CAPITOLO 18
betato
da quella Tonna paziente di nes_sie
Mi
svegliai di soprassalto con la strana sensazione di essermi persa
qualcosa.
Avevo ancora la mente annebbiata e confusa dagli avvenimenti del giorno
prima,
soprattutto riguardo a quelle pratiche che ancora dovevo mettere in
ordine.
Sentivo
attraverso le ossa la spiacevole sensazione di aver tralasciato
qualcosa di
importante. Ma cosa?
Fatti
una cura di fosforo!
Già,
come nonna Gelsomina mi raccomandava sempre.
Ripiombai
con la testa sul cuscino, voltandomi e ritrovando i contorni del
tiepido
salotto dell’appartamento. Non ricordavo nemmeno di esserci arrivata la
sera
prima, l’unico flash che la mia mente ancora assonnata mi permetteva di
metabolizzare era un sonoro e piacevole ceffone che avevo rifilato a
Simone.
Mi
crogiolai nel suono echeggiante dello schiocco sulla sua pelle e delle
sue
successive lamentele su quanto fosse poco adatto per una ragazza essere
così
violenta. La prossima volta ci avrebbe pensato bene prima di stuprarmi
sulla
scrivania di James.
Io
non mi appellerei a quel capo d’accusa…
Arrossii
violentemente e nascosi il volto tra le pieghe del divano. Dannazione
al mio
Cervello e al suo essere così maledettamente realistico. C’era stato
forse un
momento, un nano-secondo, una particella di tempo infinitesimale in cui
avrei
anche accettato la proposta del calciatore.
Insomma…
ero pur sempre un essere umano con le sue debolezze!
Per
fortuna la mia parte razionale aveva avuto il sopravvento, anche perché
tra me
e Simone non ci sarebbe stato più nulla. Lo avevamo chiarito in quella
camera
d’hotel e mi sentivo sempre più sicura di quella mia decisione.
Era
stata un’avventura, una scopata e via.
Più
di una…
Non
essere puntiglioso!
Sbuffai
e guardai l’orologio. Erano appena le sette del mattino, ma non avevo
alcuna
voglia di alzarmi. Era come se quella coperta costituisse una specie di
bozzolo
protettivo che mi isolava dal resto del mondo, dalla festa di Capodanno
a casa
degli Abbott, alle promesse fatte a Sofia.
«Stiamo
poltrendo?»
Una
voce mi sorprese e mi fece sobbalzare, poi incrociai il mio sguardo con
quello
di Leonardo. Aveva un’espressione proprio buffa, sembrava quasi quella
di
Simone appena sveglio. Riflettei che i due cugini, anche se non lo
avrebbero
mai ammesso, si somigliavano molto.
I
capelli di Leo, per quanto corti e ricci, erano sparati in ogni
direzione,
mentre con una mano chiusa a pugno si stropicciava l’occhio sinistro.
«Com’è,
in piedi a quest’ora?» chiesi, notevolmente stupita.
Era
raro vedere un ragazzo di vent’anni e passa in piedi alle sette
spaccate del
mattino, fatta eccezione per la sottoscritta che voleva passare in
ufficio a
prendere in prestito le pratiche da riordinare in modo da poterle
esaminare
meglio nella tranquillità di casa propria.
Leonardo
sbadigliò sonoramente, lasciandomi osservare bene le sue fauci e le
tonsille.
Aveva un bel colorito gengivale.
«Celeste
russa come un trombone, non la sopporto.» Si sedette sul primo sgabello
disponibile e posò la testa scarmigliata sul braccio. «Credo che oggi
mi
sparerò un litro di caffè via endovena.»
Sorrisi.
In effetti, dovevo ammettere che nelle poche occasioni in cui io e la
mia
migliore amica avevamo condiviso la stanza, la maggior parte delle
volte
l’avevo passata in bianco – magari in compagnia di un bel libro.
«Non
è colpa sua, lo sai…» dissi in sua difesa. «Ha il setto nasale deviato.»
Leonardo
sbadigliò una seconda volta. «Se continua così, glielo raddrizzo con un
pugno…»
piagnucolò.
«Non
fare l’esagerato!» lo redarguii e mi decisi finalmente ad alzarmi.
Lo
raggiunsi e cominciai a tirare fuori gli utensili per preparare
un’abbondante
colazione. Di sicuro avrei messo su ben due macchinette del caffè.
Sapevo alla
perfezione che quella serata l’avrei passata in bianco, a scartabellare
ogni
appunto pur di trovare qualcosa di simile nelle passate deposizioni.
«Insomma
ieri avete fatto tardi tu e Microcefalo,» mi domandò il calciatore.
Mi
spuntò subito un sorrisetto. «Microcefalo non l’avevo mai sentita…»
ridacchiai.
Leonardo
sorrise di rimando, gonfiando il petto come il proverbiale galletto.
«Devo
ammettere di avere fantasia quando si tratta di offendere Simone. È uno
dei
miei passatempi preferiti.»
«Ti
capisco benissimo.» Cominciai a preparare la moka.
Seguì
un silenzio intervallato unicamente dai rumori del metallo che veniva
chiuso e
del fornello acceso. Non mi ero mai trovata da sola col ragazzo della
mia
migliore amica, personaggio famoso oltretutto, perciò ero davvero in
crisi. Non
sapevo né cosa dire, né cosa fare.
Alla
fine, l’unico argomento in comune era quel bamboccio di Simone. Di
sicuro non
avevo alcuna intenzione di parlare ancora di lui.
«Credo
che tu gli piaccia,» commentò d’improvviso, facendomi voltare di scatto.
«Eh?!»
sbottai, incapace di aggiungere altro. «Non prendermi in giro, per
piacere. A
quello già ci pensa tuo cugino tutti i santi giorni.»
Sentii
Leonardo ridacchiare. «Sai, Ven…» sospirò e si alzò per prendere una
delle
tazze che erano riposte vicino al lavello. «Conosco Simone da quando è
nato e,
per un certo verso, posso dire che siamo cresciuti insieme, che ci
hanno
influenzato le stesse cose e che – in fin dei conti – io e lui ci
assomigliamo
più di quanto io voglia ammettere,» confessò.
«Pensavo
non lo avresti mai ammesso,» gli dissi sincera.
Leonardo
sorrise sghembo. In quella frazione di secondo si notò quanto i due
cugini si
somigliassero, sia nei tratti giovanili del viso, sia in quella strana
luce
magnetica che avevano negli occhi, proprio vicino all’iride, talvolta
nascosta
dalle lunghe ciglia socchiuse.
«So
che è difficile da dire, soprattutto per me che ho avuto contrasti con
Simone
da tutta una vita. È da sempre che ci facciamo la guerra, che cerchiamo
di
primeggiare l’uno sull’altro, ma lo facciamo da quando ne ho memoria e
francamente ho anche dimenticato il perché.»
Sentii
l’acqua del caffè cominciare a bollire, coprendo un poco il silenzio
che a mano
a mano si era creato tra me e di Celeste. Mi accorsi che c’era un
abisso tra
lui e Simone e quei tre o quattro anni di differenza tra i due cugini
si
vedevano proprio in questi momenti di confessioni.
Leonardo,
per quanto avesse fatto una valanga di cazzate in tutta la sua vita,
era molto
più maturo e soprattutto riusciva ad ammettere i propri sbagli, anche
se ancora
non avevo capito dove volesse andare a parare.
«È
pronto,» dissi, afferrando con la presina la moka e cominciando a
dividere il
caffè in due tazze.
Almeno
avevo interrotto un possibile argomento pericoloso. Non era la prima
volta che
un membro della famiglia Sogno mi dicesse che Simone nutriva qualcosa
di più
che semplice attrazione fisica per me, ma ancora non volevo crederci.
Ad
Aton si era incredibilmente aperto con me, lasciandomi vedere una parte
del suo
carattere che non sapevo nemmeno potesse esistere, però poi gli avevo
raccontato del Capodanno con James e lui non aveva fatto una piega.
Aveva
silenziosamente accettato di farsi da parte.
Afferrai
la tazza con dita tremanti e cominciai a sorseggiare il caffè bollente,
senza
sapere cosa dire. Avrei dovuto dimenticare tutta quella storia e
prendere la
palla al balzo con l’offerta pacifica del giovane Abbott di passare la
sera del
31 tutti assieme, eppure mi ritrovavo sempre a girare attorno a Simone,
volente
o nolente.
Mi
era venuto a prendere la sera precedente e se non avessi avuto
sufficiente
autocontrollo, di sicuro sarei finita con il fare l’amore con lui
un’altra
volta.
L’ennesima,
aggiungerei.
Taci.
«Buongiorno,
ragazzi…» bofonchiò una Celeste assonnata e scarmigliata, mentre
avanzava in
cucina vestita di un enorme pigiamone con le nuvolette e i capelli
perennemente
in disordine.
«’Giorno,
amo’» Leonardo la raggiunse e si chinò per cercare le sue labbra.
Distolsi
lo sguardo quasi senza pensarci, eppure non avrebbe dovuto darmi
fastidio.
L’idea che la mia migliore amica fosse felice, mi avrebbe dovuta far
sentire
contenta a mia volta.
«Sei
stato mattiniero, com’è possibile?» s’informò sospettosa. Raggiunse il
lavello
e preparò nuovamente la macchinetta dopo averla sciacquata
accuratamente.
Leonardo
scrollò le spalle. «Avevo troppi pensieri per la testa, e poi si
avvicina la
notte di Capodanno e, con essa, il rientro a casa. È finita la pacchia!»
Io
e Celeste ridemmo all’unisono. Di certo, Leonardo era un tipo
divertente e
scherzoso, non antipatico e musone come il cugino.
«Simone
dorme?» s’informò la mia migliore amica, guardandomi con un sorrisetto
poco
rassicurante.
«E
che ne so, io? Per me potrebbe anche essersi gettato dalla finestra,»
sentenziai e finii di fare colazione.
«No,
ho pensato che visto ieri sera…» e lasciò che i puntini di sospensione
completassero il suo pensiero allusivo.
Ridussi
gli occhi a due fessure sottilissime, da cui scaturirono dei lampi
assassini.
«Ieri sera non è successo assolutamente nulla, è inutile che insistete
a farmi
l’interrogatorio!»
Celeste
e Leonardo si cercarono. «Anche tu glielo hai chiesto?» sbottò lei.
«Ho
pensato che poteva aprirsi con uno che condivideva lo stesso suo odio
per
Simone, scusa!» si giustificò.
La
mia migliore amica puntò il famoso indice pungolatore contro il suo
ragazzo. «E
tu pensi che verrebbe a dire una cosa così privata a te – sconosciuto
calciatore e parente di Simone – piuttosto che alla sua migliore amica
dalla
nascita?» sbottò.
«Chi
deve dire cosa?»
D’improvviso
la voce semi-assonnata di Simone ci fece gelare a tutti quanti.
Rimanemmo
immobili e in silenzio per qualche minuto, voltandoci solamente quando
Simone
cominciò a ciabattare per il soggiorno.
Con
le ciabatte a forma di
ippopotamo.
Ovviamente.
Si
sedette sullo sgabello accanto a Cel, lanciandole un sorriso mellifluo
che
nemmeno il più viscido abitante del sottosuolo sarebbe stato capace di
emulare.
«Giorno, cuginetta,» ridacchiò.
«Lasciala
in pace, cretino,» sibilò Leonardo, monitorandolo da lontano quasi come
una
leonessa controllava i suoi cuccioli che giocavano troppo vicino ad uno
stagno
pieno di alligatori.
«Taci,
babbeo.» rispose per le rime Simone, poi si guardò intorno notando
l’assenza
della sua colazione. «Ehi, pinguino in smoking, dove sono i miei CocoPops?» ordinò, neanche fosse stato
il principe del Galles.
«Dove
sono da quando li abbiamo comprati, Genio. Nella dispensa!» gli
risposi,
innervosita.
Avrei
dovuto già essere pronta, lavata e vestita nel mio completo da lavoro,
invece
mi ritrovavo lì a litigare con Simone di prima mattina.
Per
fortuna questa volta avevo due testimoni che mi avrebbero impedito di
ucciderlo.
Cioè, Celeste me lo avrebbe impedito, Leonardo sarebbe stato mio
complice.
«Sì,
ma perché non si trovano a galleggiare nel mio latte, all’interno della
tazza a
forma di Grande Puffo?» specificò, fissandomi con quegli occhi neri e
imperiosi.
