My heart is bigger than the distance in between us.
Capitolo 1.
Alice uscì di casa alle sette e mezza, puntuale come sempre. Il
freddo invernale investì il suo esile corpicino, che sembrava
potesse spezzarsi ad una ventata minimamente più forte. Si
strinse nella sua sciarpona bianca e sistemò meglio il
cappellino. I capelli continuavano ad agitarsi e il suo viso era
praticamente sommerso da quella massa fiammeggiante. Li sistemò
come meglio poteva, poi accelerò il passo per arrivare quanto
prima a scuola. Tutt'intorno, la neve aveva reso ogni cosa candida,
così bianca ed invitante che, se non avesse fatto tanto freddo,
Alice avrebbe volentieri saltato le lezioni e si sarebbe messa a
giocare come una bambina o meglio, a scrivere osservando i fiocchi
incastrarsi nei suoi capelli e ricadere come zucchero a velo su di un
dolce. Avrebbe descritto la leggerezza e la sensazione di benessere che
quel candore le conferiva e il desiderio di lasciarsi trasportare dal
vento proprio come la neve, di farsi portare in luoghi sconosciuti, di
cadere tra i capelli di qualcuno con una storia da raccontare.
Ad Alice piaceva osservare la gente e provare a pensare cosa potessero
vivere quelle persone, se fossero felici oppure se stessero
attraversando un periodo difficile. Spesso comprendeva le sensazioni
altrui osservando le rughe sulla fronte o il modo in cui le labbra di
qualcuno si curvavano all'insù in un sorriso o
all'ingiù per l'imminente pianto. E quando incontrava persone
dall'aria interessante, pensava spesso alla loro storia e si chiedeva
se qualcuno facesse lo stesso con lei. Ma ce l'aveva una storia da
raccontare? Forse sì, forse no. Era solo una ragazza di
diciassette anni, una ragazza che frequentava tranquillamente le
lezioni, una ragazza puntuale ma anche disordinata, spesso con la testa
tra le nuvole e ancora più spesso con gli occhi incollati alle
pagine di un libro. Una ragazza educata, forse troppo chiusa in se
stessa. Cos'aveva d'interessante un soggetto come lei? Apparentemente
nulla.
I pensieri di Alice erano più o meno questi e ne era talmente
assorta che non si era resa conto di aver percorso tutta la strada da
casa a scuola. Sembrava che ci avesse messo cinque minuti, ma in
realtà erano le otto meno dieci. Sospirò ed
osservò il suo fiato trasformarsi in nuvolette bianche che si
dissolvevano in circa tre secondi, poi salì la scalinata del
Liceo Linguistico I. Vian.
La campanella non era ancora suonata, quindi la classe era desolata. Si
sedette in attesa e aprì lo zaino, nel quale aveva infilato
tutti i libri per le sei ore di lezione più uno da leggere in
casi come quello. Il libro in questione era La ragazza dello Sputnik di
Murakami. Inutile dire che quello fosse uno dei suoi libri preferiti.
L'aveva letto e riletto e il finale riusciva sempre a lasciarla
interdetta. Quel libro l'aveva lasciata da un lato amareggiata,
dall'altro totalmente innamorata. Forse il narratore aveva immaginato
la chiamata di Sumire? Aveva deciso di vivere nella dimensione onirica?
O Sumire era davvero tornata? E se la chiamata fosse stata solo frutto
dell'immaginazione del professore, Sumire che fine aveva fatto? Si era
forse uccisa? Erano le domande che si poneva continuamente dopo aver
finito di leggere il libro.
Era seduta in classe da sola, completamente assorbita dal passo che preferiva:
Dietro tutte le cose che crediamo di conoscere bene, se ne nascondono
altrettante che non conosciamo per niente. La comprensione non è
altro che un insieme di fraintendimenti. Questo è il mio piccolo metodo segreto per conoscere il mondo. In
questo nostro mondo, le "cose che sappiamo" e le "cose che non
sappiamo" sono fatalmente inseparabili come gemelle siamesi, e la loro
stessa esistenza è confusione. Confusione, confusione.
Nello
stesso momento in cui un mesto sorriso si apriva sulle sue labbra (le
capitava spesso, di sorridere leggendo passi che la colpivano) , la
porta fu spalancata con poco garbo da una ragazza assonnata, con
i capelli biondi e gli occhi marroni, che mugnugnò un
"buongiorno" poco convinto.
"Buongiorno anche a te, Fra'."
Francesca era un'amica d'infanzia di Alice. Avevano sempre frequentato
le stesse scuole e forse poteva considerarla la sua migliore amica,
anche se non le piacevano definizioni del genere. Inoltre era stata la
prima a venire a conoscenza della sua omosessualità, anzi, Alice
non aveva neanche avuto bisogno di dirglielo.
