Shy.
Mi domando se tu
sia
un'ossessione. Il fatto che io stia qui, ad osservarti, per ore ogni
giorno credo possa fare di me uno stalker, una specie di maniaco, ma
non ne sono sicuro.
In fondo siamo
più o meno coetanei, so che hai solo un anno più
di me perché sono riuscito a trovarti su facebook; abbiamo
persino qualche amico in comune; però tu continui a vedermi
senza guardarmi. Sicuramente è colpa mia, è che
quando mi passi vicino e mi porti il caffè, il tuo profumo
mi avvolge e il tuo sorriso mi fa balbettare ancora più del
solito.
Ricordo che, una
volta, sono venuto al bancone a ordinare: macchiato e brioches vuota
come sempre. L’ho detto centinaia di volte, lo so dire, non
incespico mai nel ripetere questa frase; ma quella volta, forse
perché la tua collega mi incuteva soggezione, forse
perché con la coda dell’occhio vedevo che mi stavi
guardando, ci ho messo due minuti per pronunciare sei parole. La
ragazza al bancone si è messa a ridere. Lo vedevo, lo
sentivo: avevo le lacrime agli occhi e non osavo sollevare lo sguardo
su di te, per paura che anche tu ti stessi prendendo gioco di me. Non
saprò mai se quella volta hai riso o no, non
saprò mai se mi compatisci o mi deridi.
Certe volte mi
sorridi
in modo diverso, come se mi conoscessi bene, ma poi voli al tavolo
successivo, senza lasciarmi nemmeno il tempo di abbassare lo sguardo,
intimidito, dinnanzi al tuo volto.
Sei leggera,
parli
velocemente, senza smettere di volteggiare per la sala, ridendo e
chiacchierando: non vedi l’ora che finisca il tuo turno per
andartene a casa. A volte piangi, lo vedo. Torni dai bagni del
personale con gli occhi umidi e arrossati, tiri fuori il blocchetto, e
prendi altre ordinazioni, senza smettere di riservare un sorriso ai
clienti, quasi a volerli rassicurare, quasi a voler dire loro:
“Sto bene, non ho bisogno di una pausa”.
Ma loro ti
vedono
senza guardarti.
Dici alla tua
collega
- la stessa che ride di me - che vai in vacanza nel week end, che te ne
vai con il tuo ragazzo - sorridi molto con gli occhi umidi - lei ci
crede: è felice per te, ti dice.
Ma entrambi
sappiamo
che questo week end non andrai da nessuna parte, proprio come me.
Una volta volevo
parlarti e sono rimasto fino all’ora di chiusura per trovarti
sola – le altre cameriere mi fanno paura -. Tu hai cominciato
a pulire i tavoli; io tenevo lo sguardo basso, inchiodato sulle mie
ginocchia - stringevo i pugni sulle gambe, cercando di farmi coraggio-.
Avevo provato la
frase
duemila volte a casa, prima di venire. La sapevo dire:
“Piacere, io sono Giovanni”, per niente difficile,
no? Però, lì, tra i tavoli di legno,
con te così vicina, non sarebbe mai uscita come avrei voluto.
Ero arrabbiato,
tremavo, però, alla fine, mi sono fatto coraggio e ho
provato a parlare. Tu non mi hai sentito, perché mentre io
mi alzavo e cominciavo a balbettare quella semplicissima frase -
ribellandomi alla mia stessa voce che non ne voleva sapere di uscire -
tu avevi appena infilato le cuffie dell’ipod.
Me ne sono
andato,
lasciando i soldi sul tavolo, e non sono tornato per due settimane.
Ma tu te ne
sarai
accorta, vero?
Non entravo, ma
stavo
fuori, all’angolo, sempre nel solito punto: accanto alla
vecchia cabina telefonica, per vederti uscire ed entrare con la
spazzatura o inforcare la bicicletta, pedalando verso casa
per l’ora di pranzo. Ma tu non mi guardavi.
Ti ho seguita
fino al
tuo palazzo. Ti ho aspettata, prima di vederti uscire di casa
in lacrime. E poi ti ho seguita ancora, con lo sguardo basso sulle mie
scarpe, non osavo fissare la tua schiena per più di pochi
secondi alla volta. Mentre eravamo in un vicolo, ho pregato
perché ti voltassi, lo volevo davvero, non pensavo che
avresti sicuramente urlato. Ma tu non ti sei girata.
Improvvisamente
mi
sono sentito così stupido! Sembravo veramente un depravato,
anche se quello che volevo fare era solo dirti “Piacere, io
sono Giovanni”; così sono ritornato sui miei
passi, senza voltarmi, quasi correndo, sperando che tu non mi avessi
ancora visto.
Non sono mai
più venuto al bar. Mai più.
Mi piace pensare
che
tu, il giorno dopo mi abbia cercato con lo sguardo, al tavolo e poi
vicino alla vecchia cabina telefonica. Ma so che non l’hai
fatto.
Io invece ti ho
cercata.
Ti ho cercata
tanto,
ma nei posti sbagliati.
Ti ho cercata
talmente
tanto che credo di essermi perso, stupidamente inconsapevole del fatto
che, per trovarti, sarebbe bastato varcare di nuovo quella soglia, e
balbettare sorridendo: “Piacere, io sono Giovanni”.
E tu mi avresti
guardato. Per ridere di me o per commiserarmi, non importa, mi avresti
guardato.
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