Dimmi che mi odi

di Due Di Picche
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Due parole...

E' decisamente da tempi immemori che non aggiorno questa storia originale e mi dispiace. Dopo tutto sono già molto avanti con i capitoli che non avrei nemmeno problemi di scadenze varie al momento però ho avuto un bel blocco dello scrittore che mi ha allontanato da EFP per mesi e mesi.
Ma non me ne pento di essere stata via così al lungo, anche perchè nel frattempo ho coltivato la mia prima e seria storia d'amore (<3)  che mi ha dato modo poi di continuare a scrivere più che volentieri!
Non voglio annoiarvi, so che siete ansiosi di leggere finalmente come continuano le cose tra Aaron e Ginevra >__<
Due Di Picche

*** 




6.Perché ho bisogno di riflettere…
 
Perché la stavo seguendo in capo al mondo? Una domanda talmente semplice che mi mandava su tutte le furie.
Appena la Wilson scese dalla BMW dei Power, esattamente davanti all’ospedale, capii che non era quella la sua destinazione. Ginevra incominciò a correre e io, inconsciamente la seguii senza dare spiegazioni a Sven o all’autista.
Il posto che lei raggiunse era un Istituto di Riabilitazione poco più in là dell’ospedale. Come struttura assomigliava ad un’antica villa però, l’aria che si respirava intorno sapeva di ospedale.
La Wilsonvi entrò, sicuramente non si era accorta che l’avevo seguita. Certo che ero proprio insignificante ai suoi occhi per non notare un bel ragazzo correrle dietro a pochi metri di distanza. La sua testa era occupata da altro come sempre, io ero all’ultimo posto ovviamente.
La seguii anche all’interno dell’edificio, ma quando si precipitò dentro ad una stanza attesi fuori. Dalla porta socchiusa riuscivo a sentire la sua voce e poi quella di una donna.
Appoggiato contro un vecchio muro di cemento, mani in tasca e sguardo rivolto verso il soffitto alto, mi stavo pentendo di origliare come non mi era mai successo in vita mia.
“Mamma. Mamma. Si può sapere che combini” sotto quella sua voce rude, si riusciva a distinguere un tono preoccupato. Rimasi sorpreso però, non era la classica voce con cui una persona normale rivolge al proprio genitore. Freddo. Distante. Indifferente. Queste erano le sensazioni che mi dava. Era quasi più confidenziale il tono che usava con me!
Una voce più lieve che cercava di trasmettere tranquillità le rispose “Ginevra, che sorpresa!”
“Io sono sorpresa. Hai tentato di scappare, mamma.”
“Il manager mi aveva chiamata per sapere come stavo, sai ogni tanto mi contatta ancora, pensavo che forse voleva farmi lavorare visto che sto meglio”
“Ma cosa dici. Era solo preoccupato: sai quanto gli è costato coprire il tuo ricovero per tutti questi anni? E invece tu … tu … alla prima occasione che hai di uscire riprendi a farti di pasticche.”
“Ma cosa dici. Sto benissimo ora, non succederà più”
Deglutii quando la voce di Ginevra si rattristò di colpo facendomi venire i brividi “Lo dici ogni volta che ci vediamo. Ogni volta mi giuri che non succederà più ma …” emise qualche leggero singhiozzo “… come faccio a fidarmi delle tue parole ormai, mamma?”
Basta. Avevo sentito abbastanza. Non potevo continuare ad origliare oltre quella conversazione. Mi sentivo uno schifo.
Lasciai la mia postazione. Avevo sentito anche troppo.
 
