Era
un mattino uggioso, grigio, apatico. Uno dei tanti che aveva imparato a
sentire. Una cortina poco rassicurante di pioggia permeava l'aria,
gravida di un senso antico, arsa dalla malinconia. Era straziante
rimanere imbabolato lì a seguire con lo sguardo quella
trafila interminabile di volti infantili tutti puntati, a loro volta,
sul suo. Si costrinse a mostrare un sorriso rassicurante, caldo, ma
l'accusa che leggeva nei piccoli occhi scuri della marmaglia dirimpetto
era inquietante, il verme del senso di colpa strisciava lento nel suo
basso ventre, lasciando che la sua bava salisse a formare un nodoso
groppo in gola. Distolse l'attenzione, torcendo e martoriando le mani
tra loro mentre il padre terminava il suo lungo sermone. Qualcuno
tossì alle sue spalle, e per un attimo si accorse che stava
trasalendo. Scosse il capo, un movimento indefinito e vacuo in quel
torpore grigio. Tornò ad adocchiare la fila di bambini
dell'orfanotrofio radunati a salutarlo. Si morse il labbro. Gli occhi
continuavano ad essere puntati sul suo volto ben rasato. Erano neri, e
una scia scura scendeva sbavando a macchiare le loro guance pallide,
quasi diafane in quel contesto grigio ed effimero. Ancora un refuso di
tosse alle sue spalle, non sapeva dire se fosse genuina.
Ipotizzò che qualcuno stesse semplicemente cercando di
dissimulare il suo disinteresse per la pratica burocratica che si stava
avviando al suo termine.
Deglutì,
le ultime parole, così basse e vibranti del padre, parvero
graffiare corde delicate all'interno della sua memoria, lasciandole
vibrare.
«Ora
da bravi, miei cari, salutate il vostro salvatore.» Il
sorriso della donna era falso, e dovette aggrottare la fronte e tentare
un ghigno poco convinto per dimostrare la sua buona volontà
alla schiera di bimbi lì radunati. La pioggia continuava a
battere, le sbavature sulle guance degli infanti si facevano
più intense, gli occhi più neri, vuoti pozzi che
l'anima aveva già abbandonato anzitempo.
Provò
a fare ciao con la mano, un tuono scosse le radici della terra,
l'edificio dal tetto spiovente che incombeva sulle loro teste si
illuminò in quel grigio lucore, mentre l'uomo alle sue
spalle continuava a tossire, ora insistentemente. Si
puntellò sui piedi nella fitta trama di gocce che solcavano
il suo viso, provò un'ultima volta a scambiare un'occhiata
con uno dei bimbi lì radunati. Odio. Incomprensione. Apatia.
Scosse
il capo, distendendosi con deliberata flemma sulla superficie polverosa
della Luna. I ricordi affioravano numerosi come pigre lumache
nell'umidità dell'uragano. La Terra da lì era una
grande, approssimativa sfera che fluttuava nell'oscurità,
illuminata con insistenza dal Sole lontano, remoto, perso.
Sulle
sue labbra prese vita un sorriso sarcastico, il respiro artificiale
all'interno della tuta che ne celava le fattezze in quell'oceano immoto
si fece cupo, smorzato, mentre ridacchiava, e lo sbalzo rischiava di
mandarlo a fluttuare lentamente nella leggera atmosfera lunare. Si
sforzò di alzare lo sguardo all'immenso nulla che aveva
attorno. Uno sconfinato mare di crateri e di buio trapunto di bagliori
ammiccanti. Era sublime godere della danza ancestrale dei
corpi celesti da un punto così privilegiato. Egli era il Re
che adocchiava soddisfatto dalla postazione migliore dell'anfiteatro la
rappresentazione che si consumava dabbasso. L'orgoglio pareva scivolare
lungo acquiescenti tentacoli attorno alla sua figura ancorata alla
polverosa superficie del satellite.
Socchiuse
gli occhi, da qualche parte, sornione, il Sole lanciava i suoi
inopportuni messaggi. Come a gridare "Ehi! Ci sono anch'io!"