Di
sicuro, in una vita precedente, Simone era stato un qualche imperatore
oppure
re medievale, talmente viziato da finire alla ghigliottina prima di
emanare il
suo primo proclama come sovrano.
«Ma
fa sempre così?» chiese Leonardo stupito.
Scossi
la testa e cercai di afferrare la scatola di cereali posta in alto. «Di
solito
è anche peggio,» risposi, allungandomi il più possibile.
Nel
frattempo sentivo gli occhi di Simone addosso. Mi bruciavano dietro la
schiena
quasi come avesse dei laser al posto delle iridi.
Finalmente
riuscii ad afferrare la scatola con la punta delle dita e la tirai giù,
sbuffando e aggiustandomi il pigiama che si era tutto aggrovigliato. Mi
voltai
trovandomi Simone con un sorriso beffardo in volto.
«Ecco
i tuoi stupidi cereali,» ringhiai, posandoglieli davanti agli occhi.
«Ed ecco
la tua stupida tazza da poppante. Il latte vallo a prendere da solo.»
«Devi
prepararmi la colazione, Ven. Sennò come potresti ricambiare il fatto
che ti ho
ospitato in casa mia senza chiederti nulla in cambio?»
Celeste
lo fissava inorridita.
«Dai
Simo’, dacci un taglio,» lo ammonì Leonardo.
Loro
non erano abituati a vedere il lato peggiore di Simone, mentre io ormai
ci
avevo fatto il callo. Poco m’importava se mi trattava da schiava, ma
quella
mattina avevo ben altro a cui pensare.
«Va
bene,» dissi e mi diressi verso il frigorifero per prendere il cartone
del
latte.
Lo
posai sul bancone, misi la tazza al centro della tovaglietta e afferrai
la
busta con i cereali che scrocchiavano al suo interno. Dopodiché feci
cenno a Simone
di avvicinarsi.
«Guarda
come si prepara una colazione, perché è la prima ed ultima volta che lo
faccio,» gli spiegai.
Simone,
allora, pensando di aver vinto con facilità quella battaglia, mi
sorrise
sornione e si avvicinò quel tanto da sporgersi sul bancone.
«Devi
prendere il latte e versarlo nel recipiente, poi aggiungerci i cereali
e
mescolare il tutto,» dissi, concentrandomi nel suo sguardo e tentando
di
distrarlo. Riuscii ad avvicinarmi quanto bastava per sfruttare il suo
momentaneo intorpidimento post-sonno, così gli rovesciai mezzo cartone
di latte
gelido nel pigiama e lui subito scattò in piedi imprecando.
«Ma
che cazz-…?» ringhiò.
Afferrai
una manciata di cereali avvicinandomi.
«Sei
uscita fuori di testa, porca miseria?» urlò ancora.
A
quel punto gli posai una mano sul petto, lasciando cadere i cereali nel
pigiama
ormai completamente zuppo. «Te lo ripeto per l’ultima volta: io non
sono una
delle tue servette.»
E
mi diressi in bagno per prepararmi.
Prima
di svoltare l’angolo, udii un grido di trionfo da parte di Leonardo.
«Cugì,
mi dispiace ma la tappetta ti tiene per le palle!» e continuò a
sganasciarsi
fino a quando fui troppo lontana per sentirlo tessere le mie lodi.
Riuscii
ad arrivare in ufficio prima che piovesse a dirotto. Erano un po’ di
giorni che
la temperatura si era alzata di qualche grado e impediva alla neve di
scendere
ancora, rendendo le strade di Londra completamente inagibili.
«Sei
venuta anche oggi?» chiese la voce di Yuki alle mie spalle.
Roteai
gli occhi al cielo e mi liberai del cappotto umido delle prime gocce di
pioggia. «Devo soltanto prendere dei documenti, poi levo le tende e non
mi
rivedrai fino al 6 Gennaio,» tagliai corto.
La
giapponese mi sorrise. «Ti hanno dato parecchi giorni di ferie…»
insinuò.
Mi
sentii presa in giro. «Cosa vorresti dire?»
Yuki
fece spallucce. «Nulla, è solo che noi tirocinanti torniamo tutti il 2
Gennaio,
non so perché te debba tornare il 6. Evidentemente la tua presenza qui
non è
poi tanto necessaria…»
Rimasi
di stucco a quella notizia. Possibile che dovevo essere sempre l’ultima
a
sapere le cose?
«Ci
sarà una spiegazione, e ora scusami,» tagliai corto, raggiungendo
l’archivio
per procurarmi finalmente quei documenti da esaminare.
A
metà del corridoio, però, come in un perfetto film americano di serie
B, andai
a sbattere contro James.
«Oh,
scusa!» dissi mortificata.
Il
sorriso dell’avvocato mi avvolse come una calda coperta in un giorno
d’inverno.
«Andiamo di fretta, eh? Indaffarata per i preparativi di domani?»
Scossi
la testa. «No, è che volevo subito controllare alcune cose. Credo che
mi
porterò un po’ di lavoro a casa, visto che ci dovrò rimanere fino al 6
di
Gennaio,» sbuffai.
James
non mutò espressione.
A
quel punto mi sentii in dovere di confessargli la mia paura. Alla fine,
Yuki
era riuscita a mettermi la pulce nell’orecchio e adesso non facevo che
pensare
a Mr. Abbott che si rendeva conto della mia inutilità come tirocinante.
«Cosa
ti preoccupa?» mi chiese lui, afferrandomi per le spalle e conducendo
entrambi
nell’archivio.
«Nulla,
ho saputo che sono l’unica che tornerà il 6, mentre gli altri
tirocinanti
riattaccano il turno il 2. Credo di non aver fatto poi una così buona
impressione a tuo zio,» confessai amareggiata.
James
a quel punto scoppiò a ridere.
Mi
sentii profondamente offesa da quella sua reazione. «La mia vita da
sfigata ti
fa divertire?» gli chiesi, inarcando un sopracciglio.
«No,
no, non è nulla del genere.» Ammorbidì la sua espressione con un altro
di quei
sorrisi splendidi. «Diciamo che sono un po’ responsabile di questa tua
“vacanza
prolungata”,» mormorò enigmatico.
Rimasi
completamente esterrefatta da quella confessione.
«Prima
prendi i documenti, poi andiamo nel mio ufficio e ti spiego tutto,»
sussurrò
misterioso. «Ti aspetto lì.»
Con
perplessità crescente, mi adoperai per recuperare le pratiche dagli
anni ’90
fino all’inizio del 2012. Ero sicura che tra uno di quei fascicoli
avrei
trovato qualche riscontro su una caso abbastanza simile a quello di
Cloverfield
contro Sogno. Ci doveva essere per forza qualcosa tra gli archivi che
mi
aiutasse a venirne a capo.
Tra
poco ci sarebbe stato il test del DNA, e per quanto credessi alla
parola di
Simone, viste le nostre recenti attività,
ero parecchio in dubbio sulla riuscita di quel test.
E
se fosse risultato positivo? Se davvero il bambino della Cloverfield
era di
Simo?
Non
avevo idee in merito, ma più di tutto non avevo alcuna intenzione di
perdere la
causa e di giocarmi il praticantato.
Infilai
i documenti nella valigetta che mi ero portata da casa – e che ora
pesava
peggio di un macigno –, poi mi diressi verso l’ufficio di James e
bussai.
Chissà
quale fosse il motivo che si celava dietro il mio rientro ritardato in
ufficio.
«Posso?»
chiesi intimorita.
«Entra,
entra!» mi fece James. Quando fui dentro il suo ufficio, rimasi
allibita fissando
il giovane avvocato che tentava di rimettere in ordine le penne e i
fogli
sparsi sul pavimento.
I
suoi occhi azzurri mi bloccarono. «Scusa il disordine, ma credo che la
donna
delle pulizie abbia urtato la scrivania senza accorgersene. Stamattina
ho trovato
tutto messo a soqquadro.»
Il
colore di un pomodoro maturo non si avvicinava nemmeno lontanamente al
rossore
che ora si era dipinto sul mio viso. Sentivo le guance in fiamme e
rimanere
ferma in quelle quattro mura, non faceva altro che farmi rimbombare
nella testa
le parole di Simo.
È
una vita che sogno di farlo qui
sopra.
Rabbrividii.
Possibile
che ogni mio ricordo più imbarazzante doveva essere inspiegabilmente
legato a
quel marmocchio? Volente o nolente era la fonte inesauribile di tutti i
miei problemi,
partendo con il caso giudiziario che mi aveva costretta a dividere
l’appartamento con lui e finendo con i nostri “incontri” al di là del
rapporto
puramente professionale.
«B-Bene…
di cosa volevi parlarmi riguardo il mio rientro?» cercai di chiedergli,
evadendo la scrivania del giovane Abbott come se fosse stata fabbricata
dal
diavolo in persona.
James
finì di riordinare i fogli, poi mi sorrise. «È una cosa piuttosto
imbarazzante,
a dire la verità…» cominciò.
Oh,
questo non sa davvero cosa
sia l’imbarazzo. Vogliamo dirgli che sta posando le mani dove tu e il
tuo
cliente avete quasi trombato ieri sera?
Tu
non esisti. La tua voce è frutto solo della mia immaginazione. Non devo
ascoltarti.
«Dimmi
pure,» sorrisi.
Ero
sempre più preoccupata da cosa James trovasse “imbarazzante”. Quel
termine non
gli si addiceva, anche perché era un uomo per bene e non un ragazzino
talentuoso e immaturo che non perdeva occasione di farsi paparazzare e
ridicolizzare sui tabloid.
«Beh,
diciamo che ho chiesto io a zio August di prolungare la tua vacanza,»
sospirò.
«Da quando hai accettato di passare il Capodanno con me, non ho
resistito. Ho
pensato che dovevo fare qualcosa per ricambiare, per farti capire
quanto io
tenga a te nonostante ci sia di mezzo questo caso che mi impedisce di
trattarti
come meriteresti.»
Mi
stavano tremando le gambe. Non sapevo cosa aspettarmi da James perché
era
capace di sorprenderti con questi gesti d’affetto incondizionato, senza
ricevere null’altro in cambio.
«C-Cosa
stai cercando di dirmi?» soffiai.
James
allora si avvicinò e mi posò entrambe le mani sulle spalle. «Ho pensato
che
sarebbe stato bello tornare con i tuoi amici a Roma, prenderti qualche
giorno
per andare a trovare la tua famiglia,» disse.
Non
appena realizzai cosa aveva fatto, sentii le lacrime pungermi agli
angoli degli
occhi.
«Dimmi
che stai scherzando…» gli feci, senza sembrare scortese.
L’idea
di tornare a casa l’avevo scartata dapprincipio, proprio perché ero
invischiata
in questo caso che mi succhiava via tutte le energie.
«Ti
ho comprato un biglietto per tornare con lo stesso volo dei tuoi amici.
Non
preoccuparti, anche zio August era d’accordo. Per cinque giorni posso
sopravvivere anche da solo. Riposati, vai a trovare la tua famiglia e
goditi
questo periodo accanto ai tuoi cari,» mormorò.
Ecco,
in quel preciso istante mi innamorai di nuovo di lui.
James
Abbott era forse la persona più gentile e altruista che avevo mai
conosciuto.
Non solo c’era sempre per me, ma nonostante avessimo deciso di
prenderci una
pausa, almeno fino alla fine dell’udienza, lui si era sempre
preoccupato per
me.
«Grazie
ma non posso accettare…» dissi, allontanandomi.
«Insisto,»
continuò lui. «Ti serve una vacanza, Ven, lo sai anche tu. Non so se si
tratta
di Mr. Sogno o del caso che stai seguendo, ma ti vedo molto più
distratta. Non
vorrei che questo influisse sul tuo lavoro. Perciò meglio prevenire,
non
pensi?»
Il
suo ragionamento non faceva una piega.
«S-Sì
ma… come potrò mai ripagarti?» gli chiesi.
Il
giovane Abbott sorrise. «Mi ripagherai quando vinceremo questa
maledetta causa
e finalmente potrò chiedere il trasferimento ad un altro ufficio,»
disse, poi
si abbassò raggiungendo il mio orecchio. «Mi ripagherai quando
finalmente
potremmo stare insieme alla luce del giorno.»