"Oh, Ali, stasera pizza da me. E' da tanto che non passiamo una serata insieme." disse l'amica a telefono.
"Mh, va bene, noleggio anche un film?"
"Non ce ne sarà bisogno, niente film stasera. Solo pizza e una chiacchierata."
Da tempo, Francesca vedeva Alice agire diversamente. Non guardava
nessun ragazzo e spesso, quando le capitava di ricevere complimenti e
di incontrare ragazzi interessati a lei, risultava molto irritata e
rispondeva acidamente. Al contrario, lo sguardo dell'amica seguiva
più le ragazze che l'altro sesso. Ogni tanto notava il cambio
d'umore e l'imbarazzo nel trovarsi negli spogliatoi con le amiche, la
sua fretta nel cambiarsi ed uscire per tornare in classe e il modo in
cui evitava di guardarle. Alice se ne vergognava, si sentiva in colpa e
aveva paura che se qualcuna di loro l'avesse saputo, non l'avrebbe
trattata allo stesso modo. Anzi, forse l'avrebbe considerata una
pervertita, una a cui piaceva osservare. Ogni tanto sospirava e
sorrideva vedendo qualche coppia gay per strada, e s'infuriava sentendo
commenti sprezzanti dei compagni bigotti o semplicemente stupidi.
All'inizio, Francesca credeva fosse solo molto "gay-friendly", ma
evidentemente si prendeva in giro da sola. Non aveva problemi con
l'omosessualità, solo voleva che Alice si liberasse dal peso di
tenersi tutto dentro. Voleva che glielo dicesse, e lei le avrebbe detto
che non era diversa dagli altri e che non doveva angosciarsi tanto. Era
per quel motivo che l'aveva invitata a casa.
Quel sabato sera della primavera di due anni prima, Alice si presento
un po' in ritardo, cosa del tutto inusuale. Era molto tesa, non sapeva
spiegarsi il motivo. Aveva indossato una camicetta color panna a mezze
maniche, un jeans chiaro e un paio di converse bianche. Tra le braccia
stringeva una giacchetta leggera che Francesca prese per appendere
all'attaccapanni.
"'Sera" le disse sorridendo e notando il disagio dell'amica.
"Ciao Fra'."
Alice entrò in casa mormorando cortesemente "permesso" e
"buonasera", ma poi si rese conto che c'erano solo lei,
Francesca, il suo gatto e il canarino nella gabbietta in camera
dell'amica.
"Vieni dai, le pizze sono già arrivate."
Le due si sistemarono in camera, sedute sul tappeto verde intonato con
le pareti, a mangiare. Dopo il momento di disagio
iniziale, Alice si era sbloccata e aveva capito che la tensione che
provava era immotivata. Francesca voleva solo passare del tempo con lei
perché da molto non lo facevano.
Gettato l'ultimo cornicione nel cartone, Francesca puntò i suoi occhi marroni in quelli verdi della rossa di fronte.
"Lo sai che sono una persona diretta che tende a mancare di tatto molto spesso, vero?" chiese, un po' incerta.
Alice respirò a fondo.
"Sì, lo so."
"Bene."
Apparentemente sembrava che nessuna delle due avesse qualcosa da dire,
ma se una terza persona nella stanza avesse avuto la possibilità
di trapanare il cranio alle ragazze, un fiume di pensieri avrebbe
inondato la stanza.
Dopo una serie di sospiri, un silenzio imbarazzante, occhiate preoccupate, Francesca rialzò lo sguardo, decisa.
"Tu sei lesbica." pronunciò la frase con sicurezza. All'inizio
pensava di domandarglielo, ma Alice avrebbe negato con convinzione tale
da rendere il tutto molto comico.
La rossa aveva la bocca semiaperta, gli occhi spalancati e le
sopracciglia inarcate. Cercava di risultare abbastanza scioccata e
voleva prendere il tutto con una risata, in modo da farle credere di
aver preso un granchio. Ma lo sguardo di Francesca era talmente sicuro
che mentirle era impossibile.
"Da cosa l'hai capito?" disse, semplicemente, abbassando lo sguardo
sulla punta dei suoi piedi, dopo aver piegato le gambe ed abbracciato
le ginocchia, come a volersi proteggere, a rintanarsi in se stessa.
"Se c'è qualcuno a cui non sfuggono le più piccole cose
di te, quella sono io. Ti conosco quasi meglio di me stessa e capisco
quando sei a disagio o sei confusa e hai paura di qualcosa."
"E... E ti crea problemi?" ad Alice tremava la voce per la tensione.
Francesca si alzò e le circondò le spalle con un braccio con fare protettivo.
"Quanto sei stupida, rossa? Avrai anche la media del nove, ma per fare
una domanda del genere alla tua migliore amica, devi essere davvero
tonta!" le schioccò un bacio tra i capelli e la tenne
abbracciata per i dieci minuti a venire.