Vedere mia madre fare origami seduta su quella vecchia poltrona in una stanza luminosa da farla sembrare in ospedale, mi diede il nervoso.
Indossava una camicia bianca e un paio di pantaloni lunghi. I capelli biondi erano legati in una coda bassa e i suoi occhi azzurri, socchiusi, mi osservavano distrattamente. Pallida. Magra. Non era la grande Jeanne McGrey di un tempo. Un’attrice che aveva fatto parlare di se, che si era fatta amare.
Il sorriso ingenuo che mi rivolgeva era la cosa che odiavo di più essendo privo di significato. Perché sorridere se sei cosciente delle tue pessime condizioni? Chi voleva rassicurare sorridendo se poi continuava a sbagliare.
“… non succederà più.” Quella frase mi faceva sempre inumidire gli occhi tanto da far mutare anche il tono della mia voce. Perché cedevo di fronte a lei? Perché ero così fragile di fronte a qualcuno che mi aveva abbandonato?
Rimasi lì. In quella stanza chiara a osservare un donna che mi dava solo preoccupazioni. Mi sedetti sul suo letto e attesi. Attesi che il mio volto ritornasse quello di sempre, che il mio stato d’animo tornasse normale e pensai al perché Valley era diventato “umano” tutto d’un tratto con me.
Dio! Per poco non mi ero dimenticata del mio peggior nemico, per non parlare di Gens che mi aveva visto in quelle condizioni. Fantastico! Un bel gran casino per una che non vuole rivelare mai niente di se.
Arrivarono le sei di sera. Avevo trascorso tutto il pomeriggio in quel posto deprimente a fare conversazioni insulse con quella falsa persona di mia madre. Parlare di fiori, di mare, tutto sembrava troppo irreale.
I ruoli forse si erano invertiti? Lei così ingenua e spensierata da sembrare una bambina, io sempre in ansia con l’acqua alla gola che cercavo di fare da madre a mia madre.
Quando lasciai finalmente l’Istituto mi sentii sollevata. Scendendo le scale che mi conducevano al cancello d’uscita, non feci caso ad un sagoma maschile dai capelli scuri, comodamente seduta sui gradini di pietra. Avevo altro per la testa per accorgermi di quella presenza finché la sua voce non mi richiamò “Ehi! Dove pensi di andare?”
Mi voltai e finalmente mi accorsi di Aaron Valley!
Sbattei più volte le palpebre incredula della visione.
“Tu che ci fai qua?” rimasi lì, in piedi a fissarlo impietrita. Mi ero completamente dimenticata di lui dopo esser scesa dalla lussuosa macchina del suo amico.
“Vorrei farti la stessa domanda, ma visto che so già la risposta, e non è una bella risposta, evito di chiedertelo.” Si spostò verso destra, e facendo cenno con una mano vi invitò a sedermi accanto a lui.
Beh, il danno era fatto, ma ora mi preoccupavo di cosa lui sapeva.
“Cosa hai visto sentiamo?” la pietra era fredda ma mai quanto il brivido che mi percosse mentre attendevo una sua risposta .

 
“Troppo” rispondere senza dare dettagli non era da me, forse perché non le volevo far ripensare a sua madre. Mi sentivo in colpa.
“Voglio che dimentichi tutto” disse Ginevra decisa.
“Impossibile.”
“Allora ti prego di non dire niente a nessuno. Nemmeno Sue e le altre sanno ciò che sono sicura che sai”
“E come sai che io so?”
Cercava in tutti i modi di non parlare in maniera specifica dell’argomento poi sbuffando infastidita disse “Non sei stupido Valley. Quando qualcosa ti incuriosisce vai fino in fondo”
Silenzio. Sapevo cosa volevo dire ma per un attimo esitai.
“Questa volta ne avrei fatto a meno però” l’avevo detto!
Alzai lo sguardo per vedere lei. Trovai Ginevra che mi fissava con un espressione malinconica. Nei suoi occhi non c’era ira ma solo tristezza e paura: provai compassione.
Scostai lo sguardo da lei, mi sentivo a disagio “Dimmi che mi odi!” dissi con decisione volendo ritornare alla nostra caotica realtà.
Lei, senza esitare rispose “Ti detesto”
Sorrisi. Si, lei mi odiava come sempre. Bene. Tutto doveva tornare normale immediatamente, ma come potevo scordare quella serie di avvenimenti?
 