***
Non
avrei mai creduto che il giorno di San Silvestro fosse addirittura più
caotico
del famoso Venerdì Nero. I
supermercati erano stati presi d’assalto, quasi fosse stato previsto
l’arrivo
di un uragano che avrebbe reso inagibile l’isola per le successive due
settimane.
«Credi
che riusciremmo a comprare qualcosa per domani?» domandò scettica
Celeste.
Leonardo
fissava basito due vecchiette che litigavano per la stessa passata di
pomodoro.
«Magari ordiniamo una pizza?»
«No,
ho appurato che gli inglesi saranno pure bravi a fare il the, ma la
pizza
lasciamola agli italiani, così come la pasta,» dissentii.
Quella
volta con Simone mi era bastata. Per digerire la pasta di quella pizza
mi ci
erano volute due settimane e un blister di compresse analgesiche.
«E
allora che si fa? Qui non è rimasto praticamente niente!» domandò la
mia amica
allarmata.
«Non
disperate, mi sono trovata in situazioni peggiori,» dissi, con il tono
che
avrebbe utilizzato un sergente veterano dei Marines.
«Sì,
forse al mercato ortofrutticolo di Vattelappesca, in provincia di
Burinocity,»
disse Simone.
Lo
fulminai. «Mi ricordi il motivo per cui sei venuto? Visto che tu non
vai mai, e
sottolineo MAI a fare la spesa?»
Simone
sbuffò e si aggiustò un ciuffo ribelle di capelli con una mano. «Mi
assicuro
che tu non rovesci addosso a poveri malcapitati un’intera colazione
soltanto
perché è il tuo periodo del mese,» rispose. «Se ti girano le ovaie,
prenditela
con madre natura!»
«Punto
primo: non ho il ciclo; punto secondo: non starnazzare come un
maledetto gallo
del pollaio! È pieno di gente, vuoi attirare altra cattiva pubblicità
su di
te?» ringhiai.
«Altra?»
chiesero all’unisono Leo e Cel.
Non
mi ero affatto resa conto che loro due non sapessero ancora nulla del
caso
giudiziario di cui mi stavo occupando per conto di quel mammalucco di
Simone.
Me
lo ritrovai vicino, con lo sguardo da “l’hai fatta grossa, eheheheheh”.
Gli
rifilai una gomitata nel costato giusto per prendermi una qualche
specie di
rivincita. «Sì, sapete com’è fatto. L’altra volta si è ritrovato a
flirtare con
un trans e non se n’è nemmeno reso conto,» ghignai, mentre Leonardo non
faceva
che ridacchiare.
«Ma
non è vero!» protestò lui.
«T’oh,
vedo una passata di pomodoro non ancora presa d’assalto!» urlai,
distraendoli
tutti da Simone che continuava a lagnarsi su quanto fosse abile nel
riconoscere
una donna quando ne incontrava una.
«Stasera
cosa hai intenzione di metterti?» mi domandò Sofia, mentre
giocherellava con
quei riccioli biondi.
Io
ero alle prese con i documenti che mi ero portata a casa. Stavo
rivedendo un
vecchio caso del ’98, precisamente McAvery contro Spencer in cui il
test del
DNA era risultato positivo nonostante il padre continuasse a portare
avanti la
sua innocenza.
Leggendo
le deposizioni e rifacendomi al processo, alla fine si venne a scoprire
che il
bambino era effettivamente di Mr. Spencer, solo che dopo l’abuso di
sostanze
stupefacenti aveva completamente rimosso di essere andato a letto con
Miss
McAvery. Infatti, anche il test della macchina della verità era
risultato
positivo, confermando che il signor Spencer era innocente, o almeno non
ricordava nulla di ciò che aveva fatto.
Simone
usa droghe pesanti?
Credo
che sniffi pure la colla per la carta da parati, cretino com’è.
«Mi
ascolti, Ven?» continuò Sofia, vedendomi assorta nel lavoro.
Scossi
la testa. «Scusami, mi ero persa in queste deposizioni,» e le sorrisi.
Gli
occhi azzurri di Sofia mi squadrarono. Aveva gli occhi di un felino, e
come
essi, avevo sempre la sensazione che riuscissero a scavare molto più a
fondo di
quanto permettessi loro.
«Stai
lavorando troppo, avresti bisogno di una vacanza,» disse dolcemente.
Era
la seconda persona che me lo diceva nel giro di quarantotto ore.
«Beh,
credo di poter rimediare,» dissi, tanto valeva vuotare il sacco. Lo
avevo detto
unicamente a Celeste e Leonardo. Simone ancora non ne sapeva nulla.
«Dimmi
tutto!» disse eccitata.
«Nulla,
James mi ha comprato un biglietto aereo per Roma. Starò dai miei fino
al 6 di
Gennaio, quando tornerò a lavoro,» sospirai.
Gli
occhi di Sofia s’illuminarono. «Ma è fantastico! Ti farebbe bene
staccare un
po’ la spina da tutto questo.»
«Già,»
asserii.
Strinsi
con forza le dita attorno a quei documenti. Di sicuro avrei fatto delle
copie
per portarmeli dietro fino a Tivoli. Non avevo alcuna intenzione di
staccare
completamente dal lavoro.
«E
Simone cosa ha detto?» mi chiese lei, d’improvviso.
Mi
morsi a sangue il labbro inferiore. Avrei dovuto aspettarmelo, anche
perché
Sofia era sua sorella – tanto per cambiare. Mi ritrovavo circondata
dalla
famiglia Sogno, e non potevo fare altro che mentire.
«Non
lo sa,» affermai sicura, senza che la voce mi tremasse.
«Capisco,»
soffiò Sofia, torturandosi le mani in grembo. «In fondo non sei tenuta
a dirgli
niente, visto che non c’è nulla tra di voi…»
Non
sapevo se quello fosse un patetico tentativo di farmi ammettere che,
dopo
tutto, qualcosa c’era stato – e forse anche di più –, oppure fosse
davvero
sincera.
Sofia
era un enigma ed io mi sentivo sempre più strana a parlare con lei.
Alle volte
la sua sincerità sembrava finta, quasi fittizia e volta unicamente ad
ottenere
qualcosa di molto più radicato. Avevo quasi la sensazione di essere
solamente
un burattino nelle sue abile mani.
Una
Mangiafuoco dai capelli biondi e gli occhi chiarissimi.
«Diciamo
che non è esatto,» ammisi, con riluttanza.
Gli
occhi di Sofia s’illuminarono. «Vuoi dire che...?»
Alzai
le mani per tranquillizzarla. Per fortuna Simone era uscito con
Leonardo e
Celeste si stava facendo una doccia in previsione della serata.
«Calma
i bollenti spiriti. Questa cosa è morta prima ancora di cominciare e
non ho
intenzione di parlarne. Inoltre, credo che questa vacanza mi farà bene
anche
per staccare da… sì, ehm… per allontanarmi da lui,» ammisi.
Sofia
annuì e si fece più vicina. «Tranquilla, non lo difendo. So com’è fatto
mio
fratello e so che può raggiungere dei livelli di idiozia incredibili.
Non ti
chiedo di spiegarmi tutto, lo farai quando sarai pronta e se lo vorrai.
Solo
che…» e s’interruppe.
«Solo
che?» la incalzai.
Sbuffò
e si spostò i capelli biondi dalla fronte. «Niente, fai finta che non
abbia
detto nulla.» E sorrise.
Cercai
di non crucciarmi sulla strana reazione avuta da Sofia. Per fortuna,
qualche
minuto dopo i ragazzi rientrarono, accompagnati da Ruben. Subito la
biondina
gli gettò le braccia al collo, cercando le sue labbra sotto lo sguardo
schifato
di Simone.
Mi
alzai e andai a tirargli platealmente un orecchio perché non si
meritava di
giudicare le persone con cui sua sorella desiderasse stare.
«Ahi,
ahi, ahi!» si lamentò.
«Te
lo meriti, antipatico!»
Il
pomeriggio trascorse organizzando cosa avremmo dovuto preparare per
pranzo il
giorno dopo con quelle quattro cose contate che eravamo riusciti a
saccheggiare
al supermarket. Alla fine fummo costretti a telefonare a casa di Rose,
dove si
era trasferita nonna Annunziata, e invocare il suo sommo aiuto
culinario.
Una
volta terminato, noi ragazze ci chiudemmo nella mia stanza, barra
quella di Cel
e Leo, per svuotare i nostri armadi metaforici e cercare qualcosa di
decente da
indossare per Capodanno. Sofia optò per un bel vestito color verde
acqua, di
chiffon, abbastanza corto da lasciarle scoperta la caviglia e quel
meraviglioso
sandalo che aveva trovato scontato su e-bay.
«Mi
sono innamorata di queste scarpe!» trillò estasiata.
L’oro
del sandalo riprendeva meravigliosamente il colore dei suoi capelli,
così da
renderla quasi una sacerdotessa del passato.
«Sono
stupende, davvero. Ti sta tutto benissimo,» le disse Cel sorridendo.
«Anche
tu sei stupenda,» rispose la piccola Sogno.
In
effetti, persino la mia migliore amica era lungi da come la ricordavo.
Aveva
finalmente dismesso i jeans sdruciti da studentessa universitaria e
aveva
optato per un paio di pantaloni neri a vita alta, con la gamba larga,
quasi a
palazzo.
Le
stavano divinamente con la camicia di pizzo, da cui uscivano dei
merletti.
Entrambe
parevano delle modelle ed io mi sentii particolarmente fuori luogo. Ci
sarebbe
mancata solo la fidanzata puzza-sotto-al-naso di quel cretino di Robbeo
per
completare il quadretto di Ven la sfigata.
Quella
sera a Cambridge non eri
male…
Caso
fortuito.
«Ora
dobbiamo occuparci di te,» ridacchiò Sofia.
Alzai
le mani in segno di resa. «La mia idea era quella di riciclare il
vestito della
sera a Cambridge, visto che non posso permettermene altri,» ridacchiai.
Sofia
sorrise. No, non sorrise, ghignò. «E a cosa ti servo io? Per fortuna ho
dei
negozi che mi mandano sempre dei “campioni” gratuiti affinché li
indossi a
qualche festa famosa, al fine di pubblicizzarli,» spiegò, andando verso
uno
degli armadi di quella stanza che non avevo mai aperto. «Li lascio qui
da Simo
perché altrimenti io e Ruben non avremmo tanto spazio.»
Aprì
quella specie di tempio dell’alta
moda e rimasi completamente intorpidita.
«Devi
solamente scegliere,» disse sorridente.
«I-Io…»
soffiai, allungando le dita verso della stoffa rossa che aveva
particolarmente
attirato la mia attenzione.
Celeste
si avvicinò e mi posò le mani sulle spalle. «È l’ultima notte
dell’anno. Per
una volta potresti lasciarti andare.»
Lasciarmi
andare.
Quelle
due parole erano di troppo per me. Ci pensai per il resto del
pomeriggio,
mentre mi ero provata decine di vestiti e di scarpe, senza mai smettere
di
credere che la mia occasione l’avevo già avuta.
Mi
ero già lasciata andare. Fin troppo.
Prima
con James, nonostante il rapporto inter-ufficio fosse proibito, poi con
Simone,
il che era ancora più grave perché era mio cliente. Entrai in bagno
solo per
sciacquarmi il viso. C’erano ancora troppi interrogativi cui avrei
dovuto
rispondere.
James
mi aveva appena mandato un text:
sto
arrivando. ti aspetto al portone.
L’idea
di passare la prima parte di Capodanno nella grande villa degli Abbott
non
aveva allettato nessuno, soprattutto Sofia che aveva creduto sino in
ultimo di
avermi tutta per sé.
Purtroppo,
o per fortuna, non aveva detto nulla riguardo alla mia imminente
partenza per
Roma.
Nemmeno
Ruben sembrava sapesse.
Avevo
passato quasi tutta la notte in bianco a chiedermi se fosse giusto
farlo sapere
a Simone oppure comunicarglielo il giorno stesso. Cosa doveva
importargli in
fondo? Non sarei nemmeno partica con James, lui mi aveva comprato solo
un
biglietto e non mi avrebbe accompagnata.
Era
stato altruista. Un gesto che sicuramente uno come Simone non avrebbe
compreso.
Il
suono del citofono mi riscosse dai miei pensieri.
«Veeeen!
James ti aspetta di sotto con la macchina.»