Alice si era sentita estremamente rilassata. Era più leggera,
come se un peso in meno l'opprimesse. La serata trascorse nel migliore
dei modi, tra risate e commenti stupidi.
"Che leggi stamattina?" chiese Francesca, prendendo posto accanto all'amica.
"La ragazza dello Sputnik. Ma ora che sei arrivata, mia cara casinista, mi risulterà difficile leggere."
Sorridendo, Alice mise via il libro e intavolò una fitta discussione con l'amica.
A poco a poco, la classe iniziò a riempirsi e la campanella
delle otto e venti segnò l'inizio delle lezioni. Francesca,
nascosta dietro la schiena del ragazzo più alto e robusto che
Alice avesse mai visto, Giovanni, mangiava attenta a non far rumore.
Ilaria, un'altra amica delle due, scarabocchiava sul banco. Alice si
sporse per osservare il suo disegno: uno scheletro disegnato in modo
molto elementare, stringeva una testa e ripeteva la celebre frase
dell'Amleto di Shakespeare. Una risatina della rossa non sfuggì
all'insegnante di inglese, che subito la richiamò e riprese a
leggere ad alta voce, fermandosi di tanto in tanto a spiegare quanto
letto.
Alice cercava di seguire la lezione, ma quel giorno tutta la classe
sembrava terribilmente distratta. Forse per via delle vacanze di Natale
che si avvicinavano.
Osservava le finestre ghiacciate, la neve che cadeva e gli alberi
imbiancati. L'armonia del paesaggio la tranquillizzava.
Improvvisamente, lasciando che il suo sguardo vagasse, qualcosa
interruppe la sensazione di immobilità e candore che
caratterizzava l'esterno. Una figura femminile, incappucciata e vestita
solo di una felpa nera (Alice tremò al pensiero di quel freddo),
camminava avanti e indietro per la stradina fumando una sigaretta e
infine si sedette su di una panchina. Era strano come una semplice
immagine scura avesse potuto cambiare totalmente la situazione e creare
un susseguirsi di emozioni in Alice. Dapprima la rossa si chiese
perché una persona dovesse sedersi al gelo davanti ad un liceo
desolato. Poi fu incuriosita dall'immobilità di quella donna e
infine iniziò con il suo solito gioco dell'immaginare pensieri,
vita e situazioni di sconosciuti.
Per tutte e sei le ore, l'attenzione della studentessa fu completamente
assorbita dalla ragazza sulla panchina. Era come se un alone di
tristezza la circondasse. Suonata l'ultima campanella, Alice si
alzò e si stiracchiò lentamente.
"Ali, poi mi spiegherai perché sei stata a fissare la finestra
tutto il giorno, eh." Francesca era già incappucciata e ben
coperta, lo zaino in spalla e un'aria fintamente seccata. Era come se
per tutto il tempo trascorso in classe, nessuno fosse stato con lei. Si
era sentita isolata. Lei, la neve e la ragazza in nero.
Ripose tutti i suoi libri nella cartella e indossò cappotto,
sciarpa e cappello, poi borbottò qualcosa a proposito del fatto
che volesse andare assolutamente a sciare e che la neve l'aveva
distratta.
Uscite dalla classe, le due amiche continuarono a chiacchierare. La
bionda parlava di quanto fosse stato noioso il professore d'inglese e
di quanto riuscisse a rendere odioso perfino Shakespeare, che a lei
piaceva tanto.
"Ti rendi conto? Ne parla con la stessa intensità con cui un
condannato a morte dichiara di preferire l'iniezione letale alla sedia
elettrica. E' atroce. Non è proprio portato per insegnare
letteratura inglese."
Alice era assente e continuava ad annuire e a dare ragione all'amica che polemizzava senza sosta.
Una volta fuori dal carcere/manicomio/liceo Vian, Alice vide la ragazza
seduta sulla panchina. La stava osservando e per un momento rimase
immobile sulle scale a chiedersi perché non spostasse lo
sguardo. O forse rimase bloccata perché quello sguardo l'aveva
completamente imprigionata. Non ne aveva mai visto uno tanto triste.
Tanto solo, sconfortato, stanco e dagli occhi così gonfi di
lacrime.
Uno scossone di Francesca la risvegliò da quella sorta di trance
in cui era caduta. Il tempo di girarsi verso l'amica e di riportare lo
sguardo a sostenere quello della sconosciuta, e lei se n'era andata,
portandosi dietro una scia di passi stanchi come quegli occhi.
"Oh, Alice? Ci sei? Ma che hai stamattina?"
"Niente, scusa, è solo che il freddo mi ha stordita per un
attimo." Alice dissimulò tutto con un sorriso, poi strinse il
braccio di Francesca e scesero le scale, dirette ognuno a casa propria.
Nella mente di Alice però, quegli occhi continuavano a fissarla.
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