1 long reborn
IL
SENTIERO DELLE FOGLIE SECCHE
Qualcuno
diceva: ha qualcosa addosso, come una specie di infelicità
(A. Baricco, Seta)
Per arrivare a scuola doveva percorrere un lungo viale alberato.
Durante l' autunno i rami degli alberi sembravano più
lunghi,
più scheletrici.
A volte aveva come l' impressione che si allungassero su di
lui nel
tentativo di afferrarlo, che si muovessero.
Quel sentiero gli incuteva
un certo timore, specie nelle giornate più uggiose e
cupe, quando Namimori veniva coperta da un velo di nubi fuligginose.
In realtà, se avesse fatto una fotografia a
quella strada e l' avesse sviluppata, avrebbe potuto definirla bella.
Un po' malinconica e un po' romantica. Di una dolcezza e di un torpore
infiniti.
Tuttavia ogni mattina Takeshi la
attraversava a passo svelto, ignorando gli alberi e camminando a testa
alta con lo sguardo fisso verso la fine.
Sentiva scricchiolare le
foglie secche sotto le scarpe da ginnastica.
Inizialmente quel rumore
-quel crack che sapeva di rotto- lo infastidiva, poi aveva preso ad
utilizzare un paio di cuffie aumentando al massimo il volume del suo
mp4 un po' vissuto.
Il rumore delle cose che si rompevano -il vaso che cade per terra, un
vetro che va in frantumi, la matita che si spezza- lo infastidiva
profondamente.
Ciò che si rompe non può essere
aggiustato, lo aveva capito da un pezzo.
Lo aveva capito da piccolo quando sua madre aveva fatto la valigia e se
ne era andata senza guardarlo.
In quell' occasione aveva guardato suo padre con un' aria
interrogativa e preoccupata. Il genitore gli aveva regalato un sorriso
malfermo dicendo di non preoccuparsi.
Gli aveva scompigliato i capelli scuri e gli aveva detto:- Tu li
conosci gli eroi, vero Takeshi?
Aveva annuito e il padre allora aveva continuato.
-Bene, la tua mamma è come un' eroina. Lo è di
sicuro. E
lo sai, gli eroi non possono stare tanto a casa perchè il
mondo
ha bisogno di loro. Devono correre tutto il giorno qua e là,
poverini. Oggi al Polo Nord e domani al Sud, a colazione sono in Russia
e a pranzo in Turchia perchè c' è sempre qualcuno
che
chiede aiuto. La mamma proprio ieri è stata promossa per
essere
il capo di una squadra di eroi.
All' epoca non sapeva dove fosse la Turchia e nemmeno la Russia, ma
aveva capito che erano posti lontani.
-E... quindi non viene più?- aveva domandato poco convinto.
-Se il mondo non ha bisogno di lei, verrà.- quel
"verrà"
gli era sembrato detto a denti stretti, in modo un po' forzato e
stentato. Come
se quella parolina non volesse uscire dalla bocca del padre- Devi
essere orgoglioso della tua mamma. Non tutti i bambini possono dire di
avere una super mamma che salva il mondo e noi non dobbiamo essere
egoisti.
Takeshi aveva sospirato e ci aveva creduto.
Quando accendeva la
televisione sperava di vedere il volto della sua mamma mentre
combatteva accanto a Batman o all' Uomo ragno.
Ma non era mai successo.
Un po' il cuore gli si era gonfiato di orgoglio ma di certo prevaleva
un enorme dispiacere che si era andato sempre più
accentuando
col passare dei giorni e dei mesi. E poi degli anni.
Gli sarebbe bastato vederla anche solo una volta, per cinque minuti.
Ma un eroe è veramente così impegnato?
Allora aveva provato a chiedere aiuto. Gridava "Aiutami super mamma,
aiutami!" ma non succedeva niente, quindi aveva pensato che forse
doveva
essere in pericolo per davvero e si era buttato nel fiume. Lo aveva
salvato il suo papà che stava pescando sulla riva.
Era stata la prima volta in cui aveva visto l' uomo piangere. Non
voleva più vedere suo padre soffrire.
Quel giorno si era impegnato affinchè suo padre
fosse
felice, ed era stato sempre un bambino bravo, allegro e felice.
O così, almeno, pare.
Ah, non sapeva perchè la mamma non fosse arrivata e allora
aveva
capito, in qualche modo, che non sarebbe mai più tornata,
ragion
per cui aveva cercato di non pensarci più, dimenticandola.
Gli eroi, per inciso, non gli piacevano più.
Quel giorno a scuola era arrivato un nuovo ragazzo. Si chiamava Hayato
Gokudera ed
era italiano. A guardare il nome non si sarebbe mai detto, la sua
famiglia -giapponese- si era trasferita nel paese del sole un paio di
generazioni prima. Persino il suo aspetto non diceva nulla riguardo
alla sua
provenienza. Aveva un incarnato chiaro e occhi verdi, lo si sarebbe
potuto dire nordico, infondo.
