Era stata una lunga notte, una notte piena di dolore fisico e psichico,
si dimenava sotto il piumone come un dannato, come un'anima infernale
deciso a colpire la sua preda, intento a rubare una vita. Appena alzato
si strizzò gli occhi e si ritirò in bagno, si
sedette sulla tazza del water e si accese una sigaretta, come faceva
ogni singolo giorno per riprendersi dal sonno e dalla voglia di tornare
sotto le coperte, e riuscire per una volta a dormire. L'aria al di
fuori era gelida. Dalle lunghe porte-finestre si intravedevano dei
ghiaccioli lunghi una decina di centimetri ma niente neve. Era cosi
fredda quella mattina che i panni stesi fuori dal cortile erano
diventati pezzi di ghiaccio che in congiuria del vento si spezzavano
come foglie secche chiuse in uno stretto pugno. Si alzò
dalla tazza, spense la sigaretta buttandola nel water e uno due tre
quattro volte si buttò dell'acqua tiepida sul volto. Si
guardò allo specchio e si rese conto di come stavano volando
gli anni, iniziavano a spuntare delle rughe sotto gli occhi e intorno
alla bocca ormai quasi secca con denti gialli e rovinati. Rovinanti dal
fumo di sigaretta e dal tabacco da masticare.
Camminò fino alla cucina al piano di sopra, si certo un
breve tragitto ma per lui molto faticoso, doveva salire una scala a
chiocciola completamente in legno, dato che aveva molto dolore al
ginocchio per una vecchia ferita causatagli durante la guerra da un
colpo d'arma da fuoco, una pallottola gli aveva strappato un muscolo,
il suo dolore era dato anche per il troppo sforzo e per l'eccessiva
attività fisica, e andando avanti con ritmi eccessivi gli si
era più volte infiammato e infettato, e il dolore non lo
abbandonava nemmeno per un battito di cuore aritmico. Allora dolorante
si riprese con una grande tazza di caffè amaro corretto con
Gin, era il caffè dal colore più scuro che si
trovava in commercio, un caffè che rispecchiava la sua
anima, il suo spirito, il suo lato macabro e oscuro. Tutti lo vedevano
come l'uomo nero, l'uomo da cui bisognava stare alla larga, incapace di
dialogare con chiunque, sempre sgarbato e con uno sguardo sempre
aggressivo, maligno, ed è cosi che si mostrava agli occhi
della gente.
Ma lui in fondo era buono, solo che non era capace di mostrarsi per
quello che era in realtà. Era un veterano di guerra di una
sessantina di anni pluridecorato per aver salvato degli uomini della
sua compagnia. Vennero feriti con armi da fuoco, lui li prese e li
caricò sulle sue possenti spalle e li trasportò a
piedi per diversi chilometri, un impresa ardua per chiunque, ma tranne
per lui. Era un eroe di guerra. Sua moglie Margaret poco dopo il suo
ritiro dall'esercito si ammalò per una neoplasia al pancreas
con metastasi, che si espandeva sempre di più. Margaret era
una giornalista, sempre in giro alla ricerca della fottutissima notizia
che le avrebbe fatto fare un balzo in avanti nella sua carriera, una di
quelle notizie che avrebbe cambiato lo stile di vita di tutto l'intero
sporco mondo.
Era una donna sempre sorridente, altruista e intraprendente,
non aveva paura di nulla e di nessuno, distruggeva chiunque impediva il
suo cammino, era in parole brevi una dominatrice, non sapeva
sottomettersi agli altri, combatté fino alla fine cercando
di vincere la sua malattia con forza e determinazione, sicura di
vincere la sfida contro la morte, ma nulla toglieva alla corsa
irrefrenabile del cancro, che piano a piano consumava tutto il suo
spirito, diventando come una vegetale. Morì in casa nella
sua stanza, nel suo letto matrimoniale in una mattina di pioggia, tra
le braccia e le lacrime del suo soldato, incapace di dire una singola
parola alla moglie, e quello stesso giorno anche il cielo era triste e
piangeva la sua tragica morte.
Marc, cosi si chiamava, da allora eliminò quel suo sorriso
perenne e si rinchiuse in se stesso, maledicendo tutto ciò
che aveva a che fare con la vita, da lui vista come una "crudele
matrigna" e tutto ciò che gli ricordava Margaret lo faceva
impazzire, urlava a squarcia gola contro il muro prendendolo a pugni e
insanguinando la vasta parete bianca tingendola di rosso, tutto lo
faceva impazzire in quella casa, ma tranne una cosa, la
macchina da scrivere, quella di Margaret. Margaret non se ne separava
mai, la accudiva come fosse un figlio, il figlio che non ha mai voluto
per questioni di lavoro, perché riteneva la sua carriera da
giornalista più importante, e avere un figlio avrebbe solo
fatto ritardare quello che era il suo obbiettivo principale. Marc
spesso ne soffriva, perché era desideroso nell'avere un
figlio, un figlio a cui insegnare tutto ciò che lui aveva
appreso nel corso della sua vita, far capire concetti di vita per stare
bene nel quotidiano, ma sopratutto, costruirgli una base
solida di morale e di cultura, perché la cultura fa
vittorioso e forte l'animo umano. Marc spesso si sedeva sul tavolino e
fissava imperterrito quella macchinetta, e si chiedeva cosa ci trovasse
Margaret di cosi tanto speciale.
