On the
abyss’ edge
Perché cambiare non è facile…
Luna piena.
Una volta, ne avrebbe gioito. Una
volta, avrebbe esultato, sarebbe uscito all’aperto, reclinato il capo per
riempirsi gli occhi del suo bagliore e avrebbe dato libero sfogo all’istinto,
rinchiudendo la coscienza in uno dei recessi della sua mente e dando inizio
alla sua opera di distruzione selvaggia.
Adesso, quell’astro lucente gli portava solo un’immensa
malinconia, un senso confuso di nostalgia e rimpianto, e una fitta di dolore
che serpeggiava dalla base del collo alla cicatrice della coda, si concentrava
e poi tornava indietro, senza sosta.
Socchiuse gli occhi, cercando di
scivolare nell’incoscienza. Almeno avrebbe smesso si avvertire quella stretta
al petto che sentiva da mesi. Una fitta che sentiva alla mattina, quando apriva
gli occhi e vedeva la sua donna ancora addormentata accanto a lui, fino alla
sera, quando lei si addormentava soddisfatta tra le sue braccia. Almeno avrebbe
avuto un po’ di sollievo. Ma l’incoscienza non venne. Quella sera la luna
voleva la sua completa attenzione; di più, voleva saldare un conto rimasto
aperto troppo, troppo a lungo. Un conto col suo destino.
Si decise a riscuotersi dal torpore e si alzò dalla
balaustra del balcone, rientrando silenziosamente in casa. Movendosi come
un’ombra, aprì l’armadio e scorse gli abiti appesi; poi afferrò la vecchia
battle suit, ricostruita intatta dopo la vittoria su Cell, e la indossò
velocemente, tentando di scacciare la fastidiosa sensazione di stare
sbagliando, di stare commettendo l’ennesimo errore della lunga fila che
costellava la sua vita. L’ultima volta che l’aveva indossata, quella tuta,
provvista anche di pettorali, aveva deciso di smettere di combattere. E in un
certo senso, l’aveva fatto. Non di allenarsi, quello mai, non si sarebbe mai
rassegnato a fare da eterno secondo a Kaaroth…ma da quella battaglia, da quella
perdita, il suo animo non si era risollevato mai più. Aveva lottato
contro il suo eterno nemico, cercando di ritrovare la via che aveva perso molti
anni prima, aveva addirittura lottato contro Majin buu ma anche lì…con uno
spirito diverso, non con la freddezza degna del Principe, no. Niente più
freddezza, niente più ferocia, niente più amore per la morte. Amore per
qualcos’altro. Amore per una donna dai capelli turchini e gli occhi azzurri
come il cielo di quel dannato pianeta. Amore per un moccioso con i capelli
lilla che lo guardava adorante ad ogni allenamento. E amore, sì, anche quello,
per un giovane uomo che aveva lottato senza remore armato solo di una spada e
di speranza.
Chiuse l’anta di scatto, restando a guardare a lungo la
mano appoggiata al legno. Una mano da molto tempo pulita, da molto non lorda di
sangue, da molto inutilizzata per lacerare, squartare, uccidere. Da quant’è che
non ammazzava qualcuno? Tanto, a volte troppo tempo. Specie nelle notti di luna
piena. Notti in cui gli arti gli formicolavano bramando azione, notti in cui la
gola gli ardeva chiedendo sangue, notti in cui i frammenti dolorosi della sua
anima andata in frantumi premevano contro il petto come spilli appuntiti…notti
come quella. Dannazione.
Si allontanò, e ritornò alla finestra, aprendola e
respirando l’aria gelida della notte a pieni polmoni. No, non era quella l’aria
che voleva respirare. Densa, annebbiata dai fumi del sangue, carica dell’odore
della morte…l’aria che aveva respirato fino al suo arrivo su quel pianeta
azzurro. Non riusciva neanche ad ammetterlo, ma improvvisamente aveva avuto
nostalgia di quell’aria. Nostalgia del suo vecchio modo di vita, nostalgia
–diavolo!- addirittura dei suoi vecchi compagni di squadra…
-che cosa vuoi da me, dannata bastarda?- sibilò furioso
all’astro rotondo che sembrava fissarlo, beffardo, dalle profondità dello
spazio. E che, ovviamente, non gli rispose, e rimase lì a riempirlo di frustrazione.