Quando era
arrivato in classe aveva guardato tutti e nessuno senza particolare
interesse.
Aveva l' aria annoiata. Un po' triste.
Takeshi pensò che dovesse essere una persona triste.
La tristezza è una cosa che si vede.
Gli occhi di una persona infelice hanno un che di torbido, una precoce
stanchezza della vita.
L' infelicità diventava un laccio intorno all' anima, la
succhiava rubandole tutte le emozioni. Inevitabilmente ti cambiava
rendendoti più cinico, più disincantato, meno
ingenuo.
Takeshi lo sapeva perfettamente.
Era una
tiepida mattinata di metà autunno quando era arrivato, il
cortile era pieno di
foglie secche da giorni e le nuvole sembravano correre veloci nel cielo.
Hayato Gokudera trovava quella cittadina incredibilmente stretta.
Ah, ora che ci pensava si era detto la stessa cosa di tutti i posti in
cui era stato negli ultimi anni.
Per qualche motivo nessun posto sembrava adatto ad
accoglierlo.
Ogni luogo era o troppo vuoto o troppo pieno, troppo rumoroso o
viceversa silenzioso, con troppo verde o troppo asfalto.
Era sbagliato.
Hayato non apparteneva a niente e a nessuno, si sentiva come
la
pallina di un flipper, sempre sbattuto alla ricerca frenetica e
ossessiva di qualcosa. Avrebbe proprio voluto saperlo, cosa? Cosa
cercava? Cosa gli mancava?
Che doveva fare per sentirsi parte di qualcosa?
Non si sentiva nemmeno parte dell' umanità, certe volte.
Guardava la gente con quel distacco un po' superiore che
caratterizzava
il suo modo di fare.
Forse il problema stava nel fatto che fosse
un genio. Non c' era materia in cui non eccellesse, non c' era
argomento che non conoscesse.
Era anche un po' troppo cervellotico a
dirla tutta e anche piuttosto impulsivo. Ed egoista.
Odiava la
gente. Tendenzialmente la evitava. Non gli piacevano le file, i luoghi
affollati, gli autobus, la musica assordante e le feste studentesche e
più in generale i luoghi in cui era costretto a stare a
stretto
contatto col vicino di turno.
Aveva un' idea di spazio personale
piuttosto ampia.
Non è che avesse paura della gente o altro, semplicemente,
riteneva la maggior parte degli essere umani... stupidi.
Tutti
quelli che lo circondavano sembravano essere impegnati a parlare di
scemenze.
"Oh, quando
finiamo devo correre immediatamente a casa che sta per incominciare X",
gemette la ragazzina al suo fianco guardando tristemente l' orologio
sul display del cellulare.
Aveva confemato la sua tesi.
Durante la
pausa pranzo se ne era stato seduto tranquillo al suo banco per i primi
cinque
minuti, poi una mandria di pecore impazzite -i suoi compagni di classe-
lo aveva accerchiato guardandolo come si guarda un essere esotico e
cercando, con scarsi risultati, di fare conversazione.
-Lo segui il Grande Fratello? L' ultima entrata è troppo
gnocca!
Gokudera si era
voltato verso il ragazzo che aveva espresso una simile perla di
saggezza, la studentessa al suo fianco aveva ridacchiato:-
Già
s' è fatta il fratello della sua migliore amica che era
entrato
prima di lei.
Gokudera si
chiese, giustamente, se per caso sapessero cosa stava accadendo nel
mondo. O almeno cosa fosse un telegiornale -e anche lì, c'
era
da andarci con i piedi di piombo, almeno dalle sue parti-
-Scommetto che una di voi vuole fare la ballerina- tirò a
indovinare sorridendo mellifluo.
Ci fu uno squittio provenire da più parti.
Gokudera si alzò sbuffando e uscì fuori dalla
classe lasciando più pecore assai interdette.
Quegli idioti stavano violando impunemente il suo spazio vitale. Come
se avesse bisogno di loro.
Nei corridoi si
scontrò con un ragazzino con la faccia da pesce lesso.
Quello
cadde a terra gemendo come una donnetta, poi, rialzandosi, si
scusò balbettando. Forse era stato perchè
Gokudera lo
aveva guardato torvo. Lo vide correre emettendo un suono molto simile a
un "hiii"
Il ragazzo ridacchiò, quello lì stava
praticamente scappando!
Aveva deciso di
salire sul terrazzo, se gli andava bene poteva stare due minuti da
solo. Camminando vicino alle finestre vide due ragazzi suonarsele di
santa ragione, gli studenti della scuola li accerchiavano incuriositi,
qualcuno stava correndo verso l' interno, probabilmente per chiamare
qualche professore.
