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di Shin83
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Never win first place, I don't support the team 
I can't take direction, and my socks are never
clean


 
Anthony Edward Stark, per tutti Tony, era un nerd. Magari non nell’accezione convenzionale del termine, ma per i suoi compagni di università lo restava.
Era all’ultimo anno e il primo della classe in tutte le materie scientifiche, inoltre il professore di fisica, al terzo anno gli aveva proposto di fargli da assistente da laboratorio, e lui aveva accettato senza pensarci due volte; questo bastava per essere etichettato un secchione dai fighetti di Georgetown.
Poco importava che avesse una ricca famiglia alle spalle e un carattere esuberante; ovviamente visto il suo curriculum universitario era anche il primo della lista per le ammissioni alle scuole di specializzazione del MIT, e per quelli che contavano era un motivo più che sufficiente per relegarlo ai gradini bassi della piramide sociale studentesca.
Anche “esteticamente” non era un nerd convenzionale: era un bel ragazzo, moro, barbetta curatissima, fisico asciutto, non era molto alto e non si vestiva neanche poi così male; dalle magliette che sfoggiava tutti i giorni, sicuramente era un fan delle band hard rock degli anni ’70 e ’80.
 
Tony non vedeva l’ora di prendersi quel benedetto diploma di laurea, andarsene a Cambridge, in Massachusetts, e mettere mano ai super sofisticati laboratori del MIT, ma soprattutto non vedeva l’ora di levarsi di torno tutti, o quasi, quei fighetti della squadra di basket.
Nonostante il suo sconfinato amore per la scienza e la smania di inventare sempre nuovi aggeggi, Tony era un tipo che sapeva divertirsi: da quattro anni, ormai, riusciva sistematicamente ad imbucarsi alle feste delle confraternite e rimanere quel tanto che bastava per dar fondo alle riserve alcoliche delle serate.
In più, aveva la fama di essere un tipo a cui piaceva rimorchiare tutti: ragazze o ragazzi, non faceva differenza.
I vertici della ‘casta’ del corpo studentesco, ovviamente, erano off-limits; per lo più riusciva a portarsi a letto opportunisti di vario genere, soprattutto per scippare un aiuto in matematica o per farsi offrire il pranzo.
 
Sapeva divertirsi, Tony, ma era una persona profondamente molto sola.
Con il suo patrimonio avrebbe potuto permettersi tranquillamente un appartamento di lusso appena fuori il campus, ma aveva comunque optato per una stanza al dormitorio universitario, aveva passato troppo tempo da solo durante la sua infanzia, e adesso cercava il più possibile di stare in mezzo alla gente.
E pazienza se lo prendevano in giro o se approfittavano di lui, era pur sempre meglio che sentirsi abbandonato, e poi era certo che un giorno avrebbe fatto le scarpe a tutti, avrebbe dimostrato quanto valesse Tony Stark. Anche a quella persona che era intoccabile, che guardava di nascosto a lezione e che disturbava parecchi dei suoi sonni.
 
***

Tony era tornato al campus prima che finissero le vacanze di Natale, voleva ultimare la sua relazione di Meccanica Quantistica sull’equazione di Klein-Gordon da allegare al suo infinito fascicolo per la domanda di ammissione al MIT; sapeva benissimo che sarebbe stato solo un di più, ma era un’ottima scusa per andare via da casa sua e per evitare le puntuali, irritanti lavate di capo di suo padre.
Il campus innevato e silenzioso piaceva a Tony, anche se lo preferiva affollato, così da non dover sentire troppo i suoi pensieri.
Il suo amore/odio per quel posto e per quella gente stava per finire: a luglio ormai mancavano pochi mesi.
 
Il giorno precedente al rientro massiccio degli altri ragazzi, finì prima in laboratorio (adorava la sua posizione di assistente: aveva diritto ad entrare ed uscire dall’ala scientifica come meglio credeva) e decise di andare in biblioteca a cercare un libro sulla Guerra Civile che gli sarebbe potuto tornare utile per l’esame di Storia II; suo malgrado, gli toccava studiare anche le materie umanistiche.
La sezione di storia era subito dopo quella di arte, e quasi gli prese un colpo quando vide una figura bionda seduta ad una delle scrivanie dell’area studio, immersa nella lettura di un tomo illustrato alto almeno quattro dita; non avrebbe saputo dire di cosa si trattasse, aveva notato a malapena i colori accesi stampati sulle pagine.
Il cuore iniziò a battere a mille, passò dritto a testa alta senza neanche salutare, ma controllando con la coda dell’occhio l’altra persona, la quale era talmente tanto catturata dal catalogo che sembrò non averlo neanche sentito passare.
Una  volta che Tony ebbe trovato il saggio che gli interessava, tornando indietro notò che la persona era sparita.
A quanto pareva, non era stato l’unico a rientrare prima dalle vacanze.
 
