvati. Eppure ci
amavamo ancora. Lo avevo visto negli occhi dell’Evie del
supermercato, che mi
amava ancora. E allora lo feci: mi avvicinai al mobiletto
dell’entrata,
estrassi la pistola e me la puntai alla tempia. Ci eravamo sempre
salvati a
vicenda, io e lei. Sparai.
Tempo di ringraziamenti.
Ringrazio
Alice
(Noneoftheabove_) che, da quel che ho capito, ha amato questa storia
davvero
tanto: graziegraziegrazie, è bello scrivere se persone come
te sono disposte a
leggere.
Ringrazio Michela
e Stefano, che mi sostengono sempre quando me ne esco fuori con
“ho iniziato
una nuova storia”. Sono sicura alzino gli occhi al cielo ogni
volta, ma va bene
così.
Ringrazio
tutte le persone che hanno letto, recensito, quelle che hanno messo la
storia
tra le seguite o le preferite: siete delle personcine meravigliose e
finirete
in paradiso.
Infine ringrazio
Evie e Seth, che mi hanno fatto piangere come una cretina nella stesura
di
questo ultimo capitolo. Non prendetemi per pazza, lo so che li ho fatti
morire
io, ma io me li ero sempre immaginati così, un po’
alla Romeo e Giulietta, “a pair of
star-cross’d lovers”, diceva
Shakespeare. Io me lo ero sempre immaginati così: destinati
a farsi del male, a
salvarsi a vicenda, a morire per il loro amore. E adesso di preciso non
so
quanti di voi mi odino per questo finale a sorpresa, ma era
così che doveva
andare. Quindi li ringrazio, i protagonisti della mia storia,
perché sono stati
due miei amici, che ho visto crescere in mezzo a tanto dolore. Proprio
per
questo motivo sono sicura che prima o poi scriverò di nuovo
di loro, magari
narrando qualche fatto non scritto in questi capitoli, o non lo so,
approfondendone
qualche altro, quindi non dimenticatevi di loro.
Ora me ne
vado, voi come sempre fatemi sapere che cosa ne pensate. *Deborah fa
ciao ciao
con la manina*
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