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SEMPRE IL RAGAZZO SBAGLIATO!
Me ne stavo nella mia camera oscura, sopra il garage, a sviluppare
l’ennesima foto di Antonio Fernandez Carriedo, un ragazzo
spagnolo talmente splendido da non aver bisogno di ritocchi, e che si
rende a malapena conto della mia esistenza.
Avevo scattato quella foto nell’atrio
dell’Accademia Mondiale W mentre Antonio si appoggiava alla
statua del grande Impero Romano.
L’avevo fatta da lontano (la distanza è il piccolo
ma fondamentale problema della nostra relazione), usando la mia Nikon
asso F2 e lo zoom, nascosta dietro a un pilastro di finto marmo.
Mi nascondevo perché, se Antonio avesse scoperto che lo
stavo fotografando ormai da mesi, avrebbe probabilmente pensato che
sono immatura, nevrotica e ossessiva.
La lampadina rossa diffondeva nella camera oscura un tiepido chiarore.
Ho versato la soluzione di sviluppo sulla carta fotografica, scuotendo
gentilmente la vaschetta mentre il viso di Antonio affiorava sulla
carta. All’inizio era confuso come un’ombra, poi
è diventato sempre più nitido.
Alla fine ho tuffato la carta nel fissatore, l’ho sciacquata
e appesa ad asciugare. Poi ho spinto all’indietro la sedia
girevole, sospirando profondamente.
Ho passato gli ultimi cinque mesi a cercare di non amarlo.
Starnutendo con sentimento (sono un’allergica cronica), ho
tirato fuori l’inalatore per concedere a ciascuna delle mie
narici una lunga spruzzata.
Innamorarsi è un’atroce sofferenza.
Era il 6 febbraio, mancavano otto giorni a San Valentino e come al
solito ero senza un ragazzo, stretta nella morsa d’acciaio
dell’amore non corrisposto.
Era già abbastanza brutto non avere il ragazzo la sera di
Capodanno, ma ora dovevo far fronte alla mia tragica solitudine anche
nel giorno di San Valentino,e per di più subire il
terrorismo psicologico dei bottegai locali, che avevano riempito le
vetrine di cuori e cupidi già da gennaio.
Senza contare l’umiliazione di non avere un cavaliere per il
romanticissimo ballo del Re di Cuori, che si tiene il giorno di San
Valentino nella nostra accademia.
Scendendo la scala che porta dal mio studio nel garage ho quasi
inciampato in Kertész, il mio cane, una palla di pelo bianca
e nera di circa venti chili, così chiamato in onore di
André Kertész, grande fotografo della fine del
secolo scorso. Mi si è lanciato addosso con gioia sfrenata,
perché solo vedermi lo rende felice.
I cani, almeno, amano incondizionatamente.
Mi sono inginocchiata per accarezzarlo.
“Ci hai mai fatto caso, Kertész, che
l’amore è sofferenza allo stato puro e promette
soltanto tormenti?”
Kertész non ci aveva mai fatto caso, così ha
agitato la coda, tentando di saltarmi in braccio. Io ho attraversato di
corsa il garage e sono entrata in cucina, continuando a riflettere sul
mio dilemma.
Tutta questa storia è cominciata cinque mesi fa, e ci tengo
a sottolineare che non stavo andando in cerca di guai.
Attraversavo l’atrio per andare a lezione di letteratura
inglese, leggendo a tutta velocità
‘Beowulf’, quando inciampai nello splendido piede
di Antonio e caddi rovinosamente a terra proprio davanti a lui, come
una deficiente.
Avrei potuto archiviare la faccenda sotto la voce Pessimo Tempismo, se
non avessi alzato lo sguardo verso i suoi fenomenali occhi verde mela,
restando pietrificata.
Era una cosa pericolosa, perché stavo cercando con tutti i
mezzi di evitare ogni contatto visivo con l’intero genere
maschile.
La mia ultima storia era appena finita in un disastro, quando Gilbert
Beilschmidt, che era stato il mio ragazzo per quattro mesi, mi aveva
mollato per smettere di studiare e vivere della rendita del lavoro di
suo fratello Ludwig, pronunciando le parole d’addio preferite
da tutti gli ipocriti che infestano la terra: “Ti
chiamerò”.
Mi ha mai chiamato?
Ho mai avuto uno straccio di notizia da lui, dal 23 Agosto?
Gli asini volano?
Insomma, eccomi lì, un mucchietto informe ai piedi di
Antonio Carriedo, ancora in lutto per quel vigliacco di Gilbert.
Tentai inutilmente di convincermi che prendersi una cotta per un altro
tizio fantastico andava oltre i limiti dell’umana
stupidità, specialmente se il tizio in questione
è il capitano della squadra di calcio
dell’accademia e fa coppia fissa con Chiara Vargas, che, per
dirla con le parole di Elizavéta
Hédérvary, la mia migliore amica, si
può definire semplicemente ‘Il Corpo’.