Scosse
il capo.
L'ennesima
mattinata uggiosa, lo testimoniavano i pochi raggi solari che
filtravano dalle calde tende grigio scuro. Su ogni cosa pareva
torreggiare una fitta cappa di polvere vorticante e scintillante nel
riflesso plumbeo della luce. Stava parlando, parlando ad una platea di
gente anonima, che lo fissava stralunata, gli occhi neri, vuoti, che si
posavano nei suoi nei rari momenti in cui alzava lo sguardo a
sciorinare la sua lunga trafila di parole insensate. La polvere
scintillante pareva attecchire sui volti grigi della gente, lasciando
una scia scura, come se ognuno di loro avesse adagiato sulle palpebre
del trucco scadente che ora andava sbavando. Qualcuno tossì
alle sue spalle. Ipotizzò fosse il presidente. Scosse il
capo e riprese nel suo tortuoso monologo. Aveva sviluppato un prototipo
di veicolo in grado di solcare lo spazio, e da lì a breve
l'avrebbe testato personalmente. Le sovvenzioni degli Stati, gli
investimenti di chi aveva creduto in lui, la forza di
volontà, una commistione perfetta che aveva portato i suoi
frutti. Era la rivoluzione di un'era. La liberazione dalle catene
dell'ignoranza di un mondo intero. «Siamo
pronti...» stava bellamente spiegando, l'aria sicura dipinta
sul volto, «... Ad inaugurare una nuova epoca. Un'epoca priva
del disfattismo politico, in cui ognuno di noi possa sperimentare la
libertà, la conoscenza, toccare con mano le fonti della
natura, andare oltre i propri limiti di uomo. In concomitanza col
progetto del Dipartimento di Tecnologia...» Ancora un colpo
di tosse, ma non si volse. Aveva comunque perso il filo del discorso e
fu costretto a fare una pausa, adocchiando un attimo indeciso la
platea. Odio. Incomprensione. Apatia... Accusa?
La
gente non comprendeva, si disse.
Ma
che i fantasmi della scelta che aveva compiuto si ripresentassero in
modo così pressante nella sua mente non voleva accettarlo.
Come avrebbe potuto? Ora poteva finalmente godere di quel momento
estatico, magico, vibrante. Di lì a breve sarebbe rimasto
l'unico essere umano esistente. Una preziosa reliquia di un mondo che
stava per dissolversi in un attimo. Spostò lo sguardo
nell'immensità dell'universo, ed il cosmo rispose alla sua
attenzione pulsando, benevolo. E fu in quel momento che la vide.
Maestoso Pegaso, portatore di Giustizia Divina. Sfrecciava lontano,
determinata, ben disposta su quell'immaginario binario che correva
dritto verso la sfera multicolore che aveva di fronte. Il sorriso si
allargò, ma non conservava più quell'aura di
fredda comprensione, di distaccato rimorso. Era il sorriso di chi
sapeva di fruire di un'occasione unica. Portò gli occhi
sulla Terra, guardandola come chi adocchia per gli ultimi, struggenti
minuti, la sua vecchia casa, pronto a cambiare vita, pronto a
trasferirsi in altri luoghi, a visitare altri posti, ad abbracciare
nuovi ricordi e ad abbandonarne di vecchi, consunti, malvisti.
Stava
sistemando uno dei reattori principali della navicella nella maestosa
Hall del Centro di Ricerca e Sviluppo. Vi era un silenzio tranquillo,
perfetto per proseguire nel lavoro di una vita. Il grigio regnava ormai
ovunque, non c'era traccia di colore alcuno lungo la sala, ma
probabilmente, si disse vago, si trattava solo di una sua impressione.
Che il lavoro lo stesse facendo diventare daltonico? Alzò lo
sguardo per detergere il sudore, notando solo ora le ultime modifiche
architetturali dell'edificio. Sembrava davvero crollato, pieno di massi
e macerie, devastato dall'onda d'urto di qualcosa di mostruoso.