C'era ancora inserito l'articolo che Margaret stava scrivendo, un
articolo che non sarebbe mai volto a termine, Marc leggeva e rileggeva
quell'articolo per ore e ore, spesso mugugnando e piangendo in ricordo
della sua donna e quello fu proprio uno di quei giorni. Dopo aver
fissato la macchinetta e aver letto decine di volte l'articolo,
staccò gli occhi dalla macchinetta e con uno sguardo dritto
e conciso guardò sullo specchio in fondo alla stanza. Lui
non vedeva impresso il suo riflesso, ma vedeva ciò che
sarebbe diventato, ciò che avrebbe passato e ciò
che sarebbe stato del suo futuro. Una vita triste e sofferente. Una
vita nera, una vita di merda pura e assoluta. Allora in
quello stesso istante gli parve un pensiero, venuto come una folata di
vento che attraversa di getto un bosco, cosi all'improvviso, veloce e
violento, congelando ogni singola foglia per l'eternità, e
quel pensiero gli martellava la testa, aveva deciso di dar fine alla
sua misera esistenza. Si diresse verso la porta di legno marcio dello
sgabuzzino, prese una corda, una delle tante corde che aveva e che
usava quando faceva l'addestramento militare, gli diede una pulita
dalle ragnatele e fece un nodo, un grosso nodo, e se ne andò
fuori in giardino.
Decise il giardino cosi da poter essere trovato prima,
perché mai nessuno lo andava a trovare a casa, era
dimenticato da tutti. Camminando per il prato sentiva lo scricchiolio
delle foglie che si rompevano sotto i suoi piedi, calpestandoli, erano
inanimati e indolori, proprio come voleva essere lui in quel preciso
momento della vita.
Camminò in giardino per una decina di minuti, con la corda
che gli penzolava dalle mani, oscillava lento, avanti e dietro avanti e
dietro, e lui era come se non avesse più un anima, camminava
con lo sguardo fisso verso il basso, come se provava vergogna
per quello che stava per fare.
Decise di attaccare la corda ad un bel fusto di quercia ai piedi dello
steccato che faceva da recinto alla casa, una protezione inutile, dato
che quello steccato era più vecchio e fragile di lui. Si
arrampicò piano piano sulla quercia e scelse il ramo
più compatto e robusto, perché doveva sostenere
il suo peso.
Scelto il ramo, si mise con trepidazione la corda al collo, il suo
corpo tremava come se avesse ricevuto una scarica elettrica ad alto
voltaggio. Guardò la casa e poi il cielo, e poi vide tutto
nero. Passò più di una settimana quando venne
notato appeso su quell'imponente quercia, un urlo inumano
risuonò per tutto il quartiere attirando lo sguardo e
l'attenzione di tutti. Venne notato per l'orribile tanfo che si sentiva
dalla strada, un odore di marcio misto a letame e topo morto. Una
ragazzina incuriosita dall'odore scavalcò il recinto, cadde
a terra e un pò stordita si rialzò, e si
trovò di fronte al corpo in putrefazione del sessantenne
impiccato, una vasta quantità di vermi tozzi imbottiti di
carne uscivano dalle orbite degli occhi e rientravano dalla sua bocca,
un ciclo che sembrava infinito. Non avendo nessuna parentela il comune
prese l'incarico di organizzare il funerale, e la santa messa venne
svolta nella chiesa di San Tommaso, una chiesa decadente settecentesca.
La messa svolta da un prete morente e analfabeta, un prete che
borbottava e solo lui si capiva.
Le campane suonavano come una sinfonia per inaugurare la
morte, come se di li a poco ci sarebbe stata l'apocalisse, con demoni
vaganti per le strade in cerca di peccatori. Poca gente affollava la
chiesa, un po' qua un po' la, sparsi come un branco di pecore senza
padrone, e un cane che faceva da guardia al posto del crocefisso. La
sua salma venne trasportata nel cimitero della chiesa, venne onorato
con degli spari di fucile da alcuni veterani, suoi compagni di guerra,
proprio sotto una quercia senza vita, anch'essa depredata della sua
ninfa vitale. Solo una lapide in dolomite ricordava ai viandanti che
passavano da quelle parti per salutare i propri cari, che una persona
di nome Marc era esistita, e nella lapide era inciso "Qui giace Marc
Keller, eroe di guerra 1873 - 1932 " . Spesse volte nelle lapidi veniva
inciso solamente nome e cognome, o addirittura solo le iniziali, o
solamente la data di morte, come accadeva per i senza tetto trovati
senza vita lungo le strade, buttati come cicche di sigarette sul
marciapiede, consumati e distorti, stroncati dal freddo e della fame.