Mostrare il mio quotidiano disprezzo verso Aaron era la cosa più naturale del mondo infondo, mi risollevò il morale.
Mi alzai con l’intento di andarmene il prima possibile da quel posto “Forse è meglio che vada”
“Sarai sola”
“Non sono affari tuoi”
Si alzò anche lui accanto a me. Spostò lo sguardo altrove e, massaggiandosi una spalla indolenzita, mi chiese “Ti va di venire da me?”
La sua gentile offerta mi risuonò prima incredibilmente strana ma poi mi capacitai dell’idea che era pura pietà o il desiderio di mettermi le mani addosso. Con un ghigno poco amichevole dissi “Si, certo. Ti faccio così pena?”
“Guarda che parlavo sul serio”
Mi voltai curiosa della sua espressione. Serio e sincero mi fissava. Dio, che imbarazzo! Perché si stava comportando così?
“Rifiuto” dissi tutta d’un fiato avviandomi giù per le scale il più velocemente possibile. Mi aveva tolto il respiro. Sfortunatamente mi sentii afferrare per un polso.
“Insisto”

 
Non lo so perché volevo a tutti i costi portare Ginevra a casa Valley, ma ero sicuro che se sarebbe tornata a casa sua avrebbe trovato solo il vuoto. Già una volta mi era capitato di incontrare una persona sola nel vero senso della parola, ma ero troppo piccolo e troppo ingenuo per accorgermene in tempo anche se era diventato il mio migliore amico.
Mi misi gli occhiali da sole, giusto per non dare troppo nell’occhio, non volevo uno scandalo con Ginevra ovviamente, e la trascinai fuori dal giardino di quell’edificio. Stranamente non oppose resistenza assecondando i miei capricci.
“Non chiedermi perché non ti sto menando” disse la Wilson irritata da tutto quello che stava accadendo. Non mi voltai a guardarla perché non volevo poi ammettere di trovare carino quel suo viso imbarazzato.
“Tu rilassati e lascia fare a me” era ovvio che dopo una frase ambigua come quella, Ginevra mi scaraventò la sua borsa in schiena.
“Provaci a mettermi le mani addosso e sei morto!” lei era tornata quella di sempre e tutto ciò mi rendeva stupidamente felice senza capire il motivo.
 
Mi immaginavo che il “famoso” Aaron Valley abitasse in una lussuosa villa con tanto di piscina, nei quartieri alti della città, non in una casa nel vecchio quartiere dove di solito risiedevano gli immigrati e le persone in difficile situazione finanziaria.
“Eccoci a casa” quando Valley pronunciò quella frase pensavo che scherzasse. L’odore pungente di pesce mi infastidiva ma a quanto pareva, i suoi mandavano avanti una pescheria che era un tutt’uno con la casa.
“I miei stanno mettendo facendo la cassa giù al negozio, perciò posso farti fare il giro della casa senza troppe domande” detto questo entrammo in quella casetta a due piani. Era piccola e l’umidità era palpabile. Al contrario dell’aspetto esteriore, l’interno era molto accogliente con un arredamento semplice ma d’effetto, forse leggermente orientale a giudicare dalla porte che erano tutte scorrevoli e il soffitto abbastanza basso.
Il piano terra comprendeva la pescheria, la cucina, un salottino, un bagno e poi una veranda in legno che dava sul giardino ben curato. Arrivata al piano di sopra tramite una scala a chiocciola di ferro, Aaron mi fece vedere, velocemente le stanze, che in totale erano tre, e un bagno con tanto di vasca. Una rampa di scale in legno invece conduceva alla soffitta di cui, il giovane batterista non me ne fece parola.
“Beh, fai come se fossi a casa tua” mi disse infine il “padrone di casa” mentre mi accompagnava in cucina. Diciamo che non sarei mai riuscita ad abituarmi a quel genere di abitazione, così diversa dalla mia.