Fece per alzarsi in volo, ma una voce lo riscosse,
arrivandogli al cervello come una coltellata alla schiena. O per lo meno, il
bruciore era quello
-Vegeta, amore…dove stai andando?-
Buffo. Lui, rinomato portatore di morte, strumento di
distruzione, essere senza cuore che incuteva terrore…lui, ora, era chiamato con
l’epiteto più dolce di tutti. Chiuse gli occhi, strinse i denti, serrò le
labbra e i pugni. Non era rabbia. Solo….Un dolore allucinante.
Si girò di tre quarti, quel tanto che gli bastava per
inquadrare per intero la sua donna, e la scrutò a lungo, quasi la stesse
vedendo per la prima volta. I lunghi capelli azzurri, gli occhi colore del
cielo, le forme perfette…lo sguardo, un po’ preoccupato, un po’ incuriosito…era
cambiata dalla prima volta che l’aveva vista, su Namecc. Era cresciuta, era
diventata più matura…già, era proprio cambiata. Come lo era lui.
Ma lui lo voleva davvero, quel cambiamento?
-tornerò- rispose in un sussurro. “come, non lo so”
aggiunse mentalmente a se stesso, perché sarebbe cambiato, lo sapeva benissimo.
Non poteva continuare a camminare su quel sentiero, doveva decidere da che
parte stare…e la luna, solo lei, solo lei poteva concedergli il permesso di
farlo. Doveva affrontarla. Doveva affrontare se stesso.
Uscì, senza avere il coraggio di riguardarsi le spalle,
nel timore di trovare quelle iridi blu e perdere ogni baldanza. Doveva, doveva
farlo, anche se avrebbe sofferto, anche se sarebbe stato male, anche se avrebbe
smarrito un’altra volta il suo credo o se avesse perso tutto quel che aveva
creato durante il suo soggiorno su quel pianeta…lui doveva farlo. E non avrebbe
rinviato quel confronto un minuto di più.
Aumentò la velocità, sentendo l’aria sferzargli
violentemente il viso come tante lame ghiacciate. Avrebbe posto finite a quel
lacerasi tormentoso della sua anima. O luce o buio. Per sempre.
E alla fine
sono qui, sull’orlo del baratro. Un passo avanti, e precipiterò nelle tenebre
della mia anima, perderò la mia coscienza e ritroverò il mio essere. Un passo
indietro, e mi salverò, il mio cuore si scioglierà nella luce e sarà schiavo
d’Amore. Ora, luna dannata, dimmi: cosa che vuoi che faccia? Avanti indietro?
Luce o buio? Perdizione o purificazione? Sayian o terrestre?
Vegeta fissò per un istante il satellite luminoso, in
attesa di un qualsiasi segno di risposta, poi tornò a fissare lo strapiombo e
il mare che ruggiva ai suoi piedi. Di sicuro, sarebbe sopravvissuto alla
caduta, bastava utilizzare la levitazione; ma se l’avesse fatto, se davvero
avesse fatto quel passo, non era la vita che avrebbe perso. Se si fosse
rialzato in volo, l’avrebbe fatto per distruggere, segno che il suo istinto
aveva vinto in quello scontro eterno per il controllo della sua anima. Sarebbe
tornato ad essere il principe sanguinario, senza popolo né regno, senza
controllo né pietà. Quello che era stato per i primi trent’anni di vita, quello
che era morto contro Freezer, quello che la scomparsa del Trunks venuto dal
futuro aveva mandato in mille pezzi, quello che Babidi aveva tentato di risvegliare
e che Kaaroth aveva definitivamente annientato. Quello che era dentro di lui,
frantumato, urlante vendetta.
Se si fosse tirato indietro… se si fosse allontanato, se
fosse andato da qualunque altra parte che non fosse avanti, Kaaroth, Bulma, i due
Trunks, addirittura la piccola figlia appena nata, avrebbero vinto. Lui avrebbe
accettato, avrebbe smussato completamente i lati spigolosi del suo carattere,
sarebbe diventato docile e addirittura gentile. Avrebbe fatto quello che
volevano. Glielo doveva.
Perché anche se il suo incubo non era ancora finito, vi
erano filtrati tanti raggi di luce.
