Figlia della Foresta

di KeyLimner
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Sole era molto elettrizzata quella mattina, come del resto tutti i suoi compagni. Non capitava spesso che la scuola organizzasse delle visite alla Città, e dopo l’ultima richiesta d’autorizzazione conclusasi in un nulla di fatto si erano ormai quasi rassegnati all’idea che non ce ne sarebbe mai stata un’altra.
Le relazioni con la Città erano estremamente difficoltose, soprattutto a causa della scarsa familiarità dei Saggi con il suo complesso apparato burocratico. Era un vero e proprio campo minato; altro che i semplici costumi della Foresta. C’erano un’infinità di titoli da ricordare… decine e decine di documenti da compilare… centinaia di prassi da seguire per incontrare chicchessia. E guai a non seguire la loro rigida etichetta, fosse per dimenticanza o con un reale intento offensivo. Gli Abitanti della Città erano molto suscettibili.
«Ragazzi, per favore», disse la maestra, alzando la voce per sovrastare il brusio eccitato. «So che siete emozionati… tutti lo sono, alla loro prima visita… ma cercate di contenervi, o non vi porterò proprio da nessuna parte. Sapete bene che la nostra presenza laggiù non è gradita e che ci è stata concessa solo grazie all’insistenza del Gran Consiglio, perciò cercate di non farmi pentire di aver chiesto l’autorizzazione».
«Come se servisse a qualcosa ricordarcelo», bisbigliò Rondine all’orecchio di Sole. «Ci pensano i Grigi a rinfrescarci la memoria ogni giorno».
E aveva ragione. I “Grigi” (per usare la volgare espressione con cui il Popolo della Foresta era solito bollare coloro che abitavano entro i confini della Città) odiavano la Foresta e i suoi abitanti, e non mancavano di rammentarlo loro ad ogni occasione. Avevano chiuso i contatti fin dai tempi della Secessione, e da allora si limitavano a malapena a tollerare qualche visita di tanto in tanto… tutt’altro che di buon grado.
Sotto la guida della maestra, gli alunni si alzarono dal cerchio in cui erano riuniti e disponendosi in fila ordinata lasciarono la radura. Mentre si allontanavano dal loro caldo rifugio e gli alberi prendevano lentamente a diradarsi, Sole sentì il cuore battere a mille. Non poteva crederci. Per la prima volta nella sua vita, stava per uscire dalla Foresta. Che effetto le avrebbe fatto l’assenza dei giganti frondosi cui era stata abituata fin dalla nascita?
«Ragazzi, quando ci troveremo fuori dalla Foresta potreste avvertire un po’ di disagio», li avvertì la maestra. «Ma non preoccupatevi, basterà poco ad abituarvi».
Pian piano, anche le ultime tracce di vegetazione svanirono, ed il terreno divenne brullo. Ad un certo punto, Sole fu investita da un’ondata di luce intensa e fu costretta a ripararsi il volto con l’avambraccio. Quando riuscì a guardare di nuovo, spalancò la bocca per lo stupore.
Sopra di lei, una gigantesca cupola d’azzurro si estendeva all’infinito in ogni direzione, lontanissima e irraggiungibile. La palla infuocata del sole ardeva proprio sulla sua testa, ma se provava a fissarla per più di qualche secondo sentiva immediatamente gli occhi lacrimare. Piccoli batuffoli bianchi punteggiavano il cielo ad intervalli irregolari, e gli stormi d’uccelli che lo attraversavano sembravano solo mari di puntini neri. In lontananza, la Foresta appariva come un tetro ammasso oscuro.
Improvvisamente, Sole si sentì assalire da un senso di smarrimento.
Si rese conto che non c’era niente fra lei e l’orizzonte, fra lei e le altre, fra lei ed il cielo. E nessun rumore oltre allo scricchiolio della sabbia mossa dal vento turbava la quiete assoluta. Niente brusii di animali che zampettavano nel sottobosco… o pigolii di uccelli che saltellavano da un ramo all’altro… neanche l’esile fruscio del vento tra le foglie. O il placido gorgoglio di un torrente nelle vicinanze. Solo silenzio. Un silenzio assordante che pareva dilatarsi sempre di più intorno a lei e avvolgere tutto in una cappa spessa e opprimente. E sulla sua testa, nessun tetto di rami ostruiva la vista del sole - lasciando filtrare solo sottili lame di luce -, cosicché esso l’assaliva brutalmente con tutta la forza accecante del suo bagliore. Incantata da quella palla infuocata, per la prima volta scoperta sotto il suo sguardo, non poté fare a meno di fissarla. Dopo poco, sentì gli occhi bruciare e dovette chinare il capo.
Si sentì nuda.
Di colpo, provò l’urgente bisogno di nascondersi. Ma intorno a lei non si intravedeva l’ombra d’un riparo: solo un vuoto sterminato, da qualunque parte guardasse; unico confine, un orizzonte la cui distanza sembrava crescere in modo proporzionale al suo bisogno di avvicinarlo.