Quella notte non chiuse occhio: il pensiero di essere solo al campus con lui lo stava torturando.
L’indomani cercò di rimettersi in carreggiata, e dopo aver ingurgitato un bicchiere Venti di caffè Americano di Starbucks e due ciambelle al cioccolato, si chiuse in laboratorio per finire la sua ricerca.
Verso metà mattinata, il cellulare squillò: scocciato, controllò il nome sul display e notò con un leggero stupore che era il professore di Fisica II, per il quale faceva da assistente e che non era solito chiamarlo la mattina. Premette il pulsante verde del cellulare incuriosito di cosa avrebbe potuto dirgli.
“Buongiorno Prof. Hofstadter, mi dica pure.” rispose grattandosi la testa.
Ciao Tony, spero di non disturbarti, ma ho urgentemente bisogno di parlare con te, puoi raggiungermi nel mio uffici?”’ gli chiese gentilmente il docente.
“Certamente, cinque minuti e sono da lei.”
 

***

 

Everyday I fight a war against the mirror 
I can't take the person starin' back at me 
I'm a hazard to myself 



Steven Grant Rogers, segni particolari: praticamente perfetto.
Alto, biondo, occhi azzurri, fisico atletico, capitano della squadra di basket, studente discreto e fidanzato con una delle ragazze più in vista dell’università, insomma, era un cliché che camminava.
Apparentemente, non presentava alcuna sbavatura.
Aveva vinto una borsa di studio per la prestigiosa università grazie alle sue indubbie qualità nella pallacanestro, la sua famiglia piccolo borghese, altrimenti, non sarebbe mai stata in grado di permettersi  la retta di un college così importante.
I suoi voti erano buoni, soprattutto nelle materie umanistiche, in quelle scientifiche arrancava giusto per raggiungere gli obiettivi minimi.
Ma soprattutto, aveva grandi doti da leader, tutti (e soprattutto tutte) pendevano dalle sue labbra.
Non era un gran bullo, ma ogni tanto chiudeva un occhio quando i suoi compagni di squadra se la prendevano con gli “sfigati” del campus, anche se, quando esageravano, non si risparmiava con le ramanzine. Nel suo curriculum non mancava neanche qualche scazzottata, per lo più alle feste, in quanto non amava più di tanto essere contraddetto.
 
Era fidanzato fin dal primo anno con Peggy Carter, la ragazza più ambita di tutta Georgetown.
Tutti avrebbero scommesso sul loro matrimonio dopo l’università, erano l’incarnazione di tutto quello che i canoni del white privileged guys richiedevano.
Ma non era tutto oro quello che luccicava; dietro quella impalcatura di perfezione si nascondeva ben altro.
I due in privato avevano un’intimità inesistente, Steve toccava Peggy a malapena e lei ci stava insieme per prestigio, perché il biondo era pur sempre il capitano di una delle squadre di basket universitarie più importanti del Paese, perché comunque faceva rosicare di invidia almeno tre quarti del corpo studentesco femminile e sicuramente anche una parte di quello maschile.
Steve sapeva che Peggy  aveva una valida alternativa a lui in città, a Washington, da almeno un anno. E a lui andava bene.
 
Ma non c’era solo quello, dietro la candida facciata del ragazzo ideale di tutte le mamme d’America, c’era anche una domanda di ammissione alla scuola d’arte di Yale. Amava da sempre quella disciplina, sentiva quella passione arrivargli dalle viscere, ma era rimasta nascosta per sin da quando era un adolescente,  e a maggior ragione all’università e in una posizione come la sua. Le gerarchie studentesche universitarie erano spietate, e più sei in cima, più rischi di farti male quando cadi.
Appena ne aveva l’occasione, andava a rintanarsi in biblioteca, a sfogliare i cataloghi delle varie mostre in giro per il mondo e in alcuni dei suoi cassetti custodiva gelosamente vari sketch book pieni di suoi disegni.
Sognava di poter vivere dipingendo o magari insegnare storia dell’arte, contrariamente a quanto l’opinione comune lo aveva già ritratto: avvocato di prestigio, sposato con una bellissima moglie PR e pargoli biondi e bellissimi per casa; ma la sua più autentica e intima speranza per  il suo futuro era lontana anni luce da quello che il resto del mondo si aspettava da lui.
 
Ma soprattutto, c’era qualcosa che non avrebbe mai potuto ammettere pubblicamente fin tanto che fosse rimasto a Georgetown e fosse stato capitano della squadra di basket. Quel qualcosa era il vero motivo per cui non riusciva a toccare Peggy come un qualsiasi ragazzo innamorato avrebbe dovuto con la propria fidanzata.
Quando si era messo assieme a lei, aveva creduto di essere innamorato, ma alla fine del primo anno di università, aveva maturato la consapevolezza che non poteva essere quella bellissima ragazza mora e dalle labbra rosse la persona della sua vita. Aveva iniziato a poco a poco a ‘raffreddarsi’ con lei, senza mai però parlarle di quello che sentiva dentro. Continuava a portarsi dentro quel peso che lo stava lacerando, contando i giorni che lo separavano dalla laurea per fuggire lontano da tutto e da tutti.
 