Che l’avevano messo in crisi.
Da un lato gli ronzava fissa in testa la voce di suo
padre, che gli diceva che era il migliore per nascita, che era destinato ad essere
il più forte, che il suo sangue non gli avrebbe mai lasciato di essere debole.
Che non lo sarebbe mai stato. Gli ronzavano in testa gli insegnamenti di Napa,
atti ad esaltare la sua discendenza, che lo ponevano al culmine dei livelli di
forza, che gli prospettavano un futuro da dominatore del mondo. Gli ronzava la
rabbia che aveva provato quando Freezer lo umiliava, la gioia di sentirsi vivo
quando le vite altrui si spegnevano tra le sue mani, l’inebriante pulsazione di
potere dopo ogni massacro.
Dall’altra gli risuonava la voce di Kaaroth, che gli
diceva che solo le azioni pure erano degne di lode, che lo spronava a
combattere al suo fianco contro il nemico di turno, che rinnegava il suo sangue
sayian, che gli diceva addio, che si sacrificava per salvare il mondo, che lo
considerava come un fratello e che mai, neppure una volta, se l’era presa
quando lo trattava male e incassava tutto con il suo sorriso. Sentiva Bulma,
vedeva il suo viso, le sue labbra, i suoi occhi, le sue lacrime, la sua gioia e
il suo dolore. Vedeva Trunks, quello del futuro che lo ammirava in silenzio,
che agognava il suo affetto, che era morto davanti a lui, e quello del
presente, che lo adorava, che si era trasformato da piccolissimo, che
sopportava tutto per vederlo contento e orgoglioso di lui, che si era lanciato
senza remore a soccorrerlo contro il mostro rosa.
Un turbine che lo afferrava, che lo spingeva avanti e
indietro, che non gli dava tregua, che scompigliava quei frammenti aguzzi e li
rimestava in continuazione, che riapriva ferite vecchie di anni e che lo faceva
avvampare di passione opposte, odio, rabbia, amore, ardore.
Reclinò il capo, fissando con odio disperato la luna. Se
solo non fosse stato così difficile, se solo avesse potuto scegliere in maniera
meno indolore…i ricordi delle sue “imprese”, i morti, le stragi, il dolore,
l’umiliazione, la solitudine, l’indifferenza…si mischiavano all’amore,
all’affetto, alla dolcezza, alla considerazione.
Si prese il capo tra le mani, affondando le dita tra i
capelli, le unghie nella pelle. Non voleva ascoltare quelle voci, non voleva
provare quelle sensazioni, era tutto così dannatamente difficile. Se solo…se
solo avesse potuto…doveva scegliere, ma quell’incertezza gli dilaniava l’anima.
Si accasciò a terra, e urlò contro il cielo tutto il suo
malessere e la sua frustrazione, aumentando di pari passo l’emissione
dell’aura, illuminando a giorno tutto il promontorio. Non riusciva più a
sopportarlo; se fosse andato avanti, se fosse tornato ad essere un sayian
sanguinario, non avrebbe potuto sopportare lo sguardo doloroso che quelle
coppie di occhi azzurri gli avrebbe rivolto, ma se fosse tornato indietro non
avrebbe tollerato la consapevolezza di avere tradito le sue origini, di avere
tradito i suoi ideali. Non avrebbe tollerato il disprezzo dei suoi simili. Ed
era dilaniato, divorato dentro da quell’insicurezza che lo attanagliava come
una morsa letale senza fine. Fissò con odio l’astro, stringendo i pugni
talmente tanto da farli sanguinare
-allora, lurida bastarda? Ti sei decisa? AVANTI O
INDIETRO?- urlò con rabbia e disperazione, sentendo che le lacrime stavano per
sgorgargli dagli occhi, inesorabili e spietate, come condanna della sua
debolezza. Perché questo lui era, debole: talmente debole da non saper
scegliere il suo percorso, talmente debole da rimandare la sua decisione a un
pezzo di roccia appostato nello spazio, come se questo avesse potuto togliergli
la responsabilità di quello che ne sarebbe conseguito. E la luna era lì, a
ridere beffarda nella sua profondità, quasi godesse della sua sofferenza, e
volesse ricordargli che sì, era debole, che sì, Kaaroth era più forte di lui,
che sì, lui non aveva mai dubitato di se stesso, che non aveva mai attraversato
una crisi del genere.