Finii
di truccarmi, se quell’affare che avevo sul viso si poteva definire
“trucco”,
poi uscii dalla porta del bagno, trovandomi davanti Simone.
Rimasi
totalmente pietrificata, con tanto di pochette in mano.
«Devo
andare,» tagliai corto.
Lo
sguardo di Simone mi sondò da capo a piedi. «Non sentirai freddo
vestita così?»
sibilò.
Dalla
piega che aveva preso il suo tono di voce, credetti fosse infastidito.
Mi
osservai. «Staremo al chiuso, grazie per esserti interessato alla mia
salute.»
Lui
ghignò. «L’ho fatto solo perché voglio evitare che mi smoccioli per
tutta
casa.»
Lo
fissai come a volerlo incenerire. Possibile che dovesse farmi incazzare
pure la
sera di Capodanno? Sarebbe passato un giorno senza che riuscissimo ad
evitare
di litigare?
«Non
preoccuparti, non ci sarà questo problema. Si dia il caso che domani
pomeriggio
parto insieme a Leo e Cel, vado a trovare i miei per qualche giorno.
James mi
ha fatto un regalo davvero gradito.»
Forse
quello non era stato né il luogo né il momento adatto per confessargli
tutto
quanto, eppure quel suo sguardo mi aveva infastidita. Come si
permetteva di
giudicarmi in quel modo?
Simone
arricciò le labbra quasi in un ringhio. «Divertiti pure con Mr.
Scopa-nel-culo
a Roma.»
Cominciai
a ridere. «Ci andrò da sola! James mi ha pagato soltanto UN biglietto.
Non
tutti hanno secondi fini come te, testone!» e me ne andai indignata,
spingendolo da una parte.
Sofia
si affacciò alla porta e mi fissò esterrefatta.
«Scusami,
è che non lo sopporto,» mi giustificai, indossando il cappotto e
salutando
tutti il più velocemente possibile.
Volevo
andarmene da quella casa, da quella famiglia, da quella persona che
stava
infrangendo ogni mia difesa. Riusciva sempre a strappare ogni briciolo
di buon
senso e raziocinio che avevo, frantumava la persona che ero sempre
stata e mi
trasformava in qualcosa che odiavo dal più profondo del cuore.
Voglio
andarmene via da qui.
Voglio
andarmene via da lui.
Aprii
il portone, augurando buon anno al portiere del palazzo che mi sorrise,
poi
vidi James e tutte le preoccupazioni volarono via.
«Sei
bellissima,» mi disse, facendomi arrossire e accompagnandomi alla
macchina.
Per
tutto il viaggio, sino alle brughiere attorno Londra, pensai allo
sguardo di
Simone. Era furioso e non ci voleva un genio per capirlo. Questa volta
l’avevo
fatta grossa e non sapevo se fosse mai stato in grado di perdonarmi
quell’affronto.
In
fondo era meglio così, avevamo tagliato i ponti anche se lui continuava
a farsi
sotto, probabilmente solo per gioco.
Era
tutto un immenso parco giochi per Simone Sogno. Io ero soltanto una di
quelle
fantastiche giostre su cui, almeno una volta nella vita, chiunque
avrebbe
voluto farsi un giro. Ma appena il Luna Park avesse inaugurato una
nuova
giostra, ecco che sarei subito passata in secondo piano.
Ero
la novità, nient’altro.
Per
uno abituato a frequentare soltanto modelle, non poi tanto sveglie,
tentare un
approccio con una donna con un po’ di spessore, e una laurea in legge,
doveva
essere stato stuzzicante per lui.
«Sei
nervosa?» mi chiese James, cercando la mia mano senza timore.
La
strinsi nella mia e sospirai. Come potevo dirgli che il mio nervosismo
non era
causato affatto dall’imminente incontro con tutto il parentato Abbott,
bensì da
un calciatore da strapazzo che non avrei nemmeno mai dovuto considerare.
«Un
po’,» ammisi, senza sapere cosa dire.
Rimanemmo
in silenzio per il resto del viaggio, mano nella mano. Ci sarebbero
state
troppe cose da dire, eppure non riuscivo a scollarmi quelle parole dal
palato.
Avrei potuto iniziare con un semplice “Grazie” per quel biglietto
d’aereo e per
quelle ferie concesse soltanto perché James aveva detto di amarmi. Ed
io cosa
avevo fatto per lui?
Lo
avevo tradito con Simone e avevo messo a rischio il caso andando a
letto con il
nostro cliente. Ero solo una persona orribile, niente di più, niente di
meno.
Arrivammo
proprio quando i miei pensieri stavano lentamente logorando le pareti
della mia
testa, grattandone via la superficie e scavando fino a quando non mi
avrebbero
svuotata del tutto.
James
mi tese la mano per aiutarmi ad uscire dall’auto ed io l’accettai
sorridendo.
Non
si accorse di quanto quel mio gesto fosse stato sforzato. Ormai ero
costretta
persino a sorridere pur di nascondere l’amarezza che serbavo dentro.
Ero solo
una doppiogiochista, una persona infima che approfittava della sua
benevolenza
e si aggrappava, con gli artigli degni di una chimera, con forza alle
sue
braccia pur di non sprofondare verso quella verità che altrimenti mi
avrebbe
annientata.
Mentre
salivo le scalinate di una vecchia casa in stile vittoriano, rimanendo
rapita
dagli alti finestroni e dall’immensità di quella struttura, finalmente
capii di
non essere più la Venera che era arrivata lì a Londra con il primo
volo, dopo
aver vinto la borsa di studio per Cambridge.
No,
non ero più lei. Mi ero lentamente trasformata in una di quelle donne
che avevo
sempre disprezzato, che anteponevano il loro guadagno a tutto e in
questo caso
mi riferivo alla bellezza e all’affabilità di Simone.
Dopo
tutto quello che avevo studiato e visto nella mia carriera di avvocato,
nonostante tutte le liti a cui avevo assistito durante le simulazioni
in
tribunale, a dispetto di tutto quello che mi ero ripromessa dopo la mia
ultima
“relazione”, se così si poteva chiamare, avevo finito per comportarmi
come una
qualsiasi adolescente in piena crisi ormonale.
Neanche
avessi quindici anni.
«Sei
pronta?» mi domandò l’avvocato, stringendomi a sé.
Il
freddo pungente di quella serata mi fece rabbrividire, perciò pensai di
avvicinarmi ancor più a lui e comunicargli silenziosamente che
apprezzavo quel
suo gesto. James pensava fossi nervosa a causa dell’incontro con la sua
famiglia, e se non avessi avuto altri problemi per la testa,
sicuramente
sarebbe stata la principale causa di una mia nevrosi, eppure pensavo
solamente
allo sguardo furioso di Simone quando lo avevo lasciato a casa.
Di
sicuro non si sarebbe fatto vedere al locale.
Ero
più che certa che avrebbe aspettato un’ora al massimo, poi se ne
sarebbe
tornato a casa, probabilmente a ubriacarsi fino a quando non si fosse
addormentato.
«Sono
pronta,» gli comunicai.
La
porta ci venne aperta dal classico maggiordomo in smoking, sulla
cinquantina e
di bell’aspetto, che con un sorriso bonario ci chiese se potevamo
dargli i
cappotti. Era evidente che quell’uomo conoscesse Jamie, perché i due si
scambiarono uno sguardo di muta complicità.
«Sono
felice di rivedere il signore,» disse sorridendo.
«Alfred,
ne è passato di tempo dall’ultima volta che sono stato qui,» rispose
tranquillamente James.
Dedussi
da quella breve conversazione che l’avvocato, come Simone, non
frequentasse
spesso la propria famiglia. Ma che avevano tutti? Soltanto la
sottoscritta non
vedeva l’ora di montare sul primo aereo per tornare a Tivoli?
Ti
ricordo che anche tu sei
scappata da lì.
Ne
ero conscia, non avevo certo bisogno che la mia coscienza me lo
ricordasse. Per
quanto odiassi quel paese, quel piccolo buco di mondo che mi aveva
sempre
tarpato le ali, impedendomi di volare alto, sentivo innegabilmente la
mancanza
della mia famiglia, delle persone che mi avevano cresciuta rendendomi
la
persona che ero oggi.
«Non
ti piace molto stare qui,» dissi a James, sorridendo.
Lui
mi guardò con comprensione, poi sorrise. «Diciamo che i miei genitori
sono un
po’ all’antica e hanno un modo di pensare che io non condivido. Zio
August è
diverso, e nonostante sia il fratello di mio padre, mi ha sempre
trattato come
un suo pari,» mormorò.
Compresi
subito il suo punto di vista e lo condivisi. Non appena lasciai che
Alfred
prendesse il mio cappotto, rimasi piacevolmente colpita dai soffitti a
volta
che aveva quella villa, mentre un piccolo corridoio ci conduceva verso
la sala
principale dove si sarebbe svolta la festa.
James
era rapito da tutt’altro.
Trovai
il suo sguardo azzurro, lievemente scurito dalle iridi che si erano
piacevolmente allargate quasi come quelle di un gatto immerso
nell’oscurità,
che mi fissavano.
«Che
c’è?» chiesi imbarazzata.
L’avvocato
si mordicchiò il labbro quasi inconsapevolmente. «Questo vestito ti sta
divinamente,» soffiò, con un filo di voce.
Arrossii
d’istinto e per un nanosecondo la mia mente mi giocò il brutto scherzo
di
rivivere per un attimo il ricordo di Simone ed io che uscivo dal bagno.
Lo
stesso identico sguardo, solo che gli occhi del calciatore erano da
sempre
stati due pozzi neri in cui annegare e non avevo potuto distinguere il
desiderio.
«G-Grazie…»
risposi, sentendomi lusingata.
Non
ero abituata ai complimenti, soprattutto perché ero cresciuta insieme a
quella
testa di zucchina che era Robbeo. I nostri battibecchi sul mio aspetto
esteriore mi avevano portata ad essere cinica e acida, e le mie
aspettative
avevano sempre rasentato il fondo.
Diciamo
che non mi ero mai soffermata davanti allo specchio dicendo “sono
carina”.
Ci
era voluto James a ricordarlo.
«Dovrei
conoscere la tua stilista,» sorrise, strizzandomi l’occhiolino.
«Se
te lo dicessi, dopo dovrei ucciderti,» ridacchiai.
James
si chinò e mi sfiorò la fronte con le labbra. Il cuore fece una
capriola nel
mio petto e rabbrividii. Anche se il mio corpo si protendeva sempre più
verso
Simone, incapace di resistere al suo fascino magnetico, James era
capace di
farmi rimanere senza respiro.
Un
perfetto principe moderno.
Mi
prese sottobraccio e insieme ci avviammo verso l’ingresso della sala
addobbata
con decorazioni rosso e oro. C’era un immenso lampadario di cristallo
che
troneggiava al centro del soffitto a cassettoni, affrescato
probabilmente
durante l’età della regina Vittoria.
Ai
lati della sala erano disposte delle grandi tavolate con sopra ogni
tipo di
vettovaglia. Ad un angolo, era disposta l’orchestra che suonava musica
classica
dal vivo mentre gli invitati erano sparsi ogni dove e chiacchieravano
senza
curarsi del nostro arrivo.
Soltanto
una signora molto elegante, fasciata in un lungo abito nero di pizzo,
ci si
avvicinò e posò una mano sull’avambraccio di James.
«Sono
contenta di vederti, Jamie,» sorrise, poi spostò gli occhi azzurrissimi
su di
me.
Quelle
erano le iridi degli Abbott.
«Mamma,
ti presento Venera, una mia collega,» disse James, facendo le classiche
presentazioni.
Tesi
la mano allarmata. Il panico era arrivato tutto insieme, anche perché
durante
il viaggio ero stata rapita da ben altri pensieri.
Ero
sempre stata accolta a braccia aperte dal parentato dei miei precedenti
ragazzi, ma in questo caso non sapevo come comportarmi. Punto primo,
James non
era il mio fidanzato, anche se ci eravamo andati molto vicino; Punto
secondo,
quella donna apparteneva ad una classe sociale elevata ed io mi sentivo
parecchio fuori luogo.
«Molto
piacere, Mrs. Abbott,» mormorai, nervosa.
Lei
mi sorrise e si avvicinò per salutarmi alla classica maniera italiana,
ovvero
con baci schioccanti sulle guance.
Anche
James rimase piacevolmente sorpreso.