L' italiano
ghignò accendendosi una sigaretta. Da lì avrebbe
potuto
godersi lo spettacolo. Indegno ma pur sempre spettacolo. Probabilmente
non era raro che quelle due teste vuote facessero a botte per un pezzo
di quartiere in cui segnare il territorio -magari pisciando negli
angoli come i cani.
Ah! Ma uno dei due lo conosceva! Non era quel suo compagno dalla faccia
idiota? Sì, quello seduto dietro di lui?
-Yamamoto Takeshi- sibilò Hibari.
-Mi morderai a
morte?- l' altro lo precedette canzonatorio- l' ho sentita questa. L'
ho sentita Kyoya.- il moro portò la mazza da
baseball
sulla spalla destra picchiettandola lievemente- e cosa avrei combinato
questa volta, uhm?
-Hai picchiato l' intero comitato disciplinare.
Takeshi si
indignò:- Comitato disciplinare un cazzo. Siete una specie
di
yakuza giovanile. Ohi Hibari, lo sai che questa potrebbe farti molto
male?- domandò indicando la mazza.
Il disciplinare tirò fuori i tonfa:- Anche questi.
Takeshi sapeva che battersi con Hibari era un' idea stupida, tuttavia
lo aveva fatto. L' istinto, l' adrenalina e una buona dose di
avventatezza avevano rinchiuso il suo cervello in un sacchetto di
plastica e lasciato a marcire in un angolo.
Forse, se i professori non
fossero intervenuti, ora avrebbe più di un braccio rotto,
più di un
paio di costole incrinate, l' occhio destro gonfio come una mongolfiera
e la mascella decisamente viola.
Ridacchiò, seppur con fatica, ritenendo che l' elenco
minuzioso
dei suoi mali fisici assomigliasse vagamente alla lista della spesa.
Oh sì, sarebbe potuta finire
decisamente peggio.
La cosa positiva, che in un certo senso lo rendeva
orgoglioso di sè, o almeno un po' più soddisfatto
e meno
abbattuto, era che anche Hibari aveva avuto la sua giusta dose di
legnate. Non quante ne aveva ricevute lui, bisogna dirlo, ma l' atleta
si era fatto valere.
Non è che Takeshi si sentisse masochista... o si diceva
sadomaso? O sadochista? O... com' era quel termine? Non se lo ricordava
proprio.
Insomma non è che gli piacesse farsi picchiare, ecco.
Nemmeno gli
piaceva particolarmente fare a botte, però se veniva sfidato
apertamente non si tirava indietro.
Mai e in nessuna cosa. Potevano
sfidarlo persino, per esempio, a giocare a tennis -cosa in cui era una
schiappa fatta e finita- ma lui non si sarebbe tirato indietro. Si
sarebbe preso qualche giorno per imparare, semmai, per poi giocare,
gareggiare, battersi con tutte le sue forze.
Ora, sapeva che Hibari era dannatamente forte, che se avesse picchiato
il comitato disciplinare -cosa che in effetti aveva fatto con un certo
piacere- il loro capo lo avrebbe di sicuro pestato, tuttavia era una
cosa a cui non era riuscito a sottrarsi.
Gli piaceva aiutare gli altri e aveva ritenuto quella di picchiare il
comitato disciplinare sicuramente una buona azione.
Il comitato disciplinare era una specie di dittatura scolastica. Se non
si faceva ciò che era stabilito da loro -dal "non correre
nei
corridoi" fino a "dammi i tuoi soldi del pranzo"- si incorreva
necessariamente in gravi punizioni.
Nel corso dell' anno Yamamoto li aveva stuzzicati con scherzi
innocenti, come la colla sulle sedie oppure il barattolo di vernice
sulla porta. Era un modo per dire a quegli stronzi patentati che gli
studenti -o per lo meno alcuni- non avevano paura.
L' unica pecca era che finiva spesso nello studio del preside ma era
disposto a sopportarlo, non aveva assolutamente importanza se poteva
rendersi utile.
E poi era un modo come un altro per riempire le giornate vuote e
condurre una vita adolescenziale normale e spensierata.
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NOTE: Riposto "Il sentiero delle foglie secche" - sono io, Haru, la ma
coinquilina pazza non c' entra niente 'sta volta- dopo vari
tentennamenti e finalmente col primo capitolo decente e completo. Non
so che direzione prenderà la storia, credo comunque che il
raiting si manterrà arancione. Se ogni tanto spunta vun
verbo al
presente, non preoccupatevi, è che mi piace fare
così.
Ci sono un paio di ripetizioni relative alla parola tristezza nella
presentazione di Gokudera, assolutamente volute.
Mi
scuso per evetuali errori ma nelle ricorrezioni dei capitoli sono una
schiappa.
DISCLAIMER: Katekyo Hitman Reborn e i suoi personaggi non mi
appartengono. La storia non è scritta a scopo di lucro.
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