Seguitò a sorridere, mentre qualcuno tossiva alle sue
spalle. Era davvero particolare assistere all'evoluzione della
tecnologia. Il risultato di quella ristrutturazione era così
pressante, che quasi credeva di essere davvero l'ultimo esponente di
una razza estinta. Scosse il capo, il reattore si produsse in una bassa
vibrazione, esattamente come aveva previsto. Doveva caricare gli ioni
bipolari e permettere la scissione dei protoni lungo l'asse circuitale.
Annuì, soddisfatto. Ma qualcuno dovette interromperlo
bruscamente. Una voce densa, gravata dal peso degli anni
risuonò spezzando l'idillico silenzio. Quando
abbassò lo sguardo, il cadavere dell'anziano dottore ai suoi
piedi ricambiò l'occhiata. Il duo oculare era spettrale,
completamente nero, un abisso senza fine che avrebbe rischiato di
inghiottirlo. E nella polvere che pareva averlo ricoperto per decine di
anni, una scia scura, come di trucco sbavato, si dipanava grottesca
dagli occhi, scendendo sulle guance, macchiando quel volto grigio,
vecchio, consumato.
«Devi
permetterci di riprodurre il tuo prototipo in serie. Ne va della specie
umana, fratello mio. Mi fido di te.»
Lo
scrutò con disprezzo.
«E
concedere a migliaia di persone di godere della mia sensazionale
scoperta? Non prendermi in giro, non c'è nessun meteorite
che minaccia la Terra. E poi, anche se fosse, ci sono miriadi di
soluzioni alternative. Con questa posso diventare ricco!»
Il
cadavere del dottore, in quel mare grigio, non rispose, limitandosi a
tenere i suoi occhi carichi d'accusa nei suoi, che dovette distogliere
lo sguardo deglutendo, aggrottando la fronte.
Odio.
Incomprensione. Apatia. Accusa.
Ma
lui NON ERA il colpevole. Lo erano quei bastardi che volevano lucrare
sul suo progetto! Lui non aveva deciso della venuta del meteorite.
"Non
ci sono alternative. Lo sai bene. Sei la nostra unica speranza."
Il
sorriso estatico mutò, vibrando un attimo, come indeciso se
permanere su quel viso nascosto.
Adocchiò
il meteorite, ormai un imponente corpo gigantesco indirizzato, senza
esitazioni, verso quella sfera imprecisa che, ruotando, iniziava a
mostrare ora il suo lato scuro. Luci si accendevano a milioni su quella
superficie. Speranza?
Il
Sole seguitava ad assistere indefesso a quello spettacolo da miliardi
di anni. Il verde, l'azzurro, il rosso, sfumature sottili, maestose.
"Sono
l'unico!"
Tornò
a sorridere quel ghigno perverso che ne scavò il volto, gli
occhi incavati, malati, sciupati, mentre assisteva leccandosi i denti
allo spettacolo ultimo.
L'ultimo
atto della vita umana sulla Terra.
L'ultimo
atto dell'uomo.
L'impatto
fu silenzioso, eppure poté leggervi tutta la furia di uno
schianto senza pari. Si alzò in piedi, fluttuando
nell'atmosfera rarefatta della Luna. La sua nuova casa. Era lui
l'ultimo rimasto. Lui soltanto.
Ed
era un privilegio!
Esultò,
alzando le braccia all'immensità astrale. Una vibrazione
raggiunse le orecchie coperte dal casco sferico.
Qualcuno
tossiva alle sue spalle.
Si
voltò, terrorizzato dall'idea di non aver calcolato tutto a
dovere. Dinanzi a lui, le reliquie di un passato ormai perduto si
fecero avanti, immobili. Bambini, uomini seduti ed il dottore.
Stillavano la loro pesante accusa, lo condannavano ad un'esistenza
obliata. Si accorse che stava tossendo. Cercava di dissimulare i sensi
di colpa?
Guardandoli
in volto uno ad uno, ascoltò il rumore della sicura
pressurizzata del casco che si sganciava.
E
fluttuò nell'immensità dell'universo, due sottili
tracce scure che solcavano le guance grigie, come se avesse adagiato
sulle palpebre del trucco scadente che ora andava sbavando.
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