«Non
sei inglese, vero?» mi chiese la donna benevola.
Scossi
la testa. «No, vengo da Tivoli,» risposi.
Mrs.
Abbott spalancò quegli zaffiri che aveva al posto degli occhi. «Dove ci
sono le
terme! Ma è meraviglioso!» cinguettò.
«Già,»
sorrisi anche io.
Sinceramente
era la prima persona che conoscesse il mio paese così bene. C’era
Viterbo che
aveva molta più popolarità visto che era stata da sempre la città dei
Papi.
Mrs. Abbott mi parve immediatamente una donna molto socievole e
gentile, pensai
subito che James avesse preso da lei quel suo meraviglioso carattere.
«Credo
che Venera abbia sete, ci puoi scusare mamma?» tagliò corto lui.
La
donna lo guardò intensamente. «Non dimenticare di salutare tuo padre,»
gli
ricordò.
Jamie
mi strappò quasi letteralmente da quella conversazione, avvicinandosi
al tavolo
dove un altro cameriere ci servì due flute di champagne.
Sulle
prime non riuscii a capire il perché James fosse così nervoso e
riluttante a
frequentare quel luogo così meraviglioso.
«Tua
madre è molto simpatica,» dissi, per rompere quel silenzio che stava
diventando
asfissiante.
James
cercò il mio sguardo e lo incatenò al suo. «Non diresti così se la
conoscessi
bene,» sibilò.
Feci
un’espressione piuttosto perplessa, ma non riuscii ad indagare oltre
perché un
uomo barbuto ci si avvicinò sorridente.
«Il
figliol prodigo è tornato!» ridacchiò, colpendo forte la schiena di
James con
delle pacche energiche.
Per
poco non si strozzò con lo champagne. «P-Papà!» tossì, infatti,
cercando di
respirare di nuovo.
«Oh
scusa, caro,» sghignazzò, rivolgendomi un sorriso genuino. «Non sei più
abituato a ricevere le patte dal
tuo
vecchio, eh?»
«Patte?»
chiesi allibita. Ero più che sicura di sapere qualsiasi termine
inglese, anche
perché avevo fatto un corso preparatorio con una madrelingua pur di
acquisirne
anche l’accento. Ma quella parola mi era sfuggita.
James
intervenne. «Diciamo che il termine “patta” è di invenzione di papà,
significa
quando dai delle pacche sulle spalle energicamente, mozzandomi quasi il
respiro,» ridacchiò.
«Eh,
ma quanto siamo esagerati, Jamie!» lo ammonì bonariamente.
Rimasi
sorpresa dal conoscere finalmente l’altro Abbott socio dello studio.
Sinceramente me lo ero sempre immaginato come il signor August: gentile
ma
tutto d’un pezzo. Il papà di James, invece, sembrava quasi italiano,
per quanto
il suo carattere allegro e mattacchione mostrasse.
«Lei
è la ragazza di cui Gugu parla tanto, vero?» chiese al figlio.
Gugu?
James
annuì. «Sì, lei è la mia collega Venera, direttamente dall’Italia. Zio
August
dice sempre che ha un grande potenziale.»
«Piacere
di conoscerla,» dissi, allungando la mano.
Gli
occhi azzurri di Mr. Abbott mi sondarono, con una luce negli occhi che
feci
fatica a riconoscere. Sembrava che mi stesse analizzando, quasi come se
fossi
su un letto d’ospedale, sottoposta alla macchina dei raggi X.
«Credo
proprio che prenderò in parola August e ti terrò d’occhio, signorina,»
sorrise,
stringendomi energicamente la mano. «Beh, divertitevi ragazzi!» e ci
lasciò al
nostro champagne mentre andava a salutare gli altri ospiti distribuendo
“patte”
energiche sulle schiene di tutti i poveri malcapitati.
James
sospirò. «Mio padre è un po’ strano,» ridacchiò.
«Perché
non hai conosciuto il mio…» smozzicai, quasi senza pensare.
Il
livello d’imbarazzo che riusciva a farmi raggiungere Alberto, il mio
caro e
vecchio papà, non aveva limiti. Celeste ne sapeva qualcosa quel giorno
che era
entrata in bagno senza bussare. Le si era bloccata la crescita.
«Mi
piacerebbe incontrare la tua famiglia,» soffiò, quasi in un sussurro.
Spostai
lo sguardo verso di lui e lo trovai tremendamente sincero. Alla fine io
ero
stata ospite dei suoi genitori, avevo conosciuto gran parte della sua
famiglia
– così come quella di Simone – invece la mia vita rimaneva ben
sigillata
all’interno del mio cuore.
Soltanto
Celeste era riuscita a connettere il resto del mondo con il mio passato.
Non
che mi vergognassi della famiglia Donati, anzi. Mio padre era stato un
uomo che
si era fatto da solo, che aveva tirato su un’azienda tutto da solo,
iniziando
col seminare, arare e innaffiare fin da quando aveva quindici anni.
D’accordo,
forse i miei genitori non avevano nessuna laurea, non possedevano una
villa
come questa e non organizzavano feste memorabili per la notte di San
Silvestro,
ma erano riusciti a crescermi nonostante tutte le difficoltà.
«Sicuro
che non vuoi venire anche tu domani?» chiesi, quasi senza riflettere.
James
rimase sorpreso da quella proposta, poi sorrise. «Ne sarei davvero
onorato, ma
per adesso devo pensare al nostro caro Mr. Sogno,» ridacchiò.
Avrei
voluto scomparire in quel preciso istante. Non solo avevo chiesto ad
uno
sconosciuto, o quasi, di prendere il primo aereo con me per andare a
conoscere
i miei genitori dall’altra parte d’Europa, ma addirittura mi ero
totalmente
dimenticata che Simone non ne sapeva ancora assolutamente nulla.
«Vado
un secondo alla toilette,» dissi, sentendo le gambe tremare.
«Certo,
è in fondo a destra,» mi disse, indicando un piccolo corridoio.
Camminai
instabilmente su quelle scarpe che non ero abituata a portare, però
riuscii a
raggiungere il bagno senza cadere rovinosamente per terra.
Mi
chiusi la porta alle spalle e cominciai a respirare affannosamente.
Avrei
voluto vomitare. Sentivo chiaramente il conato crescere, la pancia
ribollire e
mi sentivo profondamente debole. Non sapevo da cosa fosse causato tutto
quello,
ma non riuscivo ad evitarlo.
Calmati
Ven, sei soltanto
ansiosa.
Ansia.
Paura. Mi sentivo in colpa.
In
colpa verso Simone.
Perché?
Per quale assurdo motivo continuavo a struggermi per una persona che
non aveva
mostrato il minimo interesse, che alla prima richiesta di interrompere
tutto,
aveva accettato senza combattere. Senza nemmeno lottare.
Tutto
questo quando avevo James al mio fianco, quando avevo di fronte
un’opportunità
irripetibile che chiunque avrebbe preso al volo. Cosa me ne facevo di
un
ragazzino, per giunta più piccolo di me, famoso e arrogante, con una
causa per
dubbia paternità che gli pendeva tra capo e collo quando potevo avere
un famoso
avvocato trentenne, affascinante e ricco?
Il
cellulare vibrò rumorosamente nella mia borsetta.
Lo
afferrai sperando si trattasse di Celeste che richiedeva immediatamente
la mia
presenza alla festa, in modo da poter lasciare quel bagno senza che la
paura si
prendesse ancora gioco di me.
Si
trattava di un tweet.
@TermoSifone:
@SourLawyer: Ti
si è gelato il polo sud?
Rimasi
a fissare allibita quel tweet. Possibile che di tutti quanti i follower
che
avevo al mondo (non fare la
melodrammatica che hai 35 follower e 30 sono tuoi parenti),
doveva
capitarmi proprio Simone che rompeva, tanto per cambiare?
Mi
sedetti sulla tavoletta del water e risposi. Tanto non sarei uscita di
lì tanto
presto.
@SourLawyer:
@TermoSifone: Pensa
al tuo di Polo. Ho conosciuto la
famiglia di James. Gente molto educata, inglese.
Certo,
su twitter, per quanto fosse comodo e tutto quanto, non si poteva
sforare.
@TermoSifone:
@SourLawyer: Il
mio Polo sta benissimo, anzi, è da quando sei uscita dal bagno che sta
aspettando di scongelarsi.
Arrossii.
Possibile
che riuscisse ad essere così estremamente volgare e maniaco anche
scrivendo dei
semplici tweet ambigui su un social network?
Dio
quanto lo odiavo.
Eppure
vorresti essere lì,
adesso.
@SourLaywer:
@TermoSifone: Vedi
di rimetterlo nel freezer, perché non ci sarà nessun scongelamento,
tranne
forse a causa dell’effetto serra.
Lapidaria
e geniale. Dovevo ammettere che il mio sarcasmo riusciva ad essere
trasmesso
perfettamente anche via chat. Mi sentii molto soddisfatta di me stessa.
A
quel punto non giunsero più tweet e rimasi a fissare il telefono con il
cuore
in gola. Non che mi importasse se Simone aveva di meglio da fare
piuttosto che
rimanere incollato al cellulare. Sbuffai e chiusi gli occhi.
Prima
o poi sarei dovuta uscire da quel bagno, altrimenti James avrebbe
pensato che
mi sentivo male. In effetti, il capogiro mi era passato ma la nausea
rimaneva.
Non avevo toccato cibo, solo un po’ di champagne.
Possibile
che fossi già andata fuori di testa?
D’improvviso
il mio BlackBerry cominciò a vibrare nelle mie mani e sul display notai
il nome
di Leonardo che lampeggiava insistente. Da quando il ragazzo della mia
migliore
amica mi chiamava? D’accordo, c’eravamo scambiati i numeri nel caso
servisse,
ma quello mi pareva troppo.
Decisi
di rispondere.
«Pronto?»
«Ce
l’hai fatta, dannazione! Qua non si sente un cazzo!» ringhiò una voce
ovattata
dal rumore della musica tecno in sottofondo.
Ovviamente
era Simone.
«Vai
in bagno, tonto,» gli urlai, quasi.
«Non
c’è bisogno che tu me lo dica, ci arrivavo da solo. Cretina!»
Dopo
un po’ sentii la musica farsi meno forte e dedussi che il calciatore
era
riuscito a rinchiudersi da qualche parte in modo da poter parlare.
«Ho
fregato il telefono a quel demente di mio cugino,» ridacchiò. «Il mio
si era
scaricato. Quei cazzo di cellulari non valgono niente.»
«L’avevo
intuito quando mi è comparso il nome di Leonardo,» bofonchiai.
Seguì
un attimo di silenzio in cui nessuno dei due seppe cosa dire. Per quale
motivo
mi aveva chiamato? Perché io gli avevo risposto? Per quale assurda
ragione ce
ne stavamo rinchiusi nel bagno, quando tutti gli altri si divertivano
la notte
di Capodanno?
Perché
siete due anime separate
che sperano soltanto di incontrarsi.
«Perché
mi hai chiamato?»
Fui
io a rompere il ghiaccio. Tanto valeva fare un tentativo.
«Mi
annoiavo,» rispose lui. Sincero.
«E
il fatto di annoiarti ti autorizza ad interrompere la mia serata con
James?»
chiesi, senza puntualizzare il fatto di essermi isolata da un bel po’.
«Se
ti stessi divertendo con l’avvocatuncolo, non avresti risposto,»
sentenziò.
Cazzo.
Quello
stupido ragazzino era più furbo di quanto pensassi e un moto di rabbia
e fastidio
cominciò ad aggrovigliarmi le viscere.
«Pensavo
fosse urgente,» mentii, pur di non dargli alcuna soddisfazione.
Lo
sentii ridere dall’altro capo del telefono. «Sappiamo entrambi che non
è vero,
anzi. Se ti conosco bene ora sei in bagno, seduta sul copri-water, con
i piedi
doloranti e un forte mal di testa. Ovviamente non vedi l’ora di
tornartene a
casa,» disse, analizzando la situazione.
Odiavo
quando aveva ragione. Anzi, lo odiavo e basta.
«Ti
sbagli, caro,» sibilai. Mi alzai ad aprire la finestra, in modo che i
suoni
della notte confondessero le idee che si era fatto su di me. «Sono
nell’enorme
giardino della tenuta, avvolta dalle stelle che questa notte si vedono
benissimo e aspetto James che è andato a prendermi da bene. Come un
vero
gentleman.»