Spesso aveva sentito parlare di gente caduta in preda ad autentici attacchi di panico davanti alla prospettiva di attraversare quel vuoto, e in vista della partenza era stata messa più volte in guardia contro una simile eventualità… ma non aveva mai colto appieno la portata delle emozioni che l’avrebbero invasa di fronte a quello spettacolo spaventoso. Ora capiva. Ora sentiva la propria paura come qualcosa di tangibile, che ribolliva minaccioso appena sotto la soglia del suo controllo, e doveva impiegare una scrupolosa attenzione per riuscire a tenerla a bada.
«Su, non restate lì impalati. Manca ancora parecchio alla Città, e il nostro turno di visita è solo tra mezz’ora».
All’esortazione della maestra, il gruppetto riprese ad avanzare, sebbene più lentamente di prima. Sole, incapace di distogliere lo sguardo dal meraviglioso spettacolo della volta celeste, rimase col naso per aria, rischiando continuamente di inciampare in qualche asperità del terreno. Si sentiva intimidita, e per reprimere l’istinto naturale di fuggire e correre a nascondersi nuovamente dietro i suoi amati alberi - ormai già lontanissimi -, poteva soltanto incassarsi nelle spalle ed incrociare le braccia al petto.
Ad un tratto, davanti a loro, cominciò a fare capolino il profilo scuro della Città.
Torri nere come il carbone si stagliavano contro l’azzurro abbacinante del firmamento, sovrastando le alunne di parecchie decine di metri. Via via che si avvicinavano, si fecero sempre più imponenti e spaventose, finché non finirono per trovarsi diritto sopra le loro teste. A quel punto, anche tendendo il collo al massimo, per Sole era impossibile vederne la sommità.
«Ecco, ragazzi, siamo arrivati», bisbigliò la maestra mentre si avvicinavano ad un accesso. «Adesso fate i bravi, mi raccomando. Non una parola».
I bambini rimasero immobili al loro posto, intimoriti, mentre la maestra si faceva avanti per trattare con il tizio dietro lo sportello di servizio. Fu molto gentile, ma il suo ossequio, come Sole poté notare senza sforzo, non fu affatto ricambiato dall’uomo, che si limitò a rispondere alle sue formule di cortesia in modo freddo e tagliente, lanciando di tanto in tanto occhiate di fuoco al loro indirizzo.
Sbrigare le pratiche indispensabili all’ingresso parve richiedere un’eternità, poi finalmente la maestra chinò il capo per ringraziare l’operatore e tornò verso di loro. «Possiamo entrare», bisbigliò.
Quando l’enorme cancello nero si aprì davanti a loro, rompendo la continuità del lungo tratto di muro, ai loro occhi si prospettò uno spettacolo ancor più sbalorditivo di quello dietro di loro.
Una strada correva diritta verso l’orizzonte invisibile, e una miriade di viottole minori vi confluivano, serpeggiando in modo sinistro fra gli edifici squadrati. I marciapiedi erano inondati da una folla di dimensioni colossali, e spaventosi mostri di metallo - che dalle descrizioni che aveva sentito Sole associò a quelle cose che la gente chiamava “macchine” - sfrecciavano sull’asfalto, accompagnati dal rombo fragoroso dei motori, che diveniva ancor più assordante se associato al chiacchiericcio della folla e al suono incalzante dei clacson.
«Ragazzi, ecco a voi la Città», disse la maestra, alzando la voce per cercare di sovrastare quel frastuono. «Come ben sapete, questa adesso è l’unica esistente, ma un tempo la superficie del pianeta era interamente ricoperta da queste gigantesche opere dell’ingegno umano. Estesa per più di dieci milioni di chilometri quadrati, senza contare il territorio esterno al perimetro delle mura - adibito a terreno agricolo e industriale - è la più grande mai costruita nella storia dell’umanità, e da sola riversa nell’aria tonnellate e tonnellate di smog ogni giorno. Guardate laggiù… sì, lì, proprio dietro di voi… vedete quella grande ciminiera? È una fabbrica di scarpe… gli Abitanti della Città le indossano ai piedi. La colonna di fumo che esce dalla ciminiera contiene più anidride carbonica di quella che potremmo produrre in tre anni nel Giorno del Falò».
A quelle parole, Sole ripensò alle centinaia e centinaia di giganteschi fuochi che ogni anno, la notte del solstizio d’estate, ardevano nelle radure di tutta la Foresta - in luoghi anche lontanissimi fra loro - levando al cielo le ceneri degli oggetti che il Popolo degli Alberi bruciava per ringraziare Madre Natura di tutto ciò che aveva ricevuto nel corso di quell’anno. Pensò al fumo esalato da tutti quei fuochi accesi assieme, e nella sua mente lo paragonò a quel filo di fumo nero come la pece che usciva dalla ciminiera della fabbrica. Provò una sensazione di stordimento.