Niente e nessuno, tranne forse una fiamma ossidrica, potrebbe
allontanare un maschio da lei.
Sorridendo, cercai di uscire graziosamente di scena, ma riuscii
soltanto ad inciampare di nuovo. Antonio Carriedo mi guardava come un
bambino guarda i clown al circo.
Mi allontanai zoppicando, e, mentre passavo accanto alla panca
intitolata alla Pace nel Mondo, dono degli alunni che si erano
diplomati l’anno precedente, Elizavéta si
avvicinò.
“Non ci pensare neanche, Lisa!” sibilò.
Io la guardai con aria innocente.
“A chi credi di darla a bere? Ho visto tutto. Hai strabuzzato
gli occhi” continuò lei, e, dopo avermi esaminato
le mani, sussurrò sinistramente “Hai le mani
sudate. Conosco i sintomi”.
Elizavéta e io siamo migliori amiche dalla prima media e
abbiamo condiviso tutto: infinite delusioni d’amore, le
continue aggressioni di quel rompiscatole del suo vicino di casa
rumeno, senza contare la crisi di mezza età di suo padre,
quando se ne andava in giro indossando atroci camicie aderenti e
chiamava tutti quanti ‘piccolo’.
“Dillo!” ordinò Elizavéta.
“Non prenderò mai più una cotta per il
ragazzo sbagliato” balbettai.
Poi, nel tentativo di rassicurarla, aggiunsi “Non
preoccuparti. Sto bene.”
Tutto questo è successo cinque mesi fa.
Non stavo bene allora, e non sto bene neanche adesso.
Diciamo le cose come stanno. E’ una tragedia.
Ho avuto quattro ragazzi quattro, e nel giro di un anno il mio
potenziale romantico si è trasformato in un formaggio
svizzero.
Due mi hanno lasciata per tornare dalle loro precedenti conquiste; uno
ha insultato le mie fotografie, e Gilbert, testa di legno che non
è altro, si è stufato di studiare ed è
sparito.
Ho saltato una festa di fine anno, una festa di inizio anno, e ormai
sono tre anni che non partecipo più al ballo del Re di Cuori.
Badate bene, non sono un mostro. Ho lunghi capelli castani, un bel paio
di occhi scuri, denti perfetti e un nasino da arricciare con grazia, se
proprio devo farlo. Sono abbastanza alta e snella, si portare bene i
vestiti e riesco a riparare un piccolo guasto al motore
dell’auto senza sembrare un maschiaccio.
I miei genitori sono preoccupati perché mi innamoro troppo
in fretta.
“Secondo te, Li” mi hanno chiesto una volta
“perché i ragazzi ti attraggono così
tanto?”
Inutile parlare dell’esplosione chimica che mi travolge
quando li guardo.
I genitori non vogliono sentire queste cose.
Così ho fatto finta di niente e sono rimasta zitta.
“Forse dovresti rifletterci sopra” ha suggerito la
mamma “almeno fino a quando i tuoi sentimenti non andranno di
pari passo con la realtà”.
“Oppure potremmo incatenarti al termosifone” ha
aggiunto mio padre “fino a che momenti come questi non
saranno passati”.
Ora capite con che cosa devo combattere.
Ho tentato di esprimere le mie emozioni attraverso le fotografie: e non
a caso quella della lattina di Coca Cola spiaccicata in mezzo al
parco-giochi deserto è la mia preferita.
Cerco di convincermi che tutto va bene, e poi vedo una coppia
innamorata che fluttua lungo la strada e mi ricordo di quando mi
sentivo così, anche se non era una cosa seria; di quando mi
sentivo amata, desiderata e importante.
A quel punto mi assale la tristezza e mi tornano in mente tutti i tizi
che mi hanno mollata, compreso Mathias Køhler, che in quinta
elementare aveva riso del mio biglietto di San Valentino e
l’aveva fatto vedere a tutti durante la ricreazione.
Per conoscermi veramente, comunque, dovete guardare le mie fotografie.
Quando io e la fotografia ci siamo incontrate per la prima volta, avevo
sette anni ed ero in Italia. Avevo guardato la Torre di Pisa attraverso
il mirino della Leica di mio padre, inclinando l’apparecchio
finché la torre mi era apparsa dritta, e avevo scattato.
Vedendo la foto sviluppata, qualche giorno dopo, ero rimasta
affascinata dal potere di una macchina tanto piccola, che
però riusciva a raddrizzare un edificio pericolante.
Papà mi aveva regalato una 35mm usata, e io mi ero preparata
a catturare la vita attraverso l’obiettivo.
I ragazzi non capiscono l’arte.
Non gli importa niente se ogni tanto la macchina fotografica manifesta
un potere che va oltre il fotografo, riuscendo a cogliere
un’emozione che solo il cuore è capace di vedere.
Quando tiro fuori la mia, si sentono minacciati.
I maschi che apprezzano il ruolo dell’artista nella
società sono pochi, ma io nutrivo grandi speranze nei
confronti di Antonio Fernandez Carriedo.
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