«Stai
mentendo.»
«Credi
quello che ti pare, ti ho risposto solo perché pensavo fosse Leonardo.»
Il
silenzio intervallò quella conversazione che si stava trasformando in
una lite
via aere. Riuscivo ad incazzarmi con lui pure tramite cellulare, era
incredibile.
«Vieni
qui,» disse dopo un po’, dopo che quasi credetti avesse abbandonato la
conversazione.
Lo
sentii respirare forte.
«Cosa?»
chiesi, credendo di aver capito male.
Simone
sospirò spazientito. «Ti sto chiedendo di venire qui, di raggiungermi,»
ripeté.
«Tra
un po’. L’ho detto a Sofia, nella seconda parte della serata vi
raggiungiamo.
Non ti preoccupare,» sbuffai.
Continuò
ad esserci solo silenzio all’altro capo del telefono. «Io ti voglio
qui.
Adesso.»
Un
brivido rotolò giù lungo tutta la colonna vertebrale e s’infranse nella
pancia.
Quella dannata voce mi avrebbe mandato al manicomio, ne ero più che
certa.
La
cosa più sconvolgente, poi, era il fatto che avessi davvero preso in
considerazione l’idea di lasciare il party per raggiungerlo. Quasi come
un pifferaio
che mi aveva incantato col dolce suono della sua voce.
«Cresci,
Dio santo!» sbuffai. «Non sono una delle tue sciacquette che risponde
ai tuoi
ordini come un cane ben addestrato. Hai capito che abbiamo chiuso?
Anche tu
c’eri quando l’ho detto e hai subito accettato. Cos’altro vuoi da me?»
Dovevo
sottolineare il fatto che aveva rinunciato a quel “noi” malato e
ingiusto
troppo presto. Anche se non avrei mai aggiunto che mi aveva fatto
soffrire, e
tanto.
«Ho
mentito.» disse infine, quasi sussurrandolo.
Il
cuore mi salì fino in gola e se non avessi deglutito in quel preciso
istante,
ero più che sicura che avrebbe fatto capolino.
Subito
si corresse. «Scusami, devo andare. Fai come ti pare. Ciao.» eMi chiuse
il
telefono in faccia.
Rimasi
a fissare lo schermo del BlackBerry con uno sguardo assorto, quasi
sperando che
squillasse di nuovo. Non sapevo se la mia mente mi stesse giocando dei
brutti
scherzi, se quello che aveva detto Simone corrispondeva alla realtà o
meno.
Avevo
soltanto un forte desiderio di vederlo. Ora.
Non
riuscivo a resistere. Mi faceva male il cuore ad immaginarlo chiuso in
uno
degli stanzini di quel locale, magari seduto sul pavimento, con le mani
nei
capelli a maledirsi per essere stato così debole.
Come
facevo a saperlo? Perché lui era come me ed io avrei reagito allo
stesso modo.
«Tutto
bene lì dentro?» domandò la voce di Mrs. Abbott.
Mi
riscossi dai miei pensieri e corsi alla porta. Chissà da quanto tempo
ero
rimasta lì dentro, probabilmente James si era preoccupato.
«Mi
scusi tanto,» dissi, uscendo dal bagno.
Gli
occhi della signora mi squadrarono. C’era qualcosa nascosto dentro
quello
sguardo, avevo una strana sensazione riguardo a quella donna, anche se
mi era
sembrata molto socievole a primo avviso.
«Ero
preoccupata, cara. Non uscivi più di lì. Ti senti bene?» mi chiese
benevola.
Annuii.
«Ho avuto solo un giramento di testa,» dissi.
In
parte era vero, togliendo la nausea e la conversazione terribile che
avevo
avuto con Simone al telefono. Ero scossa, dovevo ammetterlo.
Non
sapevo se quel “Ho mentito” che aveva detto, si riferiva al fatto che
mi
volesse lì con lui o all’ammissione da parte sua di interrompere quella
nostra
specie di relazione malsana.
Perché
era dannatamente ambiguo?
«Torno
di là, mi scusi.» Cercai di raggiungere James.
La
donna, però, mi afferrò un polso. Cercai il suo sguardo e compresi che
quel
sospetto che avevo avuto su di lei fosse reale.
«Senti,
ho capito qual è il tuo piano e fin da subito ti avverto: stai lontana
da
James,» intimò.
«Come,
scusi?» domandai allibita.
Mrs.
Abbott si avvicinò, stringendomi il polso in una morsa. «Le conosco
bene le
ragazzine come te. Lascia in pace mio figlio, da lui non otterrai né
una
carriera né tantomeno il permesso di soggiorno. Sei soltanto
un’immigrata.
Tornatene da dove sei venuta e lascia in pace James!» minacciò.
Quella
donna era completamente fuori di testa!
«Se
non mi lascia immediatamente, la denuncio,» sibilai.
Poteva
trattarsi pure della Regina Elisabetta in persona. Nessuno mi si
sarebbe
rivolto in questi termini, soprattutto se mi si accusava di essere solo
un’opportunista.
Mrs.
Abbott mi lasciò subito andare, senza mai smettere di linciarmi. «Ti
avverto…»
«No,
l’avverto io,» la interruppi. «Ci sono gli estremi per far scattare una
denuncia, ma lascerò correre. Per sua informazione, ho la carta verde
come
studentessa e presto richiederò di avere la doppia cittadinanza. Non ho
certo
bisogno di suo figlio per rimanere in Inghilterra, signora. Né
tantomeno per
avanzare di carriera,» le risposi, lasciandola senza fiato.
Mi
diressi verso il salone principale, cercando di rimuovere la rabbia che
quella
donna mi aveva fatto montare senza riuscire poi a placarla. Ma che
razza di
persona pensava che fossi? Ma soprattutto, quali tipi di ragazza aveva
frequentato James per indurre la propria madre a comportarsi così?
Desideravo
andarmene. Al più presto.
Trovai
James che conversava con un altro signore, riguardo ad un vecchio caso
di
sfratto nelle campagne Londinesi, e attirai la sua attenzione
sfiorandogli il
braccio.
«Dov’eri
finita?» si preoccupò.
Gli
sorrisi. «Non mi sento molto bene, vorrei andare dai miei amici,» dissi
sincera, senza mezzi termini.
James
comprese subito che qualcosa non andava. Si scusò con il suo
interlocutore e mi
accompagnò a prendere i cappotti. La macchina era ancora fuori e ci
sarebbe
stata per tutto il resto della notte. La premura con cui l’avvocato mi
posò il
giaccone sulle spalle, la apprezzai molto.
Non
mi chiese la fonte di quel mio strano comportamento, ma lo sentivo che
si stava
comportando in modo cauto. Forse aveva effettivamente immaginato che mi
fosse
accaduto qualcosa, che mi sentissi male, ma non aveva insistito per
sapere.
Anche
questo era ciò che più amavo di lui.
Ci
sedemmo nell’auto e James gli comunicò il nome del locale dove il resto
della
famiglia Sogno ci avrebbe aspettati.
Rimanemmo
in silenzio per il resto del viaggio, io che ancora stringevo
nervosamente in
BlackBerry tra le dita tremanti. Non sapevo se essere più scossa per il
comportamento di Mrs. Abbott, oppure per ciò che mi aveva detto Simone.
James
non c’entrava nulla con quella famiglia, e adesso intuivo il motivo per
cui gli
faceva visita di rado. Magari un giorno gli avrei parlato di quello
spiacevole
incontro con la madre, ma per ora non me la sentivo.
Era
stato un episodio poco rilevante, almeno per la sottoscritta.
Strinsi
ancora più forte le dita attorno al telefono, sentendolo scricchiolare.
James
se ne accorse e afferrò una delle mie mani e la cullò tra le sue.
«Mi
dispiace,» disse, senza sapere veramente di cosa scusarsi.
«Non
devi dire così,» sussurrai. Non sapeva il vero motivo per cui mi
sentivo così
frustrata. La ragione che mi aveva ridotto uno straccio.
«Sì,
invece!» insistette. «L’idea di portarti qui è stata pessima. Avremmo
dovuto
raggiungere i tuoi amici direttamente, senza venire in questa specie di
casa degli orrori.»
Lasciai
andare il BlackBerry nella borsetta e mi voltai verso di lui. Cercai il
suo
viso e lo accarezzai con il palmo della mano.
«James,
non devi scusarti di nulla. Mi ha fatto piacere conoscere la tua
famiglia,
vedere la casa in cui sei cresciuto. Davvero…» mormorai. «È solo che
non sono
ancora pronta, tutto questo non fa per me.»
L’avvocato
mi sorrise. «Ecco perché sono innamorato di te, Spaghetti Girl.»
Quella
confessione mi colpì al cuore come un mazzo di pugnalate. Avrei dovuto
dirgli
la reale ragione per cui me n’ero andata di corsa da quella casa, il
vero
motivo per il quale sentivo un bisogno quasi morboso di vedere Simone.
La
verità è che rimanere separata da lui per più di un’ora mi faceva star
male.
Era dura ammetterlo, soprattutto dopo avergli chiesto di chiudere
tutto, ma era
la verità.
C’era
qualcosa che mi teneva incatenata a lui, che rendeva le nostre due
essenze
legate in un modo indissolubile.
«Non
dire così, ti prego,» lo implorai e mi scostai da lui.
Lui
mi spostò un ciuffo di capelli davanti al viso. «È la verità, non posso
farci
nulla. Per quanto questo lavoro mi divida da te, ormai è troppo
difficile
offuscare i miei sentimenti, Ven,» continuò.
Doveva
smetterla. Finirla di essere così tremendamente dolce e perfetto.
Sarebbe stato
tutto più semplice se, come in una commedia americana, si fosse
rivelato lo
stronzo di turno, se nella realtà dei fatti avesse frequentato altre
mille
donne oltre la sottoscritta.
Invece
sapevo che diceva la verità, che il suo sguardo era puro.
La
badass di questa storia ero
solamente
io, Venera Donati. L’unica che il pubblico avrebbe dovuto odiare perché
prendevo in giro una persona meravigliosa come quella.
Ma
con una madre adoratrice del
Diavolo.
Sono
d’accordo.
«Vorrei
che questo caso fosse già concluso, così avrei una scusa più che valida
per
baciarti,» mi disse, imbarazzato.
Ed
io mi sentii ancora più male. «Nessuno verrà mai a saperlo,» soffiai,
quasi
senza pensarci.
Mi
avvicinai a lui e così fece James. I nostri volti si cercarono e si
trovarono
quasi subito, come se avessero stampato nella mente una mappa.
Lo
baciai nel sedile posteriore di quella macchina, viaggiando a tutta
velocità
per raggiungere il disco-pub dove mi aspettava Simone. Schiusi le
labbra e
accolsi la sua lingua curiosa, il sapore di James era come un
Earl-Green
sorseggiato in un giorno di pioggia, davanti ad un camino scoppiettante.
Sapeva
di campagne verdeggianti, di pascoli e di vite d’altri tempi. James
aveva
racchiusa in sé l’essenza dell’Inghilterra e assaporando quella sua
bocca era
come tuffarmi in un mondo che ancora non mi apparteneva.
«Scusami,»
disse lui, scostandosi. «Forse dovrei smetterla di sostenere di
rimanere solo
colleghi, e poi saltarti addosso,» ridacchiò.
«Non
è solo colpa tua,» arrossii.
Guardai
d’istinto l’orologio e mi accorsi che erano già le 23.30. Mancava
soltanto
mezz’ora all’inizio del nuovo anno ed io temetti di passare lo scoccare
della
mezzanotte in quella macchina.
«Arriveremo
in tempo,» mi tranquillizzò James.
Sorrisi
riconoscente. Sapeva sempre quando e cosa dire per rendermi serena. Con
lui non
riuscivo ad arrabbiarmi, anzi. Era rarissimo che litigassimo noi due.
L’avvocato
era sempre pronto a spalleggiarmi, a confortarmi e a rendere le mie
giornate
più rilassanti.
Tutto
il contrario di Simone.
Fissai
lo sguardo fuori dal finestrino, mentre l’Audi nera imboccava
l’autostrada che
ci avrebbe condotti di nuovo nella metropoli. Un senso d’ansia mi
attanagliò lo
stomaco, facendomi risorgere quel senso di nausea ma tentai di
ignorarlo.
Ero
nervosa, ma non sapevo il motivo.