«Naturalmente, essendo questa l’ultima Città rimasta, si tratta di una quantità limitata. Le vastissime dimensioni della Foresta, nonché le misure preventive messe in atto dalla Città stessa, consentono di mantenere i livelli di CO2 al di sotto di certi limiti. È questa l’unica ragione per cui il Consiglio permette ancora alla Città di stare in piedi».
«Perché?», domandò una ragazzina, testarda. «Che senso ha? Ormai quasi tutti hanno abbandonato le Città. Non sarebbe meglio distruggerle tutte?».
«Non è così semplice, Rosa. Il dibattito su questo punto è ancora molto acceso… e non nego che parecchi dei nostri concittadini siano d’accordo con te. Ma… vedi, per gli Abitanti della Città questi “mostri d’acciaio” significano ancora molto. Per chi è ancora ancorato alla tradizione, è difficile abituarsi all’idea che l’umanità abbia abbandonato la via del progresso tecnologico per tornare alla Foresta che le ha dato la luce».
«Ma era la cosa più logica da fare!».
«Certo che lo era. E infatti, quando le autorità internazionali del passato furono costrette ad accettare la consapevolezza che il loro stile di vita stava conducendo la Terra sull’orlo della distruzione, riuscirono lo stesso a fare ciò che andava fatto. Ma occorse tempo… molto tempo. Ancora oggi questo processo non si può dire del tutto concluso. I Saggi sono certi che, per come stanno andando le cose, nel giro di qualche secolo anche questa Città sarà completamente svuotata, e perciò non ritengono indispensabile fare pressioni in proposito. In questo stesso instante, migliaia di persone stanno abbandonando la loro caotica esistenza per sperimentare la vita nella Foresta, e anche con gli spaventosi ritmi di crescita che hanno da sempre caratterizzato la popolazione della Città, pian piano resteranno troppe poche persone perché appaia sensato continuare a farla funzionare».
Quel ragionamento non riuscì a convincere del tutto Sole. La ragazzina non ricordava di aver mai visto tante persone tutte insieme, e le pareva impossibile che qualcosa - qualsiasi cosa - potesse arrestarne il flusso. Tutto intorno a lei aveva l’aria di funzionare alla perfezione, e per quanto ciò la mettesse a disagio, nessuno di quei frenetici individui pareva turbato dal caos che regnava loro intorno.
La folla si apriva al loro passaggio, restando a debita distanza. Tutti si rendevano subito conto delle loro origini straniere, e le occhiate diffidenti si alternavano a veri e propri sguardi d’odio. Nessuno appariva contento della loro presenza, e anche se tutti parevano tenere a bada i propri istinti violenti, Sole avvertiva una tensione palpabile nell’aria. Sapeva che qualunque cosa avrebbe potuto spezzarla e far esplodere una rivolta, perciò cercava di apparire il più possibile insignificante.
Si guardò intorno. Per qualche motivo, la presenza di mura e di edifici a dare dei confini alla sua visuale, invece di farla sentire a proprio agio (perché poteva costituire in qualche modo un sostituto dei suoi amati alberi), le dava un forte senso di claustrofobia. Improvvisamente rimpianse il deserto di prima. Fu presa da un senso di nausea, ed ebbe la fulminea certezza che non avrebbe resistito a lungo prima di dare di stomaco.
Corse via, e sentì dietro di sé le urla della maestra che la richiamava. Ma sapeva che non sarebbe mai riuscita a raggiungerla, a meno di calpestare la gente al suo passaggio.
Andò a sbattere più volte contro le persone che nutrivano quella folla infinita, e nessuno mancò di spingerla via con ribrezzo, apostrofandola aspramente. Si fiondò dentro una struttura, dimenticando che per gli Abitanti della Foresta era proibitissimo, e ignorando le grida del proprietario sgattaiolò dentro quello che (come poteva dedurre grazie ai suoi studi) era un bagno pubblico.
Incapace di resistere oltre, si chinò sul primo lavandino e vomitò.
Quando ebbe finito, alzò la testa. Si ritrovò davanti un grande specchio.
Dall’altra parte del vetro, la sua immagine, più nitida che attraverso l’acqua, la osservò di rimando. Occhi viola, grandi e penetranti, con le pupille dilatate al massimo; capelli verdi di clorofilla, morbidi e lisci come gli steli d’erba di un prato; pelle bianca d’alabastro, vellutata come i petali di un fiore, con un accenno di corteccia lungo il tronco e le cosce laddove la scissione dal suo Albero Madre non era ancora del tutto terminata.
Era una figlia della Foresta, e la patria dei suoi antenati le sembrava estranea più che mai, adesso che era lontana miglia e miglia dalla pianta con cui aveva praticato la Fusione. La sentiva pulsare allo stesso ritmo del proprio cuore, portando in circolo la medesima linfa che in quel momento nutriva ogni parte del suo corpo e le permetteva di muoversi e di aspirare il fumo che impregnava l’aria per restituirlo sotto forma di bolle d’ossigeno.
Non era mai stata così lontana da casa.




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