O forse…
Gli tornarono in mente come un lampo, come un fulmine a
ciel sereno, parole che il suo eterno rivale aveva pronunciato qualche anno
addietro, tra un combattimento che avrebbe dovuto decretare la fine di uno dei
due e che invece era finito nel nulla, come ogni conflitto tra i due. Sempre
l’altro a vincere, ma mai che ci mettesse la parola fine. Se lo ricordava,
anche se all’epoca aveva la mente stravolta dal desiderio di ucciderlo…
“avremmo dovuto essere come fratelli, Vegeta…”
Fratelli…non aveva mai pensato a quelle parole, mai come
in quel momento. E la verità gli si apriva di fronte agli occhi: lui non
doveva, non poteva, andare avanti, scendere nel baratro, perché avrebbe
lasciato qualcuno alle sue spalle, qualcuno che era la sua ossessione nel bene
e nel male, qualcuno che odiava solo per il dannatissimo fatto che si
considerava simile a lui al punto di chiamarlo fratello, che lo aveva
risparmiato per poter continuare ad esserlo, che lo rispettava, che non lo
avrebbe lasciato solo neanche se avesse imboccato la più cupa di tutte le
strade, perché sarebbe stato lì a ad assillarlo nel pensiero di stare
irrimediabilmente sbagliando. Anche Kaaroth attraversava le sue crisi, per il
semplice fatto che era suo fratello, che anche lui aveva dovuto cambiare
e soffocare il suo istinto per qualcosa che aveva scelto. Eccola lì la sua
forza: lui aveva scelto. Non aveva solo dimenticato; avrebbe potuto fare
qualunque cosa, qualunque, e nessuno avrebbe avuto la forza di fermarlo.
Ma lui no, perché aveva scelto, aveva scelto la luce. Aveva scelto di
allontanarsi dal baratro, ma era comunque rimasto lì nei dintorni, perché aveva
lasciato sull’orlo qualcuno, qualcuno che come lui amava combattere, che come
lui amava la propria donna, che come lui amava i propri figli, che come lui
poteva cambiare, che come lui poteva scegliere. Scegliere di essere diverso,
scegliere di non affogare nel sangue, scegliere di essere forte per uno scopo,
scegliere di essere luce. Un fratello. Lui.
Stavolta non ci
sarebbero stati maghetti da strapazzo a fargli sbagliare strada, non avrebbe
dovuto farsi esplodere per dimostrare di valere qualcosa. Avrebbe lottato per
qualcosa, per qualcuno. Avrebbe lottato per i sogni che si erano infilati nel
suo lunghissimo incubo. Avrebbe lottato per loro.
Si rialzò,
tirando goffamente su col naso e tentando di ricomporsi. Il cielo notturno si
stava lentamente colorando di rosso e azzurro, mentre la luna, sua inseparabile
compagna, si era un po’ nascosta dietro un lieve velo di nebbie. Poteva
cambiare, poteva scegliere. Non poteva dimenticare. Ma poteva farcela. Lei
sarebbe rimasta lì a ricordargli chi era stato, e il patto stretto quella
notte, per indicargli dove voleva andare. Lontano dal baratro.
-sai
Kaaroth? Avevi ragione. Ci assomigliamo più di quanto sembra- sussurrò
con un sorriso malinconico. Forse, dopotutto, poteva essere anche lui un sayian
dal cuore buono. Bastava cambiare un altro po’.
Non troppo, però. Un principe resta sempre un principe. E
lui, era il Principe.
S’incamminò, voltando le spalle all’abisso, al mare che
rumoreggiava al di sotto, alle poche tenebre che resistevano all’aurora,
diretto verso casa, verso la sua donna e i suoi figli.
Forse, era arrivato il momento di svegliarsi.
Ok, solo due parole…come avrete capito, è ambientata dopo
Majiin buu ma prime della fine dello zeta, ho fatto un’allusione brevissima a
Bra…tecnicamente sarebbe un AU visto che la luna è presente, però dai, è una
sottigliezza!
Ringrazio anticipatamente chi la leggerà e la
commenterà, spero vi sia piaciuta e di non aver reso vegeta troppo “romantico”.
A presto! Wolvie91