Decisi
di preoccuparmi in seguito di cosa avrei dovuto dire o fare una volta
che
avessi raggiunto Simone. Per adesso dovevo godermi il resto del viaggio
senza
vomitare alla prima occasione.
Arrivammo
davanti all’Headen quando mancavano
dieci minuti esatti alla mezzanotte.
«Scendiamo,
cercare il parcheggio non è un problema,» mi disse James, facendomi
cenno di
uscire dalla vettura.
Scesi
nel freddo di quella notte di Dicembre, anzi, quasi Gennaio ormai, e
sentii i
brividi scuotere il mio corpo intorpidito. Subito fui abbracciata dalle
forti
braccia dell’avvocato che mi condussero verso l’ingresso del locale.
Il
bodyguard all’ingresso ci chiese i nostri nomi, poi controllò sulla
lista.
Ci
fece passare senza alcun problema non appena notò che eravamo associati
al
cognome “Sogno”. James si accigliò parecchio, ma non disse nulla.
Sapevo
quanto fosse difficile per lui passare una nottata come quella in
compagnia di
uno dei suoi clienti, quando avremmo dovuto intrattenere un rapporto
puramente
professionale. Non era colpa mia se, però, la mia migliore amica
Celeste era
fidanzata con una di loro e se Sofia, mia nuova confidente, fosse la
sorella
del nostro assistito.
Di
certo, i Sogno stavano lentamente conquistando il mondo.
«Finalmente
ce l’avete fatta!» mi urlò quasi nell’orecchio Sofia, corsa ad
abbracciarmi.
Era
un po’ accaldata, lo dimostravano i lunghi capelli biondi scarmigliati
e
incollati al viso. Ruben non era in condizioni migliori.
«Abbiamo
ballato fino adesso!» gridò, nel tentativo di sovrastare la musica
assordante.
«Noi
siamo andati via dalla festa poco fa,» le dissi all’orecchio, poi
tentai di individuare
la mia migliore amica in quel groviglio di corpi che si strusciavano
l’uno con
l’altro.
«Celeste
è laggiù che balla con Leonardo, credo sia un po’ brilla,» ridacchiò
Sofia.
Notai
che anche lei non era in condizioni migliori, ma in fondo era la notte
di
Capodanno e ci si poteva lasciare andare almeno per una volta. «Venite
qui al
centro della pista, tra un po’ fanno il count-down.»
La
seguimmo, cercando di farci spazio tra i corpi sudati di ballerini
improvvisati
per quella serata di festa. Con lo sguardo vagai per il locale dalle
luci al
neon, cercando qualcuno che ovviamente non voleva farsi trovare.
James
di tanto in tanto mi osservava, senza però aggiungere nulla.
Non
sapevo se avesse intuito chi stavo cercando così ossessivamente, oppure
se fosse
semplicemente preoccupato che potessi sentirmi male. La calca era quasi
insopportabile, ma dopo qualche secondo la musica s’interruppe e lo
speaker
prese la parola.
«Gooooooodnight
to everybody!» gridò, poi un urlo seguì quell’intro da discoteca.
«Are
you ready for the count-down… for 2013 year?»
urlò ancora.
Un
boato si levò dalla sala. «YES!»
«I
don’t hear you, guys. EVERYBODY SCREAM!»
«YEEEEEEEEES!»
Lo
speaker sorrise divertito da quel giochetto, e sentii James avvolgere
un
braccio attorno alle mie spalle.
«And
now…» cominciò, mentre si levò il rullo dei tamburi. «TEN… NINE…!» urlò
ancora,
imitato dal resto delle persone che affollavano il locale.
Notai
Celeste poco più avanti, con lo sguardo rivolto verso di me. Mi
sorrise. Era
felice che fossimo tutti lì, come se il tempo non fosse passato per
nulla.
Anche
Sofia e Ruben sorridevano, stretti l’uno all’altra.
Eravamo
tutti felici, accoppiati, uniti a coloro che ormai erano diventati una
parte
importante della nostra vita.
Non
dire cazzate.
«EIGHT…
SEVEN…!»
Sondai
il locale per l’ennesima volta, senza riuscire a scorgere Simone. Come
avevo
sospettato, di sicuro aveva lasciato il locale per andare a sbronzarsi
a casa,
o magari rimorchiare qualcuna in un bar. In fondo, non ero lì con lui a
controllare che non si mettesse ancor più nei guai.
Lo
avevo lasciato solo per stare con James, il suo avvocato.
Mi
sentii una stupida, una vera deficiente. Avrei dovuto capire dal suo
tono di
voce al telefono che aveva fatto il sacrificio di venire a quello
stupido
Capodanno soltanto perché glielo avevo chiesto, perché Sofia ci teneva.
Ed
io gli avevo fatto la stupida promessa che sarei stata lì, almeno prima
della
mezzanotte.
E
adesso, mentre aspettavo che i secondi passassero, mentre James mi
stringeva
ancora di più al suo petto, aspettando la mezzanotte per potermi
baciare, per
poter coronare quella specie di superstizione durante l’ultimo
dell’anno,
Simone non c’era.
«SIX…
FIVE… FOUR…!»
Ed
io mi sentivo completamente sola, nonostante fossi circondata da tutta
quella
gente. Facevo fatica a respirare lì dentro e il desiderio di tornare a
casa era
forte. Ma non potevo. Sarei rimasta almeno per Celeste e Sofia.
«Potrei
baciarti di fronte a tutta questa gente? Tu che dici?» mi sussurrò
James
all’orecchio.
Arrossii,
nonostante me l’aspettassi.
«D’accordo.»
Tanto
di Simone non c’era traccia, per cui non avevo alcun motivo per
sottrarmi a
quel gesto che per un momento mi avrebbe fatto dimenticare lui.
L’avvocato mi
sorrise e continuò a stringermi, mentre dai maxischermi distribuiti nel
locale
il pubblico era rapito dall’immagine del Big Ben in attesa che
scoccasse la
mezzanotte per salutare il 2013 in arrivo.
«THREE…
TWO… ONE…!»
E
tra l’ultimo secondo, tra l’attesa di gridare al nuovo anno, tra lo
sguardo di
James che puntava le mie labbra, sentii una mano stringersi forte e
cercare la
mia. Non ebbi nemmeno il bisogno di voltarmi per capire a chi
appartenesse.
Già
lo sapevo.
Quel
gesto fu sufficiente a farmi spostare quel tanto perché le labbra del
giovane
avvocato andassero a sfiorare la mia guancia, invece che infrangersi
sulle mie
labbra.
«HAPPY
NEW YEAR!» gridarono tutti in coro, mentre strinsi ancor più la presa
attorno
alla mano di Simone che avevo paura sfuggisse via come un sogno.
La
musica tecno ripartì ancora più assordante di prima, mentre la gente
attorno a
noi ricominciò a muoversi, separando me e James quasi senza volerlo.
L’avvocato
cercò di raggiungermi, ma fu spinto verso un angolo del locale, così mi
mimò
con le labbra “ci sentiamo dopo” e venne inghiottito dal mare di gente
che
affollava l’Heaven.
Io
fui trascinata invece dall’altra parte della struttura, ma non a causa
della
calca. La mano che stringeva la mia continuava a condurmi verso
l’uscita, quasi
come se le mie gambe si muovessero da sole sospinte da una flebile
brezza.
Eppure
faceva caldo in quel locale. Troppo.
D’improvviso
mi trovai il muro davanti agli occhi e vi posai le mani con i palmi
aperti,
mentre il corpo di Simone si schiacciava contro il mio, alle mie
spalle.
Sentivo il suo odore dappertutto, mi soffocava.
Il
suo petto caldo a contatto con la mia schiena seminuda e le sue mani
che si
erano strette con bramosia attorno alla mia vita. La sua presa era
sinonimo di
possesso ed io singhiozzai.
«Sei
venuta…» mi soffiò contro l’orecchio.
Gemetti
senza vergogna, tanto la musica era talmente assordante che non mi
avrebbe
sentito nessuno. I capelli mi si erano appiccicati al viso, così come
la mia
pelle… la sentivo scivolosa.
«H-Ho
dovuto,» smozzicai, mentre mi voltai quel tanto da scorgere il viso di
Simo
attraverso i capelli talmente disordinati da coprirmi la visuale.
Simone
ne approfittò per baciarmi e non ci fu nulla dell’amichevole gesto che
James aveva
fatto poco prima. C’era urgenza, bisogno, desiderio di rimediare a
quell’assenza e a quell’odio che in quei giorni ci aveva allontanati.
Simone
spinse violentemente la lingua nel mio palato, facendomi mugolare dal
fastidio
ma anche dal piacere. Ero ancora schiacciata contro il muro, con il
volto quasi
premuto su quelle fredde mattonelle ma non mi importava.
Potevo
sentire tutto il suo corpo schiacciato su di me, potevo sentire il modo
in cui
mi desiderava.
«Non
voglio nemmeno sapere cosa hai fatto con quell’avvocatucolo…» Portò le
mani
verso il basso e sollevò di poco il mio vestito. «Ucciderò mia sorella
per
averti fatto indossare una cosa del genere,» insistette, con la voce
roca e
frammezzata. «Lui ti ha visto con questo addosso. Ti hanno guardata e
desiderata
a causa di questo vestito…»
Gli
scostai gentilmente le mani e mi voltai, per prendergli il viso. Tolsi
i
capelli sudati che gli nascondevano quegli occhi talmente scuri da
sembrare
quelli di un demonio. Lo accarezzai per tranquillizzarlo, per
comunicargli
silenziosamente che nonostante tutto ero tornata da lui.
Alla
fine dovevo ammettere a me stessa di essere quel cane scodinzolante che
tanto
denigravo.
«Non
dovevo dirti quelle cose… al telefono,» mi sussurrò all’orecchio.
«Abbiamo
fatto un accordo io e te,» aggiunse.
L’accordo
cui si riferiva era ovviamente quella mia richiesta di interrompere
quella
specie di “relazione” clandestina che continuavamo a portare avanti
nonostante
tutto.
Cercai
la sua mano e la strinsi. «Andiamo a casa,» dissi solamente,
conducendolo verso
l’uscita. La macchina di James ci aspettava dall’altro lato della
strada e
vedendomi arrivare con un altro uomo, l’autista s’indispettì.
«Si
sente male, lo accompagno a casa,» mentii.
L’uomo
sembrò credermi e mi sorpresi di quanto stesse diventando naturale per
me dire
le bugie. Certo, la mia professione spesso e volentieri mi obbligava,
ma adesso
stavo sfiorando l’incredibile.
Oramai
mentivo a James, a Sofia, persino alla mia migliore amica Celeste con
una
naturalezza che mi spiazzava.
L’unico
che ancora si salvava – o quasi, visto che ancora non sapeva che
l’indomani
sarei partita per Roma – era Simo.
L’autista
ci accompagnò a casa e dopo averlo ringraziato, cominciai a rovistare
nella
pochette in cerca delle chiavi di casa. Entrammo nell’ascensore e non
feci in
tempo a sollevare lo sguardo che Simone mi fu addosso. Mi prese il
mento tra
pollice ed indice, inducendomi a schiudere le labbra.
Succhiò,
morse, dilaniò le mie labbra come a rimarcare quanto fossimo stati
lontani. Poi
posò la fronte sulla mia, incatenando il mio sguardo.
«Cosa
diremo agli altri?» soffiò.
«Ho
mandato un SMS a Sofia,» risposi. «Credo che le ci voglia poco per fare
due più
due, ma sono sicura che sarà discreta,» dissi, poi cercai di nuovo le
sue
labbra.
L’ascensore
si fermò con un ‘plin’ che sorprese entrambi e ci ritrovammo subito sul
pianerottolo di casa Sogno. Mi avvicinai con le chiavi in mano mentre
Simo mi
seguiva come un’ombra, senza mai smetterla di fissarmi.
«Mi
consumi a forza di squadrarmi in questo modo,» dissi maliziosa, aprendo
il
portone.
Feci
per accendere la luce ma lui mi bloccò. «Devi indossarlo più spesso,
mette in
mostra delle doti che non sapevo
avessi…» sussurrò malizioso.
Ridacchiai
come una quindicenne.
«Anzi
no, non lo indossare. Non voglio che Jacob ti veda ancora vestita così,
non
voglio abbia altri pretesti per desiderarti.»
«James,
si chiama James.»
