Mikushina strofinò il braccio sugli occhi,
cercando di cancellare quelle lacrime traditrici che si era permesse di
uscire senza che lei potesse fare alcunché.
Era stata derisa, ancora.
Tutti la prendevano in giro per i suoi capelli rossi e la forma del
viso.
Pomodoro…
Singhiozzò, scuotendo il capo e cercò di calmarsi.
Il suo chichi gli diceva sempre che era bella, ma era una bugia. Gli
aveva mentito sempre.
Si portò le ginocchia al petto e appoggiò la
testa sulle ginocchia. Lo spazio angusto non gli dava nessun problema,
perché per quanto potesse dare del bugiardo al suo chichi,
stare nel suo armadio la confortava.
Sentiva il calore, il residuo di qualche particella di chakra di Naruto
su ogni capo. Si sentiva in pace e consolata.
Non avrebbe mai fatto vedere quelle lacrime al biondo. O a Sasuke.
Non voleva passare anche per debole.
Un singhiozzò gli scosse il corpo e allungò una
mano cercando di alzarsi e sistemarsi meglio.
Inciampò su uno scatolone l’interno si
rovesciò nell’armadio.
Allargò gli occhi e guardò le ante chiuse; poi si
ricordò che tou-san e aniki stavano in giardino ad
allentarsi. Chichi era in missione.
Deglutì e si asciugò le lacrime, voltandosi verso
gli oggetti sparsi al suolo e cominciò a raccattarli
più velocemente possibile.
In mano si ritrovò un quaderno, quello che lei usava
all’accademia, vecchio e abbastanza vissuto. I bordi erano
ingialliti e rovinati, così come la copertina blu scuro.
Aggrottò le sopracciglia quando lesse in caratteri
“Mikuschina no nikki”.
Il mio…
diario?!
Pensò scioccata, aprendo leggermente un anta per far entrare
più luce.
Afferrò i due lembi e aprì la prima pagina.
Fu a Dicembre
che cominciammo a tentare di concepire.
All’inizio ero
eccitatissimo. Lo eravamo entrambi: lo dicevamo a tutti, e tutti si
felicitavano con noi, come se avessimo annunciato il tuo arrivo
imminente.
Passarono sei mesi.
Dov’eri, ci chiedevamo, nuovamente mortificati.
Eri già un
reuccio, ti facevi attendere. Non eravamo neppure sicuri che ti saresti
mai presentato: un divo.
Ci
stiamo provando,
dicevamo.
Era quasi estate ormai,
c’era quella certa atmosfera nell’aria.
Tuo padre e io ci
trovammo ad Ichiraku per una scodella di ramen e del buon
sakè.
Ricordo piccole
confidenze, un’allegria generale, i raggi caldi e obliqui del
sole quando entrammo nel locale.
Più tardi, a
casa, ci sdraiammo nella nostra camera da letto bianca, e finalmente
accadde.
L’8 giugno
Tsunade- baachan mi disse che il test era positivo: una conferma quasi
papale.
Guardandola, provai una
gioia folle. Terrore, anche, ma non una vera e propria sorpresa.
Da qualche giorno mi
sembrava di percepirti fisicamente, un po’ come quando senti
lo sguardo di qualcuno in piedi dietro di te.
Quella sera, appena
tornato a casa, tuo padre arrivò di sopra con il fiatone.
Ricordo che fece le
scale di corsa, e che era un giovedì.
Quella sera fu
celestiale.
Ci coricammo presto,
sparpagliando scarpe e vestiti sul pavimento.
Avevamo fretta, forse pensavamo di poterti raggiungere.
|