Innominati. Nessuno sapeva chi fossero, e proprio per questo si
inseriva soltanto la data di morte, una data approssimativa, i corpi
potevano giacere ai lati della strada coperti da giornali e cartoni per
svariato tempo prima che qualcuno se ne accorgesse.
Il periodo del dopo guerra era difficile per tutti e
bisognava ricominciare da zero, ricostruire strade, case, ma in primi-s
cibo sano e salutare. Le malattie vagavano imperterrite come non mai,
il vaiolo aveva ucciso migliaia di persone essendo una malattia
contagiosa, un virus patogeno solo per l'uomo, sembrava mandato da
lucifero per condannare l'umanità per i loro peccati, una
specie di piaga che si imbatteva su tutti, dai bambini agli anziani, ma
sopratutto ai bambini, che erano quelli più deboli.
Come il vaiolo anche la peste, la tubercolosi, e tantissime altre
malattie infettive, virus che giravano con i venti, virus che si
diffondevano nell'aria come polline, arrivati da campi distanti dove
masse di corpi massacrati si fossilizzavano, i cosi detti "campi della
mattaia", dove per mattaia si intende l'essere umano. L'essere umano,
ha sempre creato elementi per estinzione di massa, l'uomo con le sue
imperfezioni, per quanto riguarda la qualità della vita,
come ad esempio la salute, crea armi contro se stesso, contro la
propria razza, contro i suoi fratelli, mentre c'è tantissima
gente che muore ogni singolo giorno di malattie sconosciute e
misteriose. Una nebbia compatta spesso si posava sulla
città, camminando si aveva l'impressione di essere quasi
cechi o seguiti, strani rumori nei vicoli stretti facevano arrizzare la
pelle, sicuramente erano topi, ma la gente aveva paura di tutto persino
della propria ombra, della propria voce e della propria esistenza.
Il vento soffiava sull'alto campanile della chiesa di San
Tommaso, i corvi che ci annidavano, volavano via e si riparavano sopra
a rami di ginepri sparsi li intorno. Si udiva un gracchiare continuo,
forte, forte come una madre che perde il proprio figlio, straziante,
faceva in modo che nell'udire quei versi le budella si contorcevano
come un serpente agguaglia la sua preda. Il parco giochi, era
perennemente fangoso e pieno di buche, le altalene oscillavano lievi al
triste vento come se ci fossero a dondolare anime di fanciulli perduti,
e i rumori metallici delle catene si espandevano nell'atmosfera come
fossero proiettili sparati al vuoto senza un bersaglio preciso, ma un
bersaglio in realtà c'era, ed era la testa di chi udiva quel
suono. Le persone impazzivano, spesso vagavano per le strade assorti in
pensieri che nessuno ha mai conosciuto, perché nessuno se ne
interessava, nessuno chiedeva loro motivazioni o spiegazioni.
Ognuno pensava a se stesso, a nessuno importava di nessuno, a
meno che non vi fosse una sorta di parentela. La città era
divisa in classi sociali, a nord c'erano le persone ricche, le persone
facoltose, colte.
Frequentavano Salon e librerie per discutere varie questioni
culturali, per scambiare opinioni di tipo scientifico, tecnologico e
letterario, di attualità, dove si scambiavano studi e
ricerche, mentre nel sud della città prendevano posto le
persone povere composta dalla classe operaia e contadina le cosiddette
masse popolari, che nacquero con la seconda rivoluzione industriale.
Il fabbro, l'unico della città nella parte del
sud, era sordo e muto, comunicava a gesti, dal fisico scultoreo, che
ricordava le classiche forme plastiche dei busti michelangeleschi, una
bellezza unica dal volto di perfezione raffaellesca, armonioso ed
equilibrato, composto preciso ed efficiente. Lavorava senza
interruzione giorno e notte, le forze sembravano che non lo
abbandonassero mai e la gente mormorava spesso il suo nome.
Ci fu chi addirittura disse che lui strinse un patto con il diavolo, il
patto consisteva che il diavolo dava lui una bellezza sublime, inteso
come sentimento di chi lo mirava, proprio come il pittore romantico che
doveva far provare quel sentimento enorme a chi osservava l'opera. Era
un sentimento che pochi potevano provare. In cambio di questa bellezza
sublime il fabbro dovette dare al diavolo la sua voce e la sua vista.
Tanti erano i personaggi strani, oscuri e maledetti in quella
parte della città. Ma c'era anche chi voleva eliminare
questa distinzione sociale tra sud e nord, voleva mescolare le due
società per avere un equilibrio, una sorta di
stabilità tra poveri e ricchi. Ma le persone di alto borgo
non si volevano mescolare con la classe povera, ritenuta da loro
sudicia, sporca, ignorante e amante della disarmonia e della
scompostezza. Tutto era ammassato in un caos e delirio assoluto, con
forme di brigantaggio e rivolte politiche - sociali.
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