«Non
m’importa.»
Fui
guidata dalle sue mani attraverso il buio di quella stanza che
evidentemente
Simone conosceva a memoria. Ero felice che l’oscurità ci avvolgesse,
non ero
ancora pronta a vedere fino a quanto gli occhi di Simone sarebbero
stati in
grado di assuefarmi.
Non
avevo nemmeno voglia di pensare a quante altre ragazze avesse riservato
lo
stesso trattamento, a quante scene di sesso avesse assistito quella
casa. I
muri impregnati dei gemiti delle ragazze che soleva portarsi a casa,
gli
specchi riempiti dell’immagine dei loro corpi uniti.
Ripresi
a respirare.
Ero
ancora in tempo per fermarmi, per recuperare quel poco di dignità che
mi
rimaneva.
L’odore
di Simone era forte, mi annebbiava il pensiero. Ebbi l’egoistica idea
che se
avessi continuato a strusciarmi addosso a lui, forse un po’ di
quell’odore si
sarebbe trasferito anche su di me, così da renderci l’uno parte
dell’altro.
Poi
mi diedi della sciocca.
Sentii
le mani di Simone stringersi attorno alle mie cosce e sollevarmi in un
sol
colpo per posarmi sopra il bancone della cucina, per rimediare alla
differenza
d’altezza.
«Altrimenti
divento gobbo…» ridacchiò contro il mio collo, prendendo a
mordicchiarlo.
«Scemo!»
sorrisi.
Alla
fine era riuscito a prendersi gioco di me rimanendo pur sempre gentile.
La
verità era che quella telefonata mi aveva sconvolta, mi aveva ridotta
uno
straccio e soltanto ora, dopo che il nuovo anno era arrivato ed ero
stretta tra
le sue braccia, potevo sentirmi bene.
Senza
più un brutto pensiero ad attraversarmi la mente.
«D-Dicevi
sul serio…» smozzicai, gemendo non appena sentii le sue mani sollevarmi
d’impeto la gonna del vestito.
Ringrazia
Sofia che ti ha
costretta ad indossare un intimo decente, e non il pannolone di zia
Argia.
Simone
si staccò dal mio collo, per guardarmi serio, attraverso l’oscurità. I
suoi
occhi bruciavano forse ancora di più quando erano avvolti dal buio, il
suo
elemento naturale.
«Quando?»
chiese, con voce strozzata dal piacere.
Nel
frattempo mi sentii un po’ inutile mentre avvertivo le sue mani
viaggiare
bramose su tutto il corpo, così strinsi con forza le gambe attorno alla
sua
vita e presi ad armeggiare con la cintura dei suoi pantaloni.
Lo
sentii sospirare forte.
«Al
telefono… quando hai detto di aver mentito. Su cosa? Sul fatto che non
mi
volevi qui?» chiesi ingenuamente.
Sapevo
di non avere alcun diritto di chiederglielo, non dopo aver sostenuto di
chiuderla lì. Eppure sentivo lo strano bisogno di chiarire quella
faccenda,
almeno per non aver capito fischi per fiaschi.
Simone
rimase in silenzio, con le mani immobili.
Io
invece non mi fermai, anzi. Riuscii a togliergli la cintura e a
sbottonare il
jeans, facendo calare la zip con un rumore intenso che mi fece venire i
brividi.
Lo
desideravo con un’intensità mai provata prima.
«Dimmelo,»
gli intimai, stringendo con forza la sua intimità ancora coperta dal
sottile
tessuto dei boxer.
Simone
affondò il viso nell’incavo del mio collo.
Avevo
come il bisogno di certezze, dovevo sapere se non mi ero immaginata
tutto.
Sentivo la necessità di ricevere conferme.
«Ven
io…» tentò di dire, mentre la mia manco continuava a muoversi su di
lui. I suoi
occhi continuarono a sostenere il mio sguardo, anche se il suo labbro
inferiore
era intrappolato tra i denti per sopperire al piacere che dilagava
lento dentro
di lui.
«Devo
sapere…» lo implorai, cominciando a solleticare la porzione di pelle
vicino
l’elastico dei boxer.
Simone
gemette e inspirò forte. Strinse con forza le mani attorno alle mie
cosce,
spalancandole senza alcuna grazia. C’era soltanto il desiderio a fare
da
padrone in quella cucina, su quel bancone di marmo freddo, scaldato
soltanto
dall’unione dei nostri corpi accaldati.
Mentre
in lontananza si udivano gli scoppi dei fuochi artificiali, io venivo
rapita da
quelli che il tocco esperto di Simone mi faceva scorgere dietro le
palpebre
chiuse e la testa reclinata all’indietro a cercare il piacere.
«Ho
mentito, sì…» Strattonò con forza il mio intimo. Avevamo bisogno,
entrambi, ed io mi sollevai quel poco per permettergli di
togliermi l’ultimo indumento che ci separava. Simone si scosto quel
tanto da
sfilarlo, poi, senza alcuna vergogna, se lo infilò in tasca.
Cos’era?
Una specie di premio?
«Te
lo riconsegno dopo… non sia mai che quel coglione di mio cugino lo
trovi sparso
in giro,» soffiò contro il mio orecchio.
Fu
il mio turno di abbassargli lievemente i boxer, prendendo a stimolare
lentamente l’erezione che svettava fuori dai jeans semi-abbassati.
«Ven..
ah!» gemette forte ed io cercai di non arrossire.
Lo
desideravo troppo. Misi a zittire persino il mio Cervello che
continuava a
ricordarmi che i miei amici sarebbero potuti tornare in qualsiasi
momento e
trovarci lì.
Strinsi
ancora di più le cosce attorno alla sua vita, poi mi avvicinai
strusciandomi.
I
nostri sguardi si incrociarono proprio nel momento in cui la sua mano
si unì
alla mia, per condurre il gioco. Non mi persi nemmeno la minima
mutazione del
suo viso, quando da sofferente si trasformava in puro piacere intenso.
Dopodiché
affondai il viso nella sua maglia soffocando un grido.
Simone
attese qualche minuti che mi abituassi a quell’intrusione, poi lasciò
che mi
avvicinassi ancora di più a lui, spingendomi verso il bordo e
allacciando le
gambe attorno alla sua vita, in una muta richiesta di iniziare a
spingere.
E
lui spinse. Spinse forte.
«S-Simo…
neAh!» gemetti, quando affondò con accuratezza in modo da mandarmi un
brivido
di piacere che mi spezzò in due.
«Ho
mentito. Ho mentito. Ho mentito,» ripeteva lui, quasi come una
filastrocca nel
mio orecchio, a ritmo con quei movimenti mirati che mi spedivano sempre
di più
in orbita.
C’eravamo
caduti ancora una volta e ormai non ero più sicura che sarebbe stata
l’ultima.
Lo desideravo. Per quanto ripetessi a me stessa che tutto quello fosse
sbagliato, non riuscivo a resistergli.
Simone
incarnava tutto ciò che mi era proibito, e appunto per quello lo
desideravo.
Gli
afferrai con forza i capelli, posando la fronte contro la sua e
respirando
affannosamente mentre i suoi movimenti intensi venivano proiettati
dalle luci
dei lampioni di fuori sulle pareti della cucina e del salotto. Era come
se
fossimo circondati da specchi ed io mi eccitai ancora di più.
Più
del possibile.
Sentivo
che ormai mancava pochissimo e dal modo in cui Simone si muoveva
meccanicamente, senza un ritmo preciso, compresi che eravamo al limite.
Eravamo
durati poco entrambi, perché il desiderio ci aveva consumati.
Ma
lui si fermò, si immobilizzò solo per un attimo. «Ho mentito,» sussurrò
sulle
mie labbra. «Non credo di poter smettere. Ci ho provato, ma ti voglio.
Sei come
una cazzo di droga ed io ormai sono fottuto,» poi imprecò,
nascondendosi al mio
sguardo.
Lo
riportai verso di me, catturando la sua attenzione con un lungo bacio.
«Fanculo
il patto,» dissi, poi ricominciai a muovermi da sola su di lui e lo
sentii
sibilare forte perché non si aspettava questo tipo di disinibizione da
parte
mia.
Oh,
ancora deve sapere di cosa
sei capace.
Lo
strinsi più forte e lui mi artigliò le natiche seppellendosi sempre di
più
dentro di me, aumentando il ritmo, conducendomi verso luoghi che
nemmeno
riuscivo ad immaginare.
La
soglia del piacere era vicina.
Fu
allora che affondai le unghie nella sua schiena, sotto la maglietta,
graffiandola e raggiungendo il suo orecchio con disperato bisogno.
«Vieni
con me…» gli urlai, quasi.
Simone
si agitò sorpreso, così decisi di spiegarmi. Non ce la facevo più, non
sapevo
quanto avrei resistito ma sentivo soltanto che fosse giusto.
In
un malsano e malato modo di vedere le cose, io e Simone eravamo
destinati a
stare insieme.
«Domani
torno a casa… a Roma, fino al sei Gennaio,» sussurrai, mentre lui
continuava a
muoversi più lentamente dentro di me. Voleva sapere ed io ero stata
codarda ad
aspettare sino a quel momento prima di dirglielo.
«Devo
essere sempre l’ultimo a… mh… sapere le cose…» sibilò, imponendosi di
non
accelerare.
Lo
strinsi forte, lo avvicinai a me e lo accolsi tutto quanto. Accolsi
tutto ciò
che aveva da darmi.
«Vieni
con me, ti prego,» lo implorai, ferendolo.
Lui
gridò di dolore, di piacere. Gridò un’affermazione che non seppi se si
riferiva
alla mia proposta di condividere quella vacanza oppure al fatto che
fosse
venuto.
Che
avessimo finalmente raggiunto il piacere, entrambi.
I
respiri affannati riempirono le pareti di quella cucina ed entrambi ci
prendemmo il nostro tempo per regolarizzare i battiti.
In
seguito Simone mi sollevò dal bancone della cucina senza nessuno sforzo
ed io
mi aggrappai a lui come se fosse l’ultima speranza rimasta. La speranza
di non
precipitare verso un vuoto che mi avrebbe annientata.
Non
insistetti. Non gli chiesi se sarebbe venuto con me a Roma, se mi
avrebbe
accompagnata in un viaggio che sentivo di dover fare da tempo.
Avevo
fatto la stessa domanda a James, ma lui aveva rifiutato.
Sentii
la forte voglia di piangere, perché come al solito avevo lasciato che
Simone
fosse solamente la ruota di scorta, fosse secondo all’avvocato che
reputavo
perfetto in tutto.
«D-Dove
stiamo andando?» chiesi, accoccolandomi contro il suo corpo.
Simone
mi accarezzò i capelli. «A scambiare i nostri sogni, soltanto per
questa
notte,» disse ed io non seppi mai se avesse detto o meno la verità.
Sorratemi (?) il ritardo di questa pubblicascìon ma ho avuto
i miei perché (tra cui l'immancabile voglia di non fare un tubo).
Mi prendo un pochino di tempo per ringraziare quella povera (e santa)
Tonna di Wife che si è dovuta betare 24 pagine di capitolo per 2 volte,
perché nella prima occasione il file word si era volatilizzato dal suo
piccì.
Credo che Simo gliel'abbia requisito. Cmq, che ne dite?
So che è il 15 Aprile e che Capodanno è passato da un pezzo, ma questo
capitolo lo scrissi proprio a Gennaio e mi sentivo abbastanza ispirata
e in tema. Dunque, come procede la storia tra questi due poracci? Gli
lascerò mai un po' di pace?
La risposta è ovviamente NO.
Diciamo che questa storia, come l'avevo pensata all'inizio, già era
abbastanza lunga e intricata e vi avverto che non siamo nemmeno entrati
nel clou. Io che sono un tipo che si impegna poco, mi sono andata ad
impelagare proprio bene! Siete fortunate/i che ho le mie Crudelie che
mi spronano (col fucile) con i pon pon tutti i giorni, così da non
lasciare che mi 'adagi' troppo :3
Bene, bene!
Ho pubblicato di Lunedì perché Mecoledì parto e vado a Londra a
rapire Simone con i parents per cui sarò abbastanza impegnata
per tutto il fine settimana! Ci volevo tornare da tanto tempo, la amo
quella città!
Chissà che al mio ritorno non mi senta nuovamente ispirata per una
carrellata di nuovi capitoli :3
Un bacione!
//marty
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