***

Era rientrato due giorni prima degli altri al campus  dopo le feste di Natale, speranzoso di non trovare nessuno in giro così da potersi dedicare in totale tranquillità alla sua sezione della biblioteca preferita e per fare qualche schizzo sul suo bloc-notes in esterno, senza problemi di occhi indiscreti.
Aveva nevicato abbondantemente durante le feste, e il paesaggio universitario desolato ed imbiancato lo ispirava molto.
E poi aveva proprio voglia di godersi un po’ di solitudine, visto che tra allenamenti, lezioni, feste e quant’altro riusciva davvero poco a ritagliarsi un po’ di tempo per lui.
 
Alla vigilia del grande rientro, decise di passare l’intero pomeriggio in biblioteca, aveva scovato il catalogo di The Andy Warhol Show, una vecchia mostra allestita alla Triennale di Milano; nell’ultimo periodo si stava appassionando all’arte contemporanea, e la Pop lo intrigava particolarmente.
Mentre era preso nello studio delle famose stampe di Marilyn, sentì dei passi dietro di lui e si irrigidì. Non immaginava lontanamente di essere ‘in compagnia’ e cercò, con la coda dell’occhio, di capire chi c’era lì con lui. Quando realizzò chi fosse quella figura minuta, la sua rigidità non accennò a calare, anzi, si immobilizzò ancora di più fissando il tomo che aveva davanti e fingendo di essere stato così preso dalla lettura di non essersi accorto dell’intrusione.
Ma una volta che il ragazzo sparì dalla sua visuale, si fece prendere dal panico, mise al suo posto il catalogo e se ne tornò in camera alla velocità della luce.
 
Dormì poco e male quella notte, e l’indomani ebbe una brutta sorpresa quando andò a controllare i risultati di Fisica II: bocciato.
Si affrettò a raggiungere l’ufficio del prof. Hofstadter, non poteva permettersi la minima insufficienza, se voleva entrare a Yale, anche nelle materie che nulla avevano a che fare con arte.
Il docente, per fortuna, lo ricevette subito, e  dopo essersi accomodato un po’ tremante, Steve gli confidò le sue intenzioni post laurea. Per fortuna il professore, vista comunque la sua ineccepibile condotta accademica, cercò di venirgli incontro proponendogli di fargli rifare l’esame di lì a tre settimane.
“Ho avuto un’idea, Rogers,” gli disse in tono pacato, “Posso farle dare una mano da uno dei miei assistenti. Se ha un attimo di pazienza, lo chiamo subito.”
“Perfetto, professore. Sarebbe davvero un grande aiuto,” rispose Steve visibilmente sollevato.
Il professor Hofstadter prese il telefono e compose un numero.
“Ciao Tony, spero di non disturbarti, ma ho urgentemente bisogno di parlare con te, puoi raggiungermi nel mio ufficio? il docente attese la risposta dall’altra parte e con un sorriso riattaccò.


 


Rieccomi qua.
Tento la strada della long, vi avviso: sono terrorizzata dal risultato e non so con che frequenza aggiornerò perché voglio provare a fare una cosa carina e poi la mia adorabile beta è sotto esame, quindi non posso incatenarla al pc a correggere i miei danni.
Ho già scritto altro, che è in via di revisione.
Sì, se ve lo siete chiesto, mi sono ispirata a P!nk per il titolo e gli incipit. Le sue canzoni saranno un po' il filo conduttore della storia: questa è l'unica cosa di cui sono certa al 100%, per scoprire il resto, se ne avrete voglia, vi toccherà aspettare volta per volta.

Un paio di grazie doverosissimi:

- Alla mia beta Marti, che so già che prima o poi mi odierà a morte a stare appresso a me, la mia sintesi e i miei passati remoti.
- Alla Ila che mi ha fatto il bannerino <3
- A Zombietonbo che mi ha permesso di usare uno dei suoi sketch per la grafica. (Questo è l'originale) Thanks Darling <3

Grazie anche ad Aru, Fritze e NCSP e gli altri che hanno il fegato di leggere tutto quello che scrivo (anche se, per ora, è proprio poco).

Shamless self promotion finale: sono anche su Ask, per farvi tranquillamente i fattacci miei e ho anche un blog, Il Diario (poco) Segreto di una Fangirl, se vi va di leggere i deliri di una pazza e magari farvi due risate! :)

Alla prossima!


 





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