 
Guardava casa mia con curiosità, come se avesse appena scoperto un altro mondo. A dire la verità non mi ero mai fatto un’idea delle condizioni sociali della Wilson e sinceramente non riuscivo a farmela. Forse viveva in un semplice appartamento in città, forse in una casetta in periferia. Con le poche conoscenze che avevo su di lei, non riuscivo a realizzare nella mia mente la sua vita.
“Di chi dovrebbe essere la casa, scusa?” mia mamma, Hana Valley, mi arrivò alle spalle sorprendo prima me e poi la nuova ospite. Notai Ginevra guardare la donna di casa con sorpresa: sicuramente aveva intuito perché la nostra abitazione aveva quel chissà che di orientale!
“Oh, mamma!” esclamai voltandomi verso di lei “Vorrei presentarti la ragazza che mi dà ripetizioni per gli esami di settembre”
“Piacere, Ginevra Wilson” notai la cheerleader sorridere mentre porgeva la mano a mia madre. Anche un semplice sorriso di cortesia riusciva a fare un bel effetto su di lei, tentai di non fissarla troppo.
Un trambusto proveniente dalle scale richiamò la nostra attenzione.
Notai mia sorella maggiore con i suoi capelli platino e gli occhiali dalla montatura rosa shocking urlare “Si, la tua insegnante privata. Quella è una modella in piena regola.”
“Ran, non essere maleducata, vieni a salutare.”
“L’ho osservata per bene mentre Aaron le stava facendo fare il giro per la casa. Il foro che ho fatto alla porta del mio laboratorio di sartoria (soffitta) è utile ogni tanto”
Mia sorella continuò a schiamazzare finché non si rassegnò e si presentò i maniera civile a Ginevra. Perché avevo una sorella maggiore così odiosa?
 
Che razza di famiglia. Strana in tutti i sensi: una madre Giapponese che non faceva altro che raccontarmi che disastro di figlio aveva, una sorella mezza fuori di testa che mi accusava di essere una modella (assomigliava terribilmente a Aaron caratterialmente) e poi un padre che si complimentava con il figlio su “che bel bocconcino di ragazza” che aveva portato a casa.
Troppo caos, troppa allegria, troppo affetto: Valley aveva ciò che io, per tutta la vita, avevo sempre desiderato!
Inizialmente mi trovavo in difficoltà a integrarmi con l’ambiente ma poi, mi lasciai andare. La miglior cena dopo anni la passai a parlare di scuola, sport, viaggi. Nessuno accennò niente sulla mia famiglia, Aaron sicuramente si era preso la briga di dire ai suoi di evitare l’argomento.
“Vuoi fermarti a dormire, Ginevra?” mi chiese la signora Valley mentre mi gustavo in dessert, un budino.
Deglutii e risposi “Non vorrei disturbare”
“Se per i tuoi va bene per noi non c’è problema. Abbiamo una stanza inutilizzata”
“Si! dai, fermati a dormire” insistette il signor Valley intento a lavare i piatti “Non abbiamo mai ospiti, ci fa solo piacere avere qualcuno di nuovo in torno.”
“Ti siamo molto grati che lo aiuti a scuola, è proprio un somaro. Però l’ultima volta che ho messo un po’ in ordine camera sua ho notato dei libri di fisica aperti e un quaderno pieno di calcoli”
In quel momento il cuore mi sobbalzò di colpo e incominciò a correre. Osservai il budino senza dire niente. Aaron e sua sorella era intenti a stendere la biancheria, perciò quel lieve imbarazzo non fu notato da nessuno.
Mi fece un tale piacere che Aaron studiasse tanto da farmi curvare gli angoli della bocca verso l’alto. Per la seconda volta stavo improvvisando un sorriso grazie alla persona più odiosa del mondo
.
 
“Aaron, stendi il futon (materasso Giapponese che funge da letto) nella vecchia camera di Ran” dato quest’ordine pensai che sicuramente la mamma non si ricordava che casino regnava in quella stanza, era diventata un magazzino.
Mia sorella si esonerò dall’aiutarmi, ma Ginevra mi raggiunse di corsa.
“I tuoi mi hanno convinto a dormire qua, mi dispiace” disse in tono sarcastico mentre spostava una scatola piena di vestiti non usati in corridoio.
Sorrisi ironicamente “A me invece dispiace che devi dormire proprio nella stanza accanto alla mia e non con me, sul mio letto” là sua reazione fu ovvia.
“Pervertito! Tu prova solo …” non finì la frase per fortuna, visto che arrivò anche mia madre a darci una mano. La figura della brava ragazza doveva farla sempre e comunque se non si trovava da sola con me o con le sue amiche.
 
Tutto d’un tratto, distesa tra quelle morbide coperte, la casa mi sembrò terribilmente grande da farmi sentire insignificante. Io non ero nessuno, io non avevo nessuno. Perché un’idiota come Valley aveva ciò che io non avevo? Mi rattristai per un attimo ora che ero da sola, ora che facevo i conti con la mia solitudine.
I miei occhi si inumidirono. Dio, no! Non in casa altrui almeno. Non la seconda volta in una giornata. Soffocai un singhiozzo stringendo i denti. Ne soffocai un altro mordendomi il labbro. Basta! Ginevra Wilson non poteva essere così fragile, Ginevra Wilson non era fragile! Quella non potevo essere veramente io, io non piangevo mai, mai, mai!

 
La sentivo. La mia stanza e la vecchia stanza di mia sorella, erano state divise in seguito al nostro crescere, perciò la parete non era molto spessa.
Sentivo Ginevra: un lamento soffocato da mozzarmi il respiro. Non riuscivo a dormire.
Mi alzai di scatto e con una mano mi portai indietro i capelli. Cosa fare? Le mie gambe si mossero da sole. Scesi dal letto e mi avvicinai alla porta. Uscii in corridoio.
La porta della stanza in cui la ragazza dormiva era socchiusa, potevo scorgere nel buio la sua sagoma raggomitolata su un lato che stringeva forte il cuscino a se. Decisi di avvicinarmi.
“Se continui così non riesco a dormire” sussurrai aprendo di più la porta.
Lei non si mosse. “Vai via!”
“Beh, fino a prova contraria questa è casa mia”
“La verginità invece è mia”
Questa pensava sempre a me come se fossi un maniaco sessuale. “Così non allenti la tensione”
“Ti odio Valley”
Entrai e chiusi la porta alla mie spalle. Non la guardai ma mi avvicinai alla finestra. La aprii. La luce della luna penetrò all’interno della stanza, le stelle si vedevano in cielo.
 
Perché era venuto da me? Facevo così pena mentre piangevo per ottenere tale pietà?
Affondai il viso nel cuscino rimanendo raggomitolata su me stessa. Con l’orecchio ascoltavo ogni movimento del ragazzo, ma non osavo guardarlo: dovevo avere una faccia orribile.
Silenzio. Niente. Ancora silenzio. Io aspettavo di addormentarmi, lui aspettava che io parlassi. Decisi di cedere, ne avevo bisogno e forse, quel tonto di Aaron era l’unica possibilità che la vita mi regalava. Un regalo senza ritorno, non potevo cambiarlo purtroppo.
“Mia mamma è ricoverata in quel posto da quando avevo 11 anni. Prima il lavoro, poi la salute, poi la famiglia. Pensa che mi ha chiamato Ginevra perché è stato il suo primo ruolo importante nell’ambito professionale del suo lavoro.” non mi chiese il mestiere di mia madre, continuai “Mio papà promette di passare più tempo insieme, ma mente. Alla fine sceglie il lavoro. Va raramente a trovare la mamma all’Istituto” Non fece domande nemmeno su mio padre “Non hanno avuto il tempo di darmi fratelli e sorelle. Tutto ciò che ho sono foto piene di bugie e un appartamento troppo grande per una persona piccola come me”

 
Non volevo interrompere quel suo piccolo sfogo. Si stava aprendo con me e ciò mi dava la possibilità di capire il significato di quel carattere rude, non riusciva a fidarsi di nessuno; di quell’atteggiamento solitario, era vissuta nella piena solitudine; e di quello sfogo, era troppo fragile da vergognarsene.
“Vorrei solo svegliarmi la mattina e sentirmi dire buongiorno, vorrei solo addormentarmi la sera augurando buonanotte, vorrei solo avere ciò che hai tu!”
Doveva essersi calmata perché finalmente vidi il suo volto riemergere dalle coperte. La luna mi dava modo di vedere gli occhi leggermente arrossati, ma nessuna traccia di lacrime. Era riusciva a rimuoverle.
Mi fissava con disprezzo. Io ricambiavo il suo sguardo con indifferenza. Entrambi eravamo troppo orgogliosi per cedere: io per abbracciarla tentando di darle il mio sostegno e lei per continuare a piangere.
 
Dire quelle poche frasi mi aveva fatto bene. Ora mi sentivo bene. Il pianto si era calmato e riuscivo a distinguere per bene Aaron illuminato dalla luna.
Una brezza notturna penetrava nella stanza dalla finestra aperta. Rabbrividii e mi rannicchiai su me stessa mettendomi seduta. Silenzio. Avrei voluto parlare.
Era così strano stare là, nella stessa stanza di Valley senza insultarlo, senza provare il piacere di farlo.
“Grazie.” sussurrai tirando leggermente su con il naso.

 
Nessuno dei due aveva intenzione di distogliere lo sguardo. Sorrisi dopo quella semplice parola che mi aveva rivolto. Sorrisi perché non avevo parole sensate da dirle. Il mio cervello non riusciva a formulare frasi per una situazione del genere. Mi avvicinai a gattoni verso di lei.
 
Si avvicinò a me. Rannicchiata su me stessa me ne restai immobile. Era molto vicino. Così vicino da potermi specchiare nelle sue iridi splendidamente verdi. Spostò il volto verso su, non più verso di me e sentii le sue labbra umide appoggiarsi sulla mia fronte. Mi baciò con irreale dolcezza mentre io restavo imbambolata a fissare di fronte a me la collana in argento che Aaron portava sempre al collo. Anche se i miei occhi erano puntati su quell’oggetto metallico la mia mente era altrove.
Una parola, e un batticuore improvviso partì.

 
“Buona notte” le sussurrai dopo averla baciata sulla fronte. Darle la buona notte rientrava nei suoi desideri. Perché lo stavo esaudendo? Perché non mi ero buttato su di lei come su tutte le ragazze?
In quel momento di veloce riflessione di accorsi di tenere a lei in maniera particolare. Avevo bisogno di riflettere. Avevo paura che per me, dopo oggi, niente sarebbe stato più lo stesso.
 
Valley sei un idiota, pensai nella mia testa. Questo suo gesto mi stava mandando nella confusione più totale senza darmi modo di riflettere.
Fece per alzarsi e abbandonare la stanza, in quel momento decisi di fare il gesto più stupido mai fatto in vita mia: lo trattenni. Gli afferrai un polso. Lui si voltò di scatto e io gli dissi “Resta. Sono già stata troppo tempo sola.”

 
“E se ti salto addosso?” volevo far tornare la nostra normale atmosfera a tutti i costi, forse era l’unica soluzione per scacciare la confusione.
“Ti ammazzo.” Beh, almeno nell’offendermi non ci perdeva mai gusto “Ma stranamente mi fido di te. E poi non ti ho chiesto di stare nello stesso letto, ma nella stessa stanza”
Mi sedetti nuovamente a terra accanto a lei. La osservai distendersi e mettersi sotto le coperte mentre teneva d’occhio i miei movimenti. Ero tentato: quella camicia da notte troppo grande le scopriva una spalla e le nude gambe erano sempre state ben in vista.
 
Spostai il cuscino verso l’esterno e mi presi solo un piccolo angolo “Spero che ti basti”
Lui si distese sul pavimento e con la testa sul cuscino. Eravamo molto vicini. Troppo vicini. Una vicinanza che stava facendo aumentare il mio battito del cuore. Tensione? Si, molta.
“Buona notte, Valley” dissi chiudendo gli occhi e girandomi dalla parte opposta alla sua. Non volevo vederlo.
“Buona notte, Ginevra” Dio, come era strano sentire il mio nome, per la prima volta, fuoriuscire dalla sua bocca, prodotto dalla sua voce, dalle sue corde vocali, da lui.

 
Per la prima volta non la chiamai per cognome, non so il perché di questo improvviso cambiamento. Quella notte non capivo il perché di molte cose:
La prima, perché mi trovavo nella stessa stanza della ragazza che odiavo di più al mondo;
La seconda, il motivo per cui mi sentivo particolarmente teso da non riuscire a chiudere occhio;
La terza, la tentazione di stringere Ginevra tra le mie braccia e augurarle la “Buona notte